2008

A. Vandelli, U. Lucas, Scritto sull'acqua, Aire, Torino 2007

Annalisa Vandelli e Uliano Lucas raccontano la vita in Etiopia. Una giovane giornalista e un noto fotoreporter scelgono coraggiosamente di abbandonare gli ancoraggi del reportage classico per mostrare, con gli occhi e il sentire di chi ne è parte, un'esistenza caratterizzata dalla cronica assenza dell'acqua. Allontanandosi dai canoni con i quali solitamente sono descritti luoghi e situazioni, gli autori compongono un'intima sinfonia dove le due voci si compensano e si esaltano vicendevolmente, e mantengono velata una critica feroce al mondo dell'informazione, sempre più schiavo delle immagini e delle notizie d'agenzia.

Uliano Lucas conosce bene l'Africa. Da quando seguì le guerre di liberazione in Angola, Guinea Bissau, Mozambico ed Eritrea, le sue fotografie, apparse su riviste come Tempo, Vie Nuove, Jeune Afrique e Koncret assieme agli articoli di Bruno Crimi ed Edgardo Pellegrini, sono un punto di riferimento per la riflessione terzomondista. La fotografia per Lucas è "scrivere con la luce", e il linguaggio utilizzato per questo libro è il bianco e nero. C'è la savana africana che implora la pioggia, le terre aride con timide tracce dei letti dei fiumi, la stagione delle piogge che li fa straripare all'improvviso, i vecchi pozzi a terrazze, alcuni laghi che fanno bianca la pelle nera, per quanto sono salati. E poi i pozzi nuovi costruiti dalle ONG, le vacche magre che si abbeverano alle fonti, gli uomini che rendono i pozzi "cantanti"... Ma le vere protagoniste sono le donne, due volte donatrici di vita perché a loro è affidato il duro compito di far arrivare l'acqua al villaggio. Lo fanno trasportando taniche di oltre 25 litri per 5, 10 chilometri, e non è un caso, forse, che Lucas abbia prestato più di uno scatto a donne nell'atto di piegarsi: nonostante lo sguardo fiero, le schiene non sono ricurve, quasi sentissero il peso di quelle taniche anche quando non poggiano su di loro. Anche in quest'ultimo lavoro, il fotoreporter milanese rimane fedele a quel modo di fare informazione e denuncia che lo contraddistingue da più di quarant'anni: prestare attenzione all'umanità di chi ritrae, restituendo racconti di sofferenza senza togliere dignità ai soggetti rappresentati.

Anche Annalisa Vandelli ha un rapporto particolare con il continente africano, seppure da molti meno anni rispetto a quello che considera il suo maestro. Direttrice della rivista Afro, ha scritto la biografia di un missionario e ha vissuto per qualche tempo in Kenya. Il nuovo romanzo nasce da un anno intero in Etiopia, fra la capitale Addis Abeba e il Borana, una regione semiarida nella parte sud del Paese. Qui la Vandelli fa esperienza di nuove sollecitazioni e dell'assenza: assenza di mezzi, di stimoli culturali... Si mette semplicemente in ascolto di ciò che la circonda e, con una scrittura fluida e poco mediata, lascia che le storie parlino da sole: Judith viene divorata dai vermi durante uno di quei viaggi per andare a prendere l'acqua e Guiatu partorisce, sotto a un'acacia; Bulee ascolta la radio emancipandosi dalle credenze popolari mentre Alaaka continua a interrogare le viscere degli animali e il cielo per sapere quello che accadrà; la sorella di Itagasu viene violentata, più volte, Fatu muore durante il parto a causa delle mutilazioni che la tradizione impone...

Ne scaturisce un romanzo "assente" nel soggetto e nello stile. Nel soggetto perché l'acqua, come abbiamo visto, è un elemento carsico e non scrosciante, un pretesto per parlare di Africa, del colonialismo, delle tradizioni culturali, delle minoranze, della violenza contro le donne, del rapporto uomo-natura... Nello stile perché, sotto a una ricercatezza formale solo in apparenza troppo insistita, alla metafora è affidato il compito di raccontare con parole altre quello che succede fuori e dentro l'autrice, lasciando al lettore lo spazio dell'immaginario per muoversi. Altro elemento caratterizzante di quella che, al termine della lettura, appare come una lunga poesia, è il continuo spostare il piano narrativo dalla prima alla terza persona, quasi a voler prendere le distanze, con molta umiltà, da vicende che un occidentale non può che narrare con riferimenti culturali estranei rispetto all'oggetto del racconto.

Chiara Vecchio Nepita