2006

M.H. Khan, G. Giacaman, I. Amundsen (eds), State formation in Palestine. Viability and governance during a social transformation, Routledge Curzon, London/New York 2004, pp. 249, ISBN 0-415-33801-8

L'esito delle elezioni politiche palestinesi del gennaio scorso e l'affermazione, in realtà da molti prevista, di Hamas ha portato alla ribalta la questione della leadership palestinese e della sua capacità di rappresentare sul piano nazionale ed internazionale un interlocutore capace e legittimo.

Il dibattito sulla classe dirigente palestinese tuttavia non è recente e ha accompagnato tutta la storia del conflitto con Israele. A partire dagli Accordi di Oslo però la questione ha cominciato ad essere posta da una prospettiva differente. Si è in buona parte cessato di interrogarsi sul problema della legittimità dei dirigenti palestinesi, per valutare piuttosto le loro capacità politiche ed istituzionali di garantire prima di tutto la sicurezza di Israele e quindi anche la costituzione di un'entità statale palestinese.

Il processo di Oslo potrebbe essere descritto come la parabola di un rapporto inaugurato in virtù di un meccanismo di riconoscimento/legittimazione e fallito a causa di un processo di disconoscimento/delegittimazione.

Sullo sfondo di questo processo politico anche il dibattito scientifico si è interrogato in questi anni sulle capacità della classe dirigente palestinese e sulle ragioni della sua crisi.

La raccolta di saggi curata da M.H. Khan, insieme a G. Giacaman e I. Amundsen, si inserisce in questa direttrice di ricerca, che, come mostrano i contributi, ha un importante centro di elaborazione in Palestina, in particolare nel gruppo di ricerca Muwatin (Palestinian Institute for the Study of Democracy), diretto da George Giacaman.

Ogni tentativo di analisi della questione palestinese è sottoposto a un rischio di rapido invecchiamento, poiché le vicende politiche seguono un andamento molto intenso. E tuttavia, il testo che qui proponiamo restituisce la complessità dei temi e dei problemi studiati, indicando la stabilità di fondo di alcune questioni cruciali del conflitto israelo-palestinese e offrendo una griglia critica sulla base della quale sarebbe interessante provare a verificare i fatti di oggi.

I contributi raccolti nel libro, articolati su vari aspetti, cercano in modo unitario di individuare i fattori chiave, interni ed esterni, che hanno contribuito al fallimento ancor prima del processo di pace, del progetto di costituzione di un'entità statale palestinese viable, insistendo in particolar modo su questo aggettivo.

L'impasse e il fallimento dei negoziati inaugurati a Camp David nel 2000 sono da attribuire alla inadeguatezza delle capacità di governance da parte palestinese e alla mediocrità della sua leadership o possono essere imputati anche al tipo di relazione politica ed economica che Israele ha cercato di costruire con l'entità palestinese sotto l'egida di Oslo? Che ruolo ha giocato quella che molti hanno additato come una incapacità politica ed istituzionale della classe dirigente palestinese, mettendone in evidenza gli aspetti legati al mancato sviluppo economico del territorio, ai casi di corruzione, alla struttura sociale, alla debolezza e alla fragilità democratica della Palestinian Authority e all'insufficiente attenzione di questa alla tutela dei diritti umani?

La capacità di leggere questi aspetti è importante, come sottolineano gli autori, non solo per rendere la nostra analisi più stringente sul piano storico, ma anche per valutare le prospettive concrete che uno stato palestinese ha di esistere. Questo genere di analisi offre inoltre un'occasione di riflessione più ampia sulla tenuta delle categorie di good governance e di modello neo-patrimoniale nel contesto dei paesi in via di sviluppo e in particolare nelle situazioni di conflitto. A questo presunto modello neo-patrimoniale e al criterio della good governance quale indice di sviluppo economico e democratico, queste ricerche propongono di sostituire una cornice metodologica alternativa, che nasce proprio dall'esperienza concreta delle trasformazioni economiche e sociali tipiche dei paesi in via di sviluppo e che si concentra sulle "transformation capacities" di questi stati e sulle loro potenzialità di sviluppo, proponendo un diverso set di criteri di valutazione dei punti di forza e di debolezza dell'amministrazione palestinese.

Il modello neo-patrimoniale e la consistenza di una rete clientelare che gode di redditi e profitti che provengono da monopoli e da sussidi ottenuti grazie a particolari situazioni di privilegio garantite dal potere politico non indicherebbero di per sé, secondo gli autori, un elemento patologico del processo di sviluppo, ma piuttosto una tappa necessaria per l'avvio del processo di sviluppo stesso. Anche se non tutte, questo tipo di rendite sarebbero essenziali per una trasformazione economica di stampo liberistico e garantirebbero - soprattutto in un'area resa instabile dal conflitto - un flusso consistente di investimenti necessario al decollo dell'economia.

L'analisi del caso palestinese però ha messo in luce una serie di ostacoli che avrebbero alla fine inibito questo tipo di processo e che consistono in alcune forme strategiche di controllo esercitate da Israele sul piano politico e su quello economico.

Dal punto di vista politico è necessario ricordare come, al di là dell'enfasi, la Palestinian Authority non costituisca un'entità statale vera e propria ma piuttosto un'istituzione cui è stata demandata, nei termini degli Accordi di Oslo, la gestione di alcuni settori della vita civile - salute, educazione, servizi sociali e turismo - su una popolazione disseminata in un'area sottoposta a regime di occupazione militare e priva di continuità territoriale. La Palestinian Authority non controlla i propri confini esterni, le proprie risorse naturali, il proprio spazio aereo e marittimo ed ha poteri legislativi, amministrativi e di sicurezza molto limitati. Ma a questi ostacoli, che avrebbero potuto rappresentare solo una fase intermedia che avrebbe esaurito la propria ragion d'essere con la fine del periodo ad interim e il successo del negoziato per lo status definitivo, si sono affiancate, secondo i nostri autori, una serie di misure di natura prettamente economica che hanno di fatto inibito ogni processo di formazione di una entità statale palestinese viable e hanno dato vita viceversa ad una Palestina client state di Israele.

Attraverso un'analisi puntuale dell'economia palestinese, i diversi contributi mostrano come - grazie ad una serie di meccanismi istituiti in gran parte dal Protocollo Economico di Parigi del 1994 - Israele controlli di fatto le principali risorse economiche del paese: la raccolta delle imposte indirette, i flussi commerciali da e per i territori occupati e gli spostamenti della manodopera palestinese da e per Israele e all'interno dei territori occupati stessi.

Queste forme di controllo, piuttosto che favorire un'integrazione delle due economie, hanno paralizzato lo sviluppo palestinese, bloccato i processi di trasformazione sociale e inibito i processi di democratizzazione interna, favorendo da un lato la diffusione dei meccanismi di corruzione su vasta scala e generando dall'altro una crisi economica che ha fatto crollare i livelli di reddito pro-capite e decollare i tassi di disoccupazione e ha avuto come esito finale il fallimento del processo di formazione dello stato nazionale.

Un quadro, questo, di pauperizzazione della popolazione e di corruzione della sua classe dirigente che potrebbe darci qualche elemento di lettura in più per comprendere le ragioni dello spostamento di un elettorato storicamente e sostanzialmente laico come quello palestinese a favore dei gruppi integralisti.

Serena Marcenò