2016
D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace
dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci,
Roma 2016, pp. 384, ISBN 9788843081875
Recensione
di Davide Ragnolini
All’interno della vasta produzione bibliografica di Domenico
Losurdo, Un mondo senza guerre costituisce probabilmente il
lavoro più ‘internazionalistico’ nel percorso di ricerca del filosofo e
storico del marxismo, stimolato dal presagio di “nuove tempeste
belliche” (p. 17) all’orizzonte. Un’accresciuta percezione della
pericolosità dell’arena internazionale, occasionata dall’odierno
smottamento delle zolle geopolitiche mondiali, non inibisce ma invita
anzi ad una nuova, documentata riflessione filosofica sui problemi
della guerra e della pace.
Muovendo dalla convenzionale periodizzazione dell’età
contemporanea, l’autore ne propone un ripensamento attraverso un
percorso storico-filosofico di ricostruzione dei ‘diritti e rovesci’
del grande ideale della pace perpetua, e delle fasi che ne hanno
scandito le sue formulazioni filosofiche e le sue disattese storiche. È
proprio il bilancio storico di tale ideale a consentire al cultore più
irenista una maggiore cautela nella valutazione della sua ‘storia degli
effetti’: “la storia grande e terribile dell’età contemporanea è anche
lo scontro tra diversi e contrapposti progetti e ideali di pace
perpetua” (p. 16). Il bipartitismo ideologico ed epistemologico che ha
diviso idealisti e realisti nell’ambito degli studi internazionalistici
verrebbe dunque meno: l’ideale della pace perpetua ha piuttosto
rappresentato un fine politico anelato e perseguito da entrambe le due
fazioni ‘idealtipiche’, al punto da rovesciarsi in una justa causa
belli appannaggio dei partiti storici più disparati. In tal senso,
le numerose rivendicazioni di una sua realizzazione avrebbero
costituito “forse persino la continuazione della guerra con altri
mezzi” (p. 17).
Se in La non-violenza. Una storia fuori dal mitoi
l’autore ha affrontato la fragilità dell’ideologia dei mezzi pacifici
in ambito domestico, con i suoi rovesci strumentali a logiche e
finalità storico-politiche contingenti, nel presente studio offre
un’indagine attorno all’eterogenesi dei fini dello stesso finis
maximus della politica internazionale: la pace perpetua. È con
macabra ironia che Martin Wight, nella sua indagine sulle tradizioni
internazionalistiche tripartite in rivoluzionismo, realismo e
razionalismo, registrava laconicamente l’idea secondo cui “la storia
della famiglia rivoluzionista è parricida”.ii La successione dei
progetti irenici, sussumibili wightianamente proprio entro la
tradizione ‘rivoluzionista’, è parimenti una storia di discontinuità
ideologica e di rinnovate attese escatologiche, di tradimenti
dottrinali e mondani compromessi con la sfera dell’immanenza, quella
del Politico (C. Schmitt) e del potere “demoniaco” (G. Ritter).
Lo studio di Losurdo, sebbene non informato di quel
pessimismo realista dominante nell’attitudine epistemica degli studi
internazionalistici, potrebbe corroborare prima facie una
simile immagine disincantata dell’ideale rivoluzionario di pace
mondiale. L’autore presenta infatti una storia filosofica contemporanea
di alcuni grandi progetti irenici articolata secondo cinque momenti, a
cominciare da quello emergente con l’ideale scaturito dalla Rivoluzione
Francese di un mondo liberato dal flagello della guerra. Si tratta di
una stagione storica che ha visto l’affermazione, a partire da un
movimento di popolo, di una Costituzione repubblicana eretta a baluardo
contro l’ordine monarchico europeo, il quale venne sfidato dagli esiti
espansionistici della dittatura napoleonica. Si sarebbe trattato del
primo grande tentativo politico di inseguire un modello di pace
autenticamente universale, in grado di trascendere quell’ideale di pace
intra-cristiana che, da Erasmo e dall’abate di Saint-Pierre, era
costruita ancora su una trasfigurazione della “comunità panellenica di
Platone” (p. 22), con l’espunzione della stasis dalla regione
europea e la legittimazione della polemos verso il mondo
extraeuropeo.
Alla guerra europea sorta in un momento ‘tragico’ della
storia contemporanea francese, quello della Pax Napoleanica
perseguita con una politica di conquista, seguì un secondo momento
nella storia dei progetti irenici, in cui la bandiera della pace
perpetua cadde nelle mani del fronte anti-napoleonico europeo: la Santa
Alleanza. La sorte di questa coalizione, nel tentativo di invertire il
segno del rivoluzionarismo sorto dall’ideologica domestica francese, fu
già segnata alla fine degli anni 30’ del XIX secolo, allorché la
spedizione di Spagna sfaldò internamente la coalizione
controrivoluzionaria (1823) e la rivoluzione di luglio sfidò l’ordine
interno francese (1830). È tra questi due ‘momenti’, all’interno della
storia dell’ideale di pace perpetua tracciata da Losurdo, che trovano
rispettivamente collocazione le riflessioni internazionalistiche di
Kant, segnata ottimisticamente dalla Pace di Basilea del 1795, e quella
di Fichte maturata con la guerra di liberazione nazionale
dall’offensiva francese (in particolare nei suoi scritti posteriori al
1807).
La parabola della riflessione politica di Kant e Fichte è
emblematica delle controversie filosofiche e ideologiche sull’ordine
europeo e cosmopolita a cavallo di XVIII e XIX secolo, ed è presentata
da Losurdo in modo originale. Nell’interpretazione di Kant offerta
dall’autore traspare un orientamento ‘statocentrico’ del filosofo di
Königsberg a lungo adombrato dalla critica, e rivalutato solo da una
più recente stagione di studi.iii Il principio della
sovranità statale in Zum Ewigen Frieden (1795), sancito
all’interno degli articoli preliminari, doveva assolvere ad una
funzione rivoluzionaria di opposizione a quell’ “internazionalismo
legittimista e controrivoluzionario” (p. 60) che muoveva i progetti di
coalizioni monarchiche anti-francesi, giustificanti un principio di
intervento contro Parigi. In Fichte si assisterebbe ad una tormentata
riflessione attorno all’ideale della pace perpetua che ha visto il
filosofo tedesco impegnato dapprima a difendere l’ideale
dell’esportazione della rivoluzione, per poi recuperare la critica
kantiana alla monarchia universale in chiave anti-napoleonica. “Con il
rovesciarsi dei rapporti di forza sul piano militare e politico”,
ovvero con i rivolgimenti dei rapporti franco-tedeschi nel ricco
processo storico di cui il filosofo tedesco è testimone ed interprete,
“l’internazionalismo legittimista e controrivoluzionario [avrebbe
ceduto] il posto all’internazionalismo rivoluzionario” (p. 65). Infine,
con la critica fichtiana diretta contro quest’ultimo, e contro i suoi
esiti bellici devastanti per la pace europea, secondo l’autore
“l’ultimo Fichte ha anticipato uno dei problemi centrali delle
rivoluzioni anticoloniali del Novecento” (p. 115), emancipandosi dal
cosmopolitismo illuminista e dal ‘napoleonismo’.
Un terzo momento che l’autore individua in questa storia
contemporanea dei progetti irenici trova collocazione tra il fallimento
della Santa Alleanza e la crescente ascesa della cultura liberale e
positivistica ottocentesca, espressa nel topos liberale
dell’estinzione della guerra entro un ordine economico industriale su
scala mondiale. I rovesci di tale ideologia delle “nazioni mercantili”,
concepite con Constant come antagoniste dei “popoli guerrieri” (p.
160), sono duplici: l’asservimento colonialista dei popoli extraeuropei
su base razziale, e la crescente competizione tra le potenze
industriali europee fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Solo
con la critica marxista-leninista al sistema capitalistico
internazionale si pongono le basi teoriche per un quarto momento della
storia internazionale della pace perpetua.
Muovendo dall’identificazione dei fenomeni di estensione
della società industriale sull’orbe terracqueo, capitalismo e infine
imperialismo, con Lenin l’ideale della pace perpetua è promesso proprio
rovesciando il topos liberale ottocentesco. Per realizzare la
pace nel mondo europeo ed extraeuropeo, allora, sarebbe “necessario
invece che sia eliminato nel suo complesso il sistema di sfruttamento
ed oppressione, sul piano interno e su quello mondiale” (p. 191).
Frustrata dalle numerose lacerazioni che attraversarono sul piano
ideologico e diplomatico il ‘campo socialista’, tale teoria dovette
affrontare una dottrina avversa radicata nell’opposto ‘campo
capitalista’, espressa nelle linee guida del “partito di Wilson” (p.
238 e passim).
La contro-alleanza ideologica liberale avrebbe potuto così
ergersi a promotrice della pace internazionale promessa. Attraverso il
fortunato ‘teorema di Wilson’, “la lotta tra democrazia e dispotismo”,
e non quella tra capitalismo e socialismo, diventava dunque “la chiave
universale di lettura dei conflitti armati del presente e del passato”
(p. 241). Con la parola d’ordine della “pace definitiva” (p. 232 e
passim) e dell’ideologia dell’universalizzazione della forma di governo
democratica, si assiste infine alla transizione ad un quinto momento
ideale nella storia della pace perpetua, suggellata dalla progressiva
affermazione di una pax americana nel corso del secondo
dopoguerra. Il “nuovo internazionalismo” (p. 254) liberale enunciato
dal primo ministro Tony Blair in occasione della guerra contro la
Jugoslavia, cade all’interno del medesimo paradigma wilsoniano,
dominante ed anzi rafforzatosi ancor più nel periodo immediatamente
posteriore alla Guerra Fredda (cfr. p. 288). Le teorie
internazionaliste neo-conservatrici e post-vestfaliane proliferate in
questo periodo storico non sarebbero che la manifestazione epigonica
del ‘teorema di Wilson’, universalizzato nell’età unipolare dei
rapporti internazionali, alla cui prosecuzione è legata la stessa
egemonia statunitense.
Accanto a questa panoramica storica, non manca una critica
diretta alle varie teorie ed ideologie post-moderne orientate ad
identificare, muovendo da un neo-ellenistico distacco dal mondo
politico, le diverse “Case della pace” (e segnatamente il mito della
non violenza, il femminismo, e l’idealizzazione dello jus publicum
europaeum) quali ideali habitat filosofici di neutralizzazione
degli antagonismi reali.
Vi è forse un modo alternativo, e sincronico, di descrivere
le ‘disavventure’ dell’ideale di pace perpetua che Losurdo ha
diacronicamente trattato in questo suo studio: le “immagini” walziane,
ovvero le diverse “valutazioni delle cause” della guerraiv e
le relative fallacie, offrono ancora uno schema analiticamente
persuasivo. In particolare, le prime due “immagini” possono fungere da
utile strumento ermeneutico e di sintesi dei risultati a cui è
pervenuto Losurdo. Se le teorie della prima “immagine” postulano una
corrispondenza tra natura umana e mutamento della sfera politica,
quelle della seconda “immagine” affermano l’esistenza di una
corrispondenza tra organizzazione interna di una società e i fenomeni
di guerra e di pace internazionali.
Le teorie della “Casa della pace”, con l’illusoria
convinzione che “grazie al progressivo convertirsi a esse di individui
e masse” (p. 319) sia possibile conseguire la pace perpetua, possono
essere sussunte sotto la fallacia della prima “immagine”. Le teorie che
hanno postulato l’estinzione della guerra sulla base rispettivamente
del rovesciamento della società pre-industriale (teoria illuministica),
dell’universalizzazione della società industriale (topos
liberale ottocentesco), e del rovesciamento universale della società
capitalista (tesi marxista-leninista), condividerebbero tutte la
medesima fallacia peculiare alla “seconda immagine”: postulano cioè il
conseguimento della pace nel mondo attraverso la “generalizzazione di
un modello di stato e di società”.v
L’autore, pur optando per un’indagine sul concetto di pace
nella forma di una storia delle idee, indirettamente si avvede di tali
rovesci storico-politici dell’universalismo, poiché a ragione presenta
come “filo conduttore” (p. 352) del suo studio sulla pace perpetua la
dialettica del particolare e dell’universale. La fragilità dell’ideale
di pace perpetua è la stessa fragilità prescrittiva di ogni ideale
universale: “nel corso di un processo storico tutt’altro che
unilineare” il pathos universalistico “dev’essere in grado di
sussumere e rispettare il particolare” per non trasformarsi in
“empirismo assoluto” (ibidem), che è in ultima istanza
condizione fattuale di ogni stato di guerra, cifra dell’assoluta
differenza in cui l’equità normativa temporaneamente soccombe.
_________________________________
Davide Ragnolini
Dottorando di ricerca
Consorzio Filosofia del Nord Ovest (FINO)
Università degli Studi di Torino
davide.ragnolini@edu.unito.it
i D.
Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza,
Roma-Bari 2010.
ii M. Wight,
International Theory: The Three Traditions, Leicester
University Press – Royal institute of International Affairs, London
1991; trad it., Teoria internazionale. Le tre tradizioni, il
Ponte, Milano 2016, p. 91.
iii Una
breve panoramica sulle interpretazioni del Kant “statista” accanto al
convenzionale Kant “cosmopolita” è stata offerta da A. Hurrell, Kant
and the Kantian paradigm in international relations, in “Review of International
Studies” Vol. 16 (1990), pp. 183-205
iv K. Waltz,
Man, the State and War: a theoretical analysis, Columbia
University Press, New York 1959; trad. it. L’uomo, lo stato e la
guerra. Un’analisi teorica, Giuffrè, Milano 1998, p. 11.
v Ivi, p.
115.