2007

F. Jullien, Conférence sur l'efficacité, PUF, Paris 2006, trad. it. Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 110, ISBN 8842080233

Nel più antico testo letterario della Cina, il Classico della poesia, contemporaneo della Iliade, viene detto: "se il mondo è in ordine, vi si può partecipare; se il mondo è in disordine, bisogna farsi tollerare".

In questa citazione è racchiuso molto del segreto del libro di François Jullien, filosofo e sinologo francese di fama internazionale, che prova, attraverso una riflessione colta e originale, a guidarci lungo le aporie del pensiero cinese, con discrezione, leggerezza, in un incedere narrativo privo di fratture, che accompagna il lettore lungo le frontiere di un universo simbolico quanto mai spaesante.

"La Cina ci permette di prendere le distanze dal pensiero da cui proveniamo, di rompere con le sue filiazioni, di interrogarlo dal di fuori - dice Jullien - e quindi di interrogarlo nelle sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato" (p. 10). E per questo un libro sul pensiero orientale che è in realtà un libro sull'Europa, sui suoi miti fondanti, sulla modernità che accoglie l'epopea dei suoi eroi, nel tentativo (riuscito) di specchiarne il volto nel suo "unico altrove possibile": l'immaginario cinese.

Una deviazione che invoca un ritorno dunque, una rotta obliqua per risalire lo spirito cui apparteniamo, un al di fuori stupefacente da cui tornare a riflettere noi stessi.

Non il fascino della distanza, dell'esotismo, ma il tentativo di "inquietare il pensiero", di riaprire altri possibili nello spirito, per rilanciare la filosofia, la parola, l'azione forse.

E' in questo che Jullien sembra essere fuori dal coro dei pensatori del neo-orientalismo che si moltiplica da tempo nella saggistica contemporanea, apologeti o martiri del 'nuovo secolo cinese', mistici e profeti della nuova fobia dei tempi a venire: le grandi potenze orientali della crescita (senza sviluppo) che avanza, inafferrabili e contraddittori sistemi ibridi e minacciosi, così vicini da lasciarci tramare, nell'ombra lunga del loro sguardo, la possibilità di erigere nuovi muri o saldare proficue e lungimiranti alleanze economiche e commerciali.

Ma cosa rappresenta la Cina? Cosa suggerisce il suo sistema di pensiero? Di cosa ci parlano i suoi filosofemi e la sua Storia?

In pochi sembrano chiederselo davvero, e tra questi c'è sicuramente François Jullien, che dopo aver riflettuto in svariati saggi sulla nozione di Senso, di Estetica, di Immanenza, propone adesso una rilettura comparata delle due culture attraverso la nozione-chiave di Efficacia, archetipo di una modernità (occidentale) che fonda il suo progetto sul rapporto mezzo-fine, sull'imperativo strategico dell'obbiettivo, che celebra il suo progresso attraverso il lessico geometrico della forma- modello e della sua applicazione: la nozione platonica dell'eidos.

"La grande idea europea - proveniente dai greci ma che assume il suo pieno significato con Galileo, Descartes e Newton - è che la matematica sia un linguaggio e l'universo un grandissimo libro aperto innanzi agli occhi, i cui caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche" (p. 19). Un'idea per molto versi folle ma infinitamente feconda, in quanto solo in Europa appare questa possibilità di applicare la matematica alla natura, dando origine alla fisica classica, meccanicista, che in un arco di tempo limitato, cambia il volto del nostro pianeta.

Certo, esistono matematiche cinesi - intese come procedure trasformazionali e algoritmicamente sviluppate e operanti in un determinato settore - ma mai i cinesi hanno pensato che le matematiche potessero essere un linguaggio e servissero a rendere conto dei fenomeni naturali. Mai i cinesi hanno concepito l'idea che Dio avesse creato (scritto) il mondo in equazioni e che, imparando la matematica, si potesse accedere ai segreti del suo grande libro divenendo signori e padroni della natura - come affermava pieno di fiducia Descartes.

Questa è dunque la questione. L'Europa ha tratto i maggiori profitti dalla modellizzazione del pensiero e dalla sua applicazione, e l'applicazione esige sempre un livello di forzatura, se non addirittura una rivoluzione.

Una rivoluzione segnata dal sacrifico e dallo zelo dei suoi eroi, dalla mitologia dei suoi eventi, spesso drammatici, dalla forza dell'intelletto e dalla volontà fondante delle sue avanguardie: l'epica omerica, le chansons de gestes, Rolando, Roncisvalle, il pensiero dell'efficacia occidentale è scandito dall'astrazione formalizzante e dall'eroismo, dal calcolo e dall'epopea, che conquista di colpo la scena e disvela nuovi orizzonti, nuove scoperte, seppellisce il passato, producendo futuro.

Una visione drammatica dell'efficacia, sintesi virtuosa di teoria e prassi, che procede attraverso l'eidos (forma-modello), il telos (fine perseguito), e lo skopos (obbiettivo). Esattamente l'opposto del pensiero cinese, che sostituisce la logica della propensione a quella della finalità, che celebra la facilità e il contegno contro i fasti dell'audacia, che modula il pensiero sulla circostanza, cogliendo la processualità dell'evento come un'opportunità continua, e nega l'eccezionalità, proponendo un modo di guardare alla Storia come un naturale e armonioso scorrere.

"Non fare nulla ma che niente non sia fatto": è questa la grande risposta cinese all'eroismo dell'azione, il Wu Wei, il "non agire", troppe volte mal compreso e interpretato come disimpegno, rinuncia, passività, "distacco orientale", ma che in realtà propone un modello di trasformazione continua (Hua) alternativo a quello dell'azione (p. 54).

Un pensiero longue durée che guarda alla globalità dei processi, progressivo e continuo, che non rinvia ad un determinato soggetto ma che procede discretamente attraverso un registro diffuso, costante, pervasivo. "La trasformazione non si vede, se ne notano solo i risultati", così come non ci si accorge della pianta che cresce in quanto il fenomeno della crescita è globale, impercettibilmente graduale, fondato sulla durata.

Da ciò la condanna strutturale del pensiero cinese all'agire, considerato effimero e superficiale, così come la mancanza di un vocabolo nel cinese classico in grado di tradurre la parola obbiettivo.

"Una delle maggiori cause dello spaesamento che suscita in noi il pensiero cinese è rappresentato dal fatto che esso si sottrae all'idea di finalità e la dissolve" (p. 36). Un prosciugamento dei fini in nome della propensione, della recettività, dell'immanenza, della durata.

Non ingerirsi, non ingegnarsi, bensì conformarsi alla propensione e accompagnarla; non guidare ma assecondare, modestamente e senza auto-incensarsi, né far rumore.

Lao Tzu riassume tutto questo magistralmente e in poche parole: "aiutare ciò che procede da solo", non una via che conduce a, ma la via per la quale qualcosa passa, attraverso cui tutto è 'viabile'. Quella del Tao, la via della regolazione, la via dell'armonia attraverso cui il processo si trova incessantemente ricondotto.

Ma quanto ancora il pensiero cinese potrà sottrarsi al culto della finalità? Quanto l'accelerazione del ritmo degli affari e le pressioni della globalizzazione potranno conciliarsi con i tempi lunghi o con l'attesa di uno sviluppo?.

"La Cina non potrà continuare a sottrarsi alle questioni del senso che non mancheranno di scuoterla - ammonisce Jullien - come quando gli Dei sanguinari della mitologia fanno crudelmente irruzione reclamando quanto loro dovuto" (p. 96). E a quel punto l'Europa, potrà (forse) ritrovare la sua importanza, anche se in posizione subalterna dal punto di vista della produzione.

Ma questo solo se sarà in grado di percorrere nuove vie, feconde, inventive, accostandosi con saggezza a nozioni da cui storicamente rifugge quali il non-senso, la perdita, l'assurdo. Varcando i limiti della propria filosofia e accogliendone le imprevedibili (es)tensioni.

Vitandrea Marzano