2009

B. Latour, Un monde commun mais pluriel, Éditions de l'Aube, Paris 2005, trad. it. Disinventare la modernità, Eleuthera, Milano 2008, ISBN 9788889490426

In questo breve libro-intervista Bruno Latour, sollecitato dalle domande di François Ewald, ripercorrere le tappe fondamentali della sua carriera di "antropologo delle società moderne" ed esplicita il progetto filosofico-politico che ispira la sua ricerca: rinunciare alla nostra pretesa modernità allo scopo di realizzare una mondializzazione diversa, alternativa.

Più in particolare, "disinventare la modernità", come recita il titolo della traduzione italiana, è il metodo adottato e proposto da Latour per realizzare "un monde pluriel mais commun", come recita il titolo originale francese.

"Che cosa significa essere moderni?", "perché non siamo mai stati moderni?", "Perché non bisogna essere moderni?", ecco alcune delle domande fondamentali con cui l'Occidente, secondo l'autore, deve fare i conti per poter intraprendere "una negoziazione intelligente" con le altre culture. In questo senso la 'disinvenzione' della modernità qui proposta non è tanto l'oggetto di una ricostruzione storico-scientifico ma rientra piuttosto all'interno di un progetto filosofico-politico rivolto al futuro ed interessato ad avviare una mondializzazione non egemonica. Solo attraverso questa operazione di autoanalisi, di "ridefinizione" della propria modernità imperialista, le società moderne occidentali potranno prendere coscienza tanto della relatività delle proprie verità quanto delle "cose alle quali noi teniamo" e, di conseguenza, rivolgersi agli altri in modo più aperto e appropriato.

A questo programma di ricerca Latour conferisce il nome di "antropologia simmetrica", intendendo l'analisi delle culture moderne, e dei loro centri nevralgici di produzione della verità, attraverso gli stessi principi e le stesse procedure con cui l'antropologia classica ha studiato le culture 'altre'. L'investigazione dei pivots della società moderna prende avvio inevitabilmente dalla scienza, fonte indiscussa di verità entro l'orizzonte della modernità, per poi prendere in esame le 'certezze' della tecnica, del diritto, della religione, della politica.

Per riprendere un concetto caro all'autore siamo di fronte ad un'operazione diplomatica. La diplomazia 'filosofica', vale a dire questa propensione ad analizzare i propri fondamenti e a riavviare una negoziazione più adeguata con le altre culture, è l'alternativa proposta dall'autore alla prima e disastrosa forma di dialogo adottata dall'Occidente: l'imperialismo. L'imperialismo, come si può ben capire, è presentato come esperienza decisamente moderna. La sua cifra caratterizzante è la pedagogia. Come scrive ironicamente Latour, "I moderni non sono mai stati veramente cattivi, hanno fatto sì delle guerre, ma sempre pedagogiche". [...] Quando bombardavano "qualche isolotto selvaggio, non era per cattiveria, ma per pedagogia" (p. 13 ed. fr.), come testimoniano le memorie del Capitano Cook.

Questo slancio pedagogico si fonda secondo l'autore su una 'certezza' tipica della modernità: la natura umana universale. Il mondo comune dei moderni era quello della natura e della tecnica, un mondo quindi evidente e già precostituito, "dietro di noi, sopra di noi o sotto di noi", a seconda che si trattasse di conservatori, religiosi o scienziati. Anche il 'progresso', nozione cara alla modernità, si inserisce in questo paradigma come l'inevitabile avanzamento verso la realizzazione di questo mondo unificato dell'umanità.

A ben guardare, questa indole pedagogica pervade ancora la società occidentale e le sue istituzioni. Non molti anni fa (1993), un comitato di saggi incaricato dall'Unione Europea di pensare l' "Agenda europea per i diritti umani per il nuovo millennio", non ha esitato a intitolare 'pedagogicamente' questo programma "Leading by example".

Il progetto di Latour respinge precisamente questa idea di 'natura', e ad essa preferisce quella di 'mondo'. La differenza è di quelle significative, paradigmatiche potremmo dire, non solo da punto vista teorico, ma anche pratico: "allorché la natura non è mai contestabile poiché è universale, il mondo, invece, in quanto oggetto di una diplomazia e di una negoziazione è contestabile".

È alla luce di queste premesse che Latour presenta la sua "filosofia della mondializzazione" in alternativa ai progetti di modernizzazione, occidentalizzazione e globalizzazione. La mondializzazione è fondata sul riconoscimento della "pluralità dei mondi", una pluralità ai nostri giorni fortemente antagonista e conflittuale. La diplomazia, cifra caratterizzante di questa auspicata nuova mondializzazione, come la pedagogia lo è dell'imperialismo, misura proprio "l'abisso del disaccordo" tra questi mondi. La nozione stessa di natura, universale e univoca entro il quadro della modernità, diventa oggi una nozione plurale e dialettica. In questo senso, attraversiamo una situazione cosmopolitica non solo in virtù di un comprovato multiculturalismo, ma anche alla luce di un radicale "multinaturalismo", vale a dire della coesistenza di diverse e contrastanti definizioni dei geni, dell'ambiente, del clima ecc.

In questa prospettiva, un mondo comune non può assolutamente essere dato per scontato, esso è piuttosto da fare, da costruire. In questo processo di mondializzazione, ogni cultura è chiamata ad un duplice e, apparentemente, contrastante sforzo: da un lato difendere i propri ideali per non perdere le proprie radici, le proprie tradizioni; dall'altro aprirsi all'altro, accettare "il prezzo del disaccordo" e della fatica della negoziazione tra uguali.

Questa insistenza sulla difesa "di ciò a cui teniamo", e allo stesso tempo l'incessante invito all'attività diplomatica rendono originale e degno di essere preso in considerazione il progetto proposto dal sociologo francese, distinguendolo sia da forme di neoconservatorismo concentrate solo sulla difesa intransigente dei valori occidentali, sia da forme più naïves di mondializzazione, pronte a misconoscere le reciproche identità in nome del dialogo interculturale.

Questo progetto, come del resto riconosce l'autore stesso, si inscrive a pieno titolo nella tradizione occidentale, 'moderna' che vede in "un mondo comune l'orizzonte a lungo termine dello sviluppo dell'umanità". Questo mondo tuttavia è lungi da essere già costruito, ma è da costruire proceduralmente e sostanzialmente insieme. In tutto questo l'Occidente, in quanto inventore del modernismo, può rivendicare il solo ruolo di "maitre de cérémonie": come scrive Latour, "le disinventer est son seul prestige". Tuttavia, anche se è stato incontestabilmente un cattivo "maitre" durante tutta l'epoca dell'imperialismo e del colonialismo, niente impedisce che in questo nuovo millennio possa migliorare sedendosi al tavolo planetario della concertazione.

Lo spessore de i due interlocutori rende questo libro-intervista degno di nota e tutt'altro che superficiale. Certamente il genere dell'intervista impedisce una trattazione sistematica delle tematiche in questione, ma allo stesso tempo ha il vantaggio di trattare temi delicati attraverso un approccio diretto e immediato sovente estraneo al genere della saggistica scientifica.

Alessandro Calbucci