2005

M. Ignatieff, Empire lite. Nation-building in Bosnia, Kosovo and Afghanistan, Vintage, London 2003, trad. it. Impero light: dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale, Carocci, Roma 2003, pp. 146, ISBN 88-430-2687-9

Impero light è il quarto volume (dopo Blood and Belonging, The Warrior's Honor e Virtual War) di una formidabile serie di scritti dedicata alle guerre 'etniche', al disfacimento degli stati e alla reazione dell'Occidente. Tuttavia, mentre i primi tre libri sono incentrati sulla fase precedente l'intervento delle potenze occidentali, quest'ultimo si concentra sulla "lotta compiuta dall'impero per imporre l'ordine in seguito all'intervento" (p. 9). Più in particolare, tratta dello ius post bellum, per usare le parole di Walzer, e del "conflitto che scuote l'impresa di Nation-building ovunque essa si svolga e che contrappone gli interessi imperiali delle potenze coinvolte, in primis degli americani, e gli interessi locali tesi all'autogoverno degli autoctoni e della loro leadership" (p. 9).

Indubbiamente, "chi prende in mano questo libro aspettandosi una denuncia dell'imperialismo statunitense o dell'imperialismo in generale resterà deluso" (p. 34). Il libro è certo permeato da osservazioni critiche, ma queste non hanno lo scopo di condannare l'impero, né tanto meno di farlo retrocedere, bensì intendono raffinarlo per renderlo globalmente 'sostenibile' e preservarlo in questo modo dal destino ultimo che ha travolto Roma.

In effetti, una delle questioni cruciali individuate dall'autore, consiste proprio nel vedere "se l'impero light sia abbastanza pesante da riuscire a portare a termine il suo lavoro" (p. 13). Dalla lettura del libro risulta evidente che il suo intento è di dotare l'impero "più spensierato della storia" della consapevolezza di sé, dei propri limiti e dei propri errori affinché, così 'appesantito', possa riuscire nella sua missione.

In questo senso, senza tradire né forzare più di tanto le intenzioni del suo autore, il libro può essere considerato una sorta di vademecum utile a un impero nell'era dei diritti umani.

Nell'Introduzione, con una chiarezza pregevole, Ignatieff tratteggia i contorni della "nuova immagine di impero" light. L'autore non esita a riconoscere che "viviamo in un mondo che non ha precedenti storici se non nel tardo impero romano". Tuttavia, "il nuovo impero non è come quelli del passato, fondati sulle colonie e sulla conquista", ma è piuttosto "un'egemonia senza colonie, una sfera di influenza senza il fardello [decennale] dell'amministrazione diretta e i rischi della sorveglianza quotidiana" (p. 12). Il fatto, poi, che si tratti di un impero "privo della consapevolezza di esserlo", guidato da un popolo che si ostina a non riconoscerlo e che ha conquistato l'indipendenza attraverso lotte antimperialiste, non riduce il suo carattere imperiale, che si traduce essenzialmente nella "costante tendenza a mettere ordine in un mondo di stati e di mercati sulla base dei propri interessi nazionali" (p. 12).

Nel suo profilo dell'impero light, Ignatieff precisa che non si tratta di "un nuovo impero [esclusivamente] americano, dato che le altre potenze occidentali nutrono un interesse straordinario nel successo dell'impresa, ma la sua leadership è [saldamente] americana, in quanto in assenza di tale leadership il nuovo impero colerebbe a picco" (p. 128). Dopo questa opportuna precisazione, l'autore non manca di sottolineare i limiti dell'impero, di ricordarne i fallimenti e, soprattutto, di ribadirne, con 'compiaciuto realismo', la necessità: "gli imperi non piacciono a nessuno, ma vi sono alcuni problemi per cui esistono soltanto soluzioni di stampo imperiale" (p. 21). Ed è proprio da questa necessità imperiale che deriva il "paradosso centrale" della storia politica contemporanea: "nei paesi dilaniati dalla guerra civile, l'imperialismo temporaneo è diventato il presupposto della democrazia" (p. 9). Questo paradosso racchiude il nucleo argomentativo di tutto il libro: se l'impero è necessario per realizzare fini umanitari e democratici, occorre non tanto demolirlo, quanto criticarlo affinché faccia realmente ciò che promette di fare.

Ignatieff è sicuramente sedotto dall'"attrattiva morale" insita in un impero light con "pretese umanitarie", ma è deluso dalla sua attuale condotta. In altre parole, ne elogia l'idea, ma non ne condivide la pratica: "Il problema del nuovo imperialismo non è tanto il suo carattere imperiale, vale a dire l'uso della forza e del potere ai fini di un riordinamento mondiale, quanto piuttosto che chi crede nell'uso dei mezzi imperiali non pone in atto ciò che va predicando" (p. 36).

Dopo una serie di riflessioni filosofico-politiche sull'idea di "impero temporaneo", l'autore si cimenta nell'analisi critica della sua prassi. Tuttavia, invece di partire da Washington, l'analisi dell'azione imperiale si incentra sulle modalità con cui l'autorità viene esercitata in tre zone di frontiera: l'Afghanistan, il Kosovo e la Bosnia.

Nei tre saggi centrali - una gradevole miscela di reportage giornalistici, racconti e saggi filosofici - l'autore rivela il suo talento straordinario nel fiutare le questioni cruciali inerenti alla "nuova forma distintiva di pratica imperiale chiamata costruzione della nazione".

Nel primo saggio dedicato al (post) conflitto in Bosnia, Ignatieff prende spunto dalla ricostruzione materiale del ponte più antico di Mostar, distrutto da un "perverso atto di automutilazione" nel 1993, per tracciare il profilo degli interrogativi decisivi riguardo alla costruzione imperiale della nazione: "In che modo è possibile costruire ponti tra le persone? In che modo le si può aiutare a guarire? In che modo gli estranei possono realmente dare un contributo" (p. 54)?

Nel secondo saggio, dedicato al 'caso' Kosovo, la figura di Bernard Kouchner, il padre dell'umanitarismo politicizzato, rappresenta per l'autore il pretesto per ripercorrere la "bizzarra mutazione della moderna azione umanitaria". Con la sua proverbiale chiarezza, Ignatieff mette in rilievo il principale dilemma morale connesso all'intervento umanitario ("un esercizio del potere imperiale senza pari"). Secondo l'autore, il Kosovo stabilisce un precedente che getta un'ombra di disinganno non soltanto su questa specifica operazione ma anche, per estensione, su tutte le iniziative future di intervento umanitario: "a che serve aiutare un popolo ad essere libero se poi userà la sua libertà per perseguitare i suoi passati persecutori? (p. 62)"

Nel viaggio al seguito della "carovana imperiale della costruzione della nazione", con il terzo saggio Ignatieff fa sosta in Afghanistan. Si sofferma qui anzitutto sull'eccessiva leggerezza dell'iniziativa imperiale, che rischia di rivelarsi fatale: "gli imperi non possono essere light: o sono pesanti, o non durano, né lo fa la pace che dovrebbero salvaguardare" (p. 91).

Inoltre, l'Afghanistan offre a Ignatieff anche l'occasione per smascherare l''astuzia della ragione imperiale' di costruire, dietro la parvenza della motivazione umanitaria alla base dell'impresa di Nation-building, nient'altro che il nuovo volto di una vecchia forma di "sub-sovranità", già nota all'impero britannico col nome di 'dominio-indiretto': gli stati risultano nominalmente indipendenti, ma di fatto il potere reale rimani nelle mani del 'condominio imperiale', con Washington in testa e Londra, Tokio e le altre capitali a seguire.

I tre laboratori en plein air, in cui è in progress il tentativo contraddittorio di "riconciliare i principi del potere imperiale e dell'autodeterminazione" attraverso il progetto di Nation-building, hanno finora rivelato tutti la tensione cruciale insita in questa nuova prassi di dominio imperiale: "si tratta del conflitto tra nazionalismo locale e imperialismo internazionale, tra il desiderio delle elite locali di organizzare il proprio spettacolo e l'intenzione delle autorità internazionali di tenerle al guinzaglio" (p. 86).

La Conclusione di questa impareggiabile 'apologia critica' dell'imperialismo contemporaneo affronta direttamente l'innominabile tema della "nemesi" dell'impero, rappresentata storicamente dal nazionalismo: "i buoni propositi imperiali, anche se ben equipaggiati con elicotteri da combattimento, non possono competere con il potere generato dal nazionalismo moderno" (p. 134).

D'altra parte, la "concreta realtà globale" del crollo dell'ordine statale è il problema che la storia politica contemporanea ci impone di tenere a mente, e che rende l'"assistenza imperiale" una soluzione necessaria: "per ogni Vietnam che viene creato da una lotta nazionalistica, ricorda Ignatieff, ci sono una Sierra Leone o una Somalia che muoiono per il crollo istituzionale e la guerra civile" (p. 140).

In conclusione, è proprio questo alto tasso di fallibilità del progetto nazionalistico di Nation-building a rappresentare il 'motivo paradossale' per cui un liberale convinto, come lo stesso Ignatieff confida di essere, non può rifiutare a priori la soluzione imperiale, ma è tenuto ad appoggiarla 'responsabilmente' quando - e solo quando - la costruzione (nazionalista) della nazione fallisce e la guerra civile dilaga uccidendo un intero paese. In queste situazioni, infatti, Ignatieff non ha dubbi: l'intervento imperiale, come recita il titolo del suo ultimo libro, rappresenta il "male minore" (lesser evil).

Indipendentemente dalla condivisione di queste tesi, del resto più heavy che light, il volume è indubbiamente interessante. Per la chiarezza, almeno, e la profondità con cui vengono presentati gli interrogativi cruciali dell'attuale fase internazionale e per la capacità di costringerci, senza possibilità di auto-inganno, a elaborare una nostra posizione a riguardo. Tuttavia, dopo averlo letto, diventa ancor più ineludibile la seguente domanda: se già il semplice suono di 'pace imperiale' (o più correttamente: pax romana) suonava insopportabilmente contraddittorio alle sue orecchie, come risulterebbe oggi al 'vecchio' Kant quello di 'libertà imperiale'? Non v'è dubbio che al più illustre portavoce del liberalismo, così come ai sudditi che dovrebbero oggi goderne, il suono della libertà eccessivamente light che deriva (inevitabilmente) da un impero, farebbe certo fischiare sonatamene le orecchie!

Alessandro Calbucci