2006

G. Gozzi, F. Martelli (a cura di), Guerre e minoranze: diritti delle minoranze, conflitti interetnici e giustizia internazionale nella transizione alla democrazia dell'Europa centro-orientale, il Mulino, Bologna 2004, pp. 424, ISBN 8815101144 (*)

Questo volume collettaneo, frutto di una ricerca interdisciplinare condotta dal «Centro per gli Studi costituzionali, le culture, i diritti e le democrazie- Europa, Eurasia e Mediterraneo», si propone di offrire una visione della complessità dei processi di transizione alla democrazia e all'economia di mercato che si sono verificati nei paesi dell'area balcanica e in alcuni paesi appartenenti all'ex Unione Sovietica. Ciò che contraddistingue positivamente questa raccolta di saggi rispetto alla maggior parte degli studi pubblicati recentemente su argomenti affini, è certamente la volontà di rifuggire dalla tentazione di fornire attraenti certezze interpretative delle transizioni violente che hanno sconvolto l'Europa. La strada battuta è quella di rendere conto dei fenomeni esaminati in tutte le loro complesse articolazioni.

Il volume prende le mosse dal riconoscimento di una sorta di «paradosso storico», per cui il crollo del sistema socialista, che era stato accompagnato da una serie di inedite aspettative di liberalizzazione e di irenismo globali, ha avviato invece, proprio nel centro di quell'Europa ritenuta forse prematuramente «al di là della storia», una serie di transizioni conflittuali che hanno fatto emergere tutte le contraddizioni implicite nella dimensione postmoderna.

Il ruolo delle minoranze, sia come vittime di violazioni dei loro diritti, sia come soggetti attivi capaci di prendere il controllo politico-militare del territorio, viene scelto come lente analitica attraverso cui ricostruire la transizione alla market democracy nei Balcani. In questo senso, i diritti delle minoranze sono considerati «l'indicatore, in base al quale valutare il livello di recepimento del concetto occidentale di democrazia nei paesi ex-comunisti». In effetti, la contrapposizione tra un «nazionalismo dominato» e uno «dominante» rappresenta una problematica ancora aperta non solo da un punto di vista storico-interpretativo, ma, soprattutto, da un punto di vista politico come testimoniano le ferite tuttora aperte in Kosovo.

In virtù dell'impostazione interdisciplinare del libro, l'analisi proposta esplora tutte le prospettive principali delle scienze sociali, dalla storia alla filosofia politica, dal diritto internazionale alla psicologia, non rinunciando a trasformare gli approfondimenti specialistici dei rispettivi case studies in occasioni per prendere posizione nei riguardi delle più note teorie generali sulla guerra (Tilly, Kaldor) e sul multiculturalismo (Kymlicka).

I dodici saggi sono raccolti in due sezioni distinte ma che rinviano dialetticamente l'una all'altra.

La prima sezione è dedicata alla ricostruzione e alla descrizione storico-politica dei processi costituenti che sono oggetto della ricerca. I temi trattati spaziano dalla situazione delle minoranze tedesche, con particolare riferimento agli effetti del processo di allargamento dell'UE sull'etnopolitica nei paesi dell'Europa centro-orientale (Wolff), alla «questione ungherese» e al ruolo decisivo ricoperto dai vari nazionalismi nella costruzione della Nazione (Nation-building) in queste aeree (Bottoni). Anche il caso della Cecenia viene affrontato attraverso un accurato esame dell'identità del popolo ceceno e della storia delle relazioni russo-cecene che si snoda lungo le ombre di quasi due secoli di scontri, fino alle «tenebre del presente conflitto» ricominciato nel 99' e giustificato da Mosca, dopo l'11 settembre, come una faccenda interna riconducibile alla lotta al terrorismo internazionale (Tommasi). Ampio spazio è dedicato allo sgretolamento della Repubblica federale di Jugoslavia. Alla luce della rilevanza decisiva che ha assunto la forte strumentalizzazione della storia medievale di questo paese nella legittimazione dei piani nazionalistici serbi attraverso un potente uso pubblico della storia inaugurato da Milosevic. Particolare attenzione viene dedicata alla ricostruzione minuziosa del mito del «sacro lignaggio» su cui si fonda l'identità serba, evitando tuttavia di incappare negli approcci semplificatori degli studiosi occidentali, che con l'obiettivo di smascherare queste strumentalizzazioni hanno finito per cadere nell'errore opposto, ossia negare la complessità dei retaggi culturali (Martelli). Uno sguardo disincantato viene anche lanciato sugli approcci internazionali di conflict resolution, puntando in particolare il dito verso le forti pressioni internazionali che hanno eterodeterminato la creazione del nuovo Stato bosniaco e della sua nuova Costituzione finendo per rappresentare un importante «vizio d'origine che mina alla radice la possibilità di dar vita ad una democrazia costituzionale e comporta invece l'esistenza di uno stato multinazionale bloccato nel suo funzionamento dall'irrisolta opposizione dei diversi nazionalismi» (Gozzi). L'argomento dolente del gap che continua a sussistere tra proclamazione dei diritti e loro effettiva protezione viene affrontato, invece, con riferimento alla cultura dei diritti umani e delle minoranze in Serbia. Un'accurata analisi della recente «Carta costituzionale dell'Unione statale di Serbia e Montenegro» adottata nel 2003 ed integrata da una più specifica «Carta dei diritti e delle libertà civili dell'uomo» rivela un evidente «miglioramento normativo rispetto alle costituzioni precedenti», a cui tuttavia non sembra fare seguito né un miglioramento della situazione reale in cui versano i diritti delle minoranze, né una diffusione della cultura dei diritti nella società civile serba (Hasanbegovìc). Non a caso, la Serbia rappresenta un caso emblematico di «democrazia illiberale», dimostrando come la democrazia, se non procede di pari passo con lo stato di diritto, sia insufficiente a garantire di per sé il riconoscimento e la promozione della diversità delle etnie. In verità, la storia contemporanea dei Balcani, e non solo, testimonia proprio come l'esportazione ex abrupto della democrazia in società divise e conflittuali ha molte probabilità di finire per fomentare il nazionalismo, il conflitto etnico, e in certi casi per fino la guerra civile.

Il divario che esiste tra la retorica dei diritti e la carente volontà politica di trasformare questa retorica in realtà vivente è un problema che si riscontra tuttavia anche nelle democrazie consolidate, a volte persino in misura maggior che nelle giovani democrazie dell'Europa dell'Est, le quali per poter accedere all'UE e/o alla NATO, accettano che le loro politiche vengano 'condizionate' e sottoposte a monitoraggi internazionali. Il caso della Grecia, definita nella sua Costituzione una «nazione singola, con una fede e una lingua comuni» a dispetto della sua realtà multietnica, rappresenta un esempio di violazione dei diritti delle minoranze in seno a democrazie mature e dimostra come «il consolidamento dei diritti umani e delle minoranze non consegue, per via automatica, al consolidamento della democrazia, ma è pure un problema di nation-building e di nation-maintenance, ovvero un punto su cui convergono probabilmente tanto le democrazie vecchie come le nuove» (Papanikolatos).

La seconda parte del volume è dedicata alle conseguenze giudiziarie e psicologiche dei conflitti che hanno insanguinato le transizioni politico-economiche nell'Europa centro-orientale. Un saggio ripercorre le origini e il ruolo delle forze armate jugoslave nel conflitto che ha segnato lo smembramento definitivo dell'ex-Jugoslavia, e finisce per assumere una posizione critica nei confronti della «semplificazione modellistica» che caratterizza la teoria delle «nuove guerre» della politologa britannica Mary Kaldor (Dalpane). Dopo un'analisi preliminare del nesso violenza/sicurezza/politica che ha impregnato la sintassi politica nelle zone periferiche del Sud-Est europeo (Strazzari), il discorso si sposta sulle problematiche connesse ai traumi psichici che possono insorgere negli operatori umanitari che operano in contesti caratterizzati da una straordinaria violenza sociale (Brunori-Risoldi).

Infine, i restanti saggi affrontano le trasformazioni giuridiche e giudiziarie che si sono prodotte a livello internazionale a seguito del conflitto nell'ex Jugoslavia, ed in ossequio al principio ex injuria jus oritur. Di fatto, le ricadute di questa guerra sulla giurisdizione penale internazionale sono tali da aver portato, dopo quasi cinquant'anni dall'esperienza controversa del tribunale internazionale di Norimberga, all'istituzione nel 1993 di un Tribunale penale internazionale ad hoc autorizzato a giudicare sulle violazioni gravi del diritto internazionale umanitario commesse durante questo conflitto. Rispetto al tema spinoso dei fondamenti giuridici del tribunale stesso, si ricorda dettagliatamente come la Camera d'appello del Tribunale, replicando all'obiezione d'illegittimità mosse dalla difesa di Tadic, abbia fondato la legittimità del Tribunale «non solo sulla lex, ossia sul diritto positivo internazionale, ma soprattutto sullo ius», ovvero sui principi comuni del rule of law internazionale (Manzini).

Il tema della giustizia penale internazionale rinvia anche alle problematiche connesse alla creazione della Corte penale internazionale, la quale, se da un lato realizza il progetto kelseniano di pace attraverso il diritto (penale), dall'altro rischia di aprire squarci nelle relazioni internazionali, soprattutto a causa sia dell'atteggiamento ostile nei confronti della Corte che hanno adottato gli Stati Uniti promuovendo accordi multilaterali e impunity agreements bilaterali, sia dei possibili punti d'attrito che si possono verificare tra Corte e Consiglio di Sicurezza, alla luce della controversa risoluzione 1422 che autorizza il CdS a sospendere per 12 mesi, con possibilità infinita di rinnovo, l'azione della Corte nei confronti di uno stato terzo. Ad ogni modo, quella della giustizia penale internazionale si è anche rivelata, almeno per il momento, una delle rare aree in cui l'Unione Europea è riuscita ad esprimersi con una voce unanime nel quadro della famigerata PESC (Balboni).

Per un'analisi accurata della giustizia penale internazionale il volume non poteva mancare di menzionare il fenomeno che la dottrina definisce con il termine transitional justice o post conflict justice, e che negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più centrale nei processi costituenti e nella legittimazione dei nuovi sistemi democratici. Alla luce proprio della sua funzione meta-giudiziaria di «giudicare il passato» per «costituire il futuro», la tendenza della comunità internazionale, o delle singole potenze occidentali, in primis degli Stati Uniti, di influenzare la scelta locale dei modelli di giustizia di transizione, si configura come un ennesimo tentativo di «eterodeterminazione» dei nascenti processi politici e giuridici nazionali (Lollini). Si possono allora bene intuire le ragioni dell'ostilità che si registra in Africa, in Asia, e nell'Europa sud-orientale nei confronti di questa nuova filosofia del diritto internazionale, le cui implicazioni riecheggiano pratiche imperiali o colonialiste.

In conclusione, tutti i saggi, nonostante la loro differenza tematica e prospettica, convergono nell'interpretare i conflitti etnici come la «conseguenza, piuttosto che la causa delle lotte politiche» che hanno insanguinato l'ultimo decennio del novecento europeo, mettendo in luce come a scatenarli non fu tanto il «potere della differenza», quanto la «differenza di potere».

Alessandro Calbucci

*. Desidero ringraziare la Rivista Il Contesto per avermi autorizzato a pubblicare una versione lievemente modificata della recensione che uscirà sulla Rivista nel primo Numero del 2006.