2005

G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Boringhieri, Torino 2003, pp. 248, ISBN 88-339-1256-6

Passaggio a Occidente è un tentativo di riflessione sulle trasformazioni che la globalizzazione produce sul nostro modo di immaginare la società e la politica. L'obbiettivo di Marramao è quello di offrire una ricostruzione del significato di «globalizzazione» che si sottragga alle opposte tentazioni di ridurre il fenomeno a omologazione culturale - per esempio, Fukuyama - oppure a esplosione incontrollata delle differenze - Huntington. Ne deriva un percorso di grande spessore teorico che intreccia globalizzazione, secolarizzazione, tecnica e politica per approdare a una diagnosi finale della globalizzazione come «passaggio a Occidente» di tutte le culture, transito verso la modernità che trasforma non solo le culture «altre» ma anche l'Occidente stesso. Il libro ha una struttura «a raggiera», in cui un lungo saggio iniziale, inedito, che espone tutte le tesi principali del volume attraverso un percorso unitario, è seguito da una ghirlanda di testi più brevi, quasi tutti già pubblicati, che riprendono e sviluppano in maniera più articolata alcuni temi contigui all'argomentazione principale. Più in particolare, il terzo saggio verte sul tema della sovranità; il quarto e il quinto si soffermano su alcuni aspetti dell'opera di Carl Schmitt e Karl Polanyi; il settimo affronta il Trattato sulla tolleranza di Voltaire; il nono, infine, concerne l'Unione Europea. Nell'esposizione seguirò la traccia del primo saggio, dal titolo suggestivo: «Nostalgia del presente», facendo riferimento occasionalmente ad alcuni degli altri testi contenuti nel volume.

Il punto di partenza della riflessione di Marramao consiste nel rilevare l'ambiguità semantica che si cela sotto il dualismo tra i termini «globalizzazione» e «mondializzazione». Si tratta di due termini chiave che rinviano a nodi semantici distinti - mundus e globus - che, in una certa misura, riassumono lo spessore concettuale del fenomeno globalizzazione. Il termine «mondializzazione», secondo Marramao, evoca temi e interrogativi classici di filosofia della storia, da Hegel fino a Nancy; pone in questione il significato del processo attraverso cui le tecniche della comunicazione hanno trasformato la nostra percezione del mondo stesso, abbattendo i confini tra «mondi» separati e forme di vita che un tempo erano distinte. Se in questo senso «mondializzazione» lascia agire soprattutto l'asse temporale, «globalizzazione» porta in superficie la dimensione spaziale. La vicenda della globalizzazione è la vicenda della nuova definizione della spazialità che emerge a partire dalle grandi scoperte geografiche e che viene sempre più riaffermata dalle successive accelerazioni nel progresso delle tecniche di comunicazione.

In che modo è possibile far interagire le costellazioni semantiche di mundus e globus? In che modo è possibile «assumere il globale all'interno della crisi della mondializzazione» (p. 21)? La strada seguita da Marramao, riprendendo alcuni profetici spunti di Paul Valéry, passa attraverso una riflessione sistematica intorno alle categorie di «globalizzazione» e «secolarizzazione». A questo proposito, Marramao delinea un complesso percorso che tocca le teorie sociologiche di Ottavio Ianni e Renato Ortiz, di Niklas Luhmann e Ulrich Beck, per approdare alla tesi di Rifkin della «fine del lavoro». La conclusione è che le nuove tecnologie, nel loro effetto di «delocalizzazione mondializzante», rendono obsoleti i modelli classici di integrazione sociale, introducendo un nuovo modo di intendere la dimensione globale dei problemi. Per descrivere questa nuova veste Marramao si serve della nozione di «glocale» introdotta da Roland Robertson. Secondo Marramao il glocale è la dimensione specifica che i problemi assumono nel contesto della globalizzazione. Questa dimensione è percorsa da due opposti vettori: da una parte, «il trend 'sinergico' del globale, rappresentato dal complesso tecnoeconomico e finanziario»; dall'altra il vettore «'allergico' del locale, rappresentato dalla turbolenza delle differenti culture» (p. 38). La conseguenza più importante è data dalla circostanza che nello spazio glocale cessano di essere chiaramente percepibili le opposizioni e le differenze che la modernità aveva istituito. In primo luogo - e qui Marramao segue da vicino le elaborazioni di Arjun Appadurai - scompare l'antitesi tra società tradizionali e società moderna: il locale, immerso nella «mediazione elettronica globale» perde i suoi «ormeggi ontologici» per ritirarsi nella sfera dell'immaginazione. La tradizione diventa una risorsa a cui attingere per reinventare la propria identità locale. Ma questa nuova moltiplicazione delle tradizioni e delle identità lascia emergere prepotentemente il tema della differenza. Una differenza che, prima ancora di costituire le differenze culturali, possiede uno spessore specificamente politico.

Per comprendere la dimensione politica della differenza bisogna focalizzare il principale evento politico della globalizzazione, vale a dire il declino del grande Leviatano, dello Stato nazione fondato sull'isomorfismo tra popolo, territorio e sovranità. L'espansione globale, infatti, si traduce in un processo di esportazione della modernità che abbatte i confini tra interno ed esterno andando a rimodellare tutti i contesti culturali. Ma così facendo i flussi globalizzanti vanno a intaccare alla radice la logica fondata sull'esclusione propria dello Stato moderno. Lo Stato nazione, questa grande costruzione profondamente radicata nel tessuto sociale, economico e politico della secolarizzazione, non riesce più ad assolvere i compiti per cui era sorto: perpetuare le separazioni, le esclusioni, i confinamenti vitali per la conservazione della società secolarizzata. Da qui il suo inevitabile declino, che tuttavia non può preludere all'instaurazione di uno Stato mondiale proprio perché l'idea di uno Stato privo di confini è una contraddizione in termini. Il futuro sarà segnato piuttosto dall'avvento di una nuova forma di politica, incentrata sull'esistenza di una pluralità di potestà sovrane - tanto sul piano sovranazionale, quanto su quello interno ai singoli organismi statuali - permanentemente impegnate in un conflitto di identità e di valori.

Nel contesto di questo nuovo pluralismo diventa evidente lo spessore più propriamente politico della differenza, vista «non come un'entità metafisicamente (o sostanzialisticamente) connotata, ma come vertice ottico e criterio guida in grado di rintracciare le nuove logiche di dominio (e di discriminazione)» (p. 52. Sul tema della differenza sono incentrati il sesto e l'ottavo saggio: Universalismo e politiche della differenza» e «Cifre della differenza»). In un quadro politico nel quale il problema della rappresentazione della propria forma di vita è diventato centrale, nel quale la dicotomia tra modernità e tradizione viene costantemente e pervasivamente replicata - in questo consiste la «nostalgia del presente» evocata dal titolo - per rinsaldare le nuove e provvisorie identità che il collasso delle logiche di confinamento ha generato, il ricorso alla categoria di differenza diventa essenziale per impostare la questione stessa del confronto tra culture, identità e valori. Secondo Marramao lo spazio deputato allo svolgimento di questo confronto è quello della sfera pubblica «intesa come spazio simbolico» (p. 74): luogo dell'incontro-scontro delle identità particolari nel quale l'universalità non viene prodotta astraendo dalle differenze ma cercando di cogliere l'apporto specifico delle diverse tradizioni. Dunque una visione che, se pure contiene un implicito riferimento ad Habermas nell'impiego della nozione di «sfera pubblica», si distacca profondamente da tutti i tentativi di neutralizzazione dialogica del pluralismo. Per Marramao la strategia più idonea per conferire efficacia a una sfera pubblica postnazionale non è quella dialogico-argomentativa ma quella narrativa: «solo passando attraverso l'elaborazione delle esperienze singolari e collettive effettivamente vissute i valori possono uscire dagli schemi chiusi e autoreferenziali dei principi per essere fra loro comparati e dar luogo a una contaminazione feconda» (p. 76. La critica del modello liberale, viziato dal germe del logocentrismo occidentale è svolta anche nel secondo saggio: «Identità e contingenza»). Potremo affrontare efficacemente le differenze, questo sembra essere il messaggio conclusivo del saggio, solo se riusciremo ad attuare una politica universalista della differenza, ovvero solo investendo sulla portata universalizzante della dimensione della narrazione e del simbolo.

La proposta di Marramao di una politica universalista della differenza è sicuramente di estremo interesse. L'idea di un incontro tra identità differenti, che si svolge non su un piano di argomentazione razionale, bensì valorizzando i «punti di contatto tra le diverse esperienze del bene e del male, della felicità e del dolore» (p. 77), quindi per mezzo della ricerca di una dimensione esistenziale e simbolica comune, è tanto più degna di attenzione in quanto tenta di rispondere alle evidenti difficoltà da parte della teoria politica tradizionale nel disciplinare i conflitti di valore. Tuttavia, c'è da domandarsi se la fiducia che Marramao sembra nutrire sulle capacità dei media simbolici di condurre all'intesa sia ben riposta. Non è chiaro per quale motivo una sfera pubblica intesa come spazio simbolico dovrebbe offrire maggiori prospettive di integrazione di una fondata sulle procedure argomentative. Al contrario, l'esperienza ci presenta frequentemente casi nei quali la costruzione di simboli e narratives particolari funziona come un meccanismo di identificazione esclusiva e di separazione fra gruppi. Nel migliore dei casi, affinché l'integrazione sia possibile, la portata universalizzante del simbolo deve essere assistita da un paziente lavoro di smontaggio delle componenti «allergiche» e di traduzione negli idiomi simbolici degli interlocutori. La situazione non è poi così dissimile da quella dialogica: il problema non consiste nel medium dell'incontro ma nel modo in cui il medium prescelto viene utilizzato.

Leonardo Marchettoni