2008

G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Giappichelli, Torino 2006

Nella prestigiosa collana Analisi e Diritto è pubblicato un ampio saggio a firma di Giulio Itzcovich, ricercatore presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Brescia, che offre un'approfondita analisi del dibattito nella dottrina italiana degli anni '60 e '70 del Novecento sui rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, evidenziando un processo di "costituzionalizzazione dell'ordinamento europeo". L'autore analizza, in particolare, il ragionamento giuridico seguito dalle corti di giustizia, nazionali e comunitarie, e le evoluzioni della dottrina dell'epoca. Secondo Itzcovich, si può rilevare un mutamento nel modo di osservare e di pensare il diritto: "un passaggio dalla dogmatica giuridica al neocostituzionalismo; un passaggio dalla teoria dell'ordinamento giuridico al bilanciamento fra principi costituzionali; un passaggio dall'autonomia del diritto comunitario al dialogo costituzionale sulla protezione dei principi fondamentali" (p. 15).

In primo luogo, l'autore si sofferma sulla dialettica tra dottrine moniste e dottrine dualiste del diritto internazionale. Tre sono le questioni che le dottrine affrontano: 1) se il diritto interno e il diritto internazionale siano due ordinamenti autonomi e distinti (dualismo), oppure se siano integrati in un unico ordinamento (monismo); 2) se anche gli individui siano soggetti di diritto internazionale; 3) se il diritto internazionale prevalga o no in caso di conflitto con il diritto interno. La dialettica tra monismo e dualismo viene analizzata all'interno del dibattito circa le caratteristiche riconosciute agli ordinamenti giuridici. Gli ordinamenti giuridici possono essere interpretati, seguendo la lezione di Kelsen e Romano, o come insiemi di norme prodotte da un sovrano, o come insiemi di istituzioni che producono norme. Secondo Itzcovich i due modelli "sembrano indicare non tanto due concezioni dell'ordinamento giuridico in competizione, quanto i due poli- validità ed efficacia - della dottrina dell'ordinamento giuridico" (p. 63).

Del modello di ordinamento giuridico proprio del normativismo kelseniano, l'autore riprende il "principio di chiusura" come "condizione di pensabilità" di ogni sistema giuridico. Del modello romaniano, invece, egli segnala l'idea della gradazione del concetto di autonomia dell'ordinamento e la possibilità che uno stesso ordinamento (il diritto privato internazionale) sia concepito da punti di vista differenti: dal punto di vista dello Stato il diritto internazionale privato è una manifestazione della sovranità statale, mentre dal punto di vista dell'ordinamento internazionale esso si riduce "ad una manifestazione di autonomia dello Stato, permessa e limitata dal diritto internazionale" (p. 75). Un ordinamento quindi può, ma non deve necessariamente, negare valore giuridico ad ogni altro ordinamento. In ogni caso, conclude Itzcovich, le dottrine di Kelsen e Romano condividono l'idea che l'oggetto "diritto" sia descritto partendo sempre da particolari punti di vista. A differenza della dottrina ottocentesca, che riduceva la differenza tra i sistemi giuridici alle diverse volontà dei sovrani, il rapporto tra gli ordinamenti diventa un problema da analizzare a partire da una scelta circa il punto d'osservazione di questi insiemi di norme (p. 79). Questa evoluzione "prospettivistica" influenza la dottrina comunitaristica impegnata, soprattutto ai suoi albori, a rispondere, in modo originale, alle domande (1) circa la natura giuridica delle Comunità europee, (2) circa i criteri di interpretazione del diritto comunitario.

A proposito della prima questione, l'autore, riferendosi all'enorme produzione dottrinale, finisce per concludere che "la montagna doveva partorire il classico topolino: il concetto ancora corrente di ente sui generis, né internazionale, né statale" (p. 92). La costituzione delle Comunità europee è interpretata, dai giuristi dell'epoca, come una "costituzione-piano", come un progetto politico al quale, in modi diversi, i singoli stati si dovevano conformare, un diritto costituzionale in fieri, e non come una "costituzione statica", un modello di divisione dei poteri già stabilito. Questa modalità di concepire i trattati istitutivi ha svolto un ruolo anche nella modalità di interpretazione di questi testi, e si arriva così alla seconda questione. Vengono adottate, infatti, interpretazioni teleologiche dei testi. I trattati vengono interpretati in modo da realizzare il fine dell'integrazione. Ci si allontana, quindi, da modelli restrittivi e letterali di interpretazione dei trattati che partivano dall'assunto che non si potevano individuare le limitazioni alla sovranità statale a meno che non fossero chiaramente espresse o non costituissero un favore al contraente. L'autore, opportunamente, collega l'uso del metodo teleologico con il principio dell'autonomia del diritto comunitario rispetto ai diritti statali e considera il principio funzionalista la modalità di sviluppo delle istituzioni europee. Viene così alla luce un ordinamento "di tipo nuovo" regolato da principi differenti rispetto a quelli del diritto internazionale.

Nello sviluppo della giurisprudenza della Corte di Giustizia tra gli anni Sessanta e Settanta sono individuati tre processi. In primo luogo assistiamo ad una "de-internazionalizzazione" del diritto comunitario, "i rapporti tra gli stati membri vengono disciplinati da un complesso normativo che si distingue dal diritto internazionale e che rivolge le proprie norme direttamente ai cittadini" (p. 116). In secondo luogo possiamo parlare di una "de-costituzionalizzazione" del diritto statale, in quanto il diritto comunitario intende affermarsi come prevalente sulle costituzioni nazionali. In ultimo, abbiamo un processo di "integrazione" tra diritto statale e diritto comunitario al fine di costituire un unico ordinamento giuridico. Ampio spazio, a tal proposito, è dedicato alle sentenze (Van Gend & Loos, Costa, Simmenthal, Cassis de Dijon) che hanno dato inizio a questi processi. Infine, il processo di integrazione dei diritti degli stati-membri con il diritto comunitario è analizzato a partire da due questioni: la dialettica tra diritto comunitario e tutela dei diritti fondamentali, e l'efficacia diretta anche delle direttive, e non solo dei regolamenti.

Circa la prima, l'autore mostra come il problema nasce - a partire dalle dichiarazioni della Corte di giustizia circa la natura limitata, ma autonoma, del diritto comunitario - per il fatto che quest'ultimo "poteva prevalere solo grazie alla collaborazione e al dialogo fra giudici nazionali e Corte di giustizia. Tale collaborazione e dialogo a loro volta richiedevano che la Corte di giustizia rendesse visibile il fatto che l'evoluzione politica e istituzionale innescata dalla creazione delle Comunità europee non avrebbe portato ad una radicale trasformazione delle strutture costituzionali degli Stati membri per ciò che riguardava [...] i rapporti tra pubblici poteri e cittadini." (135). Alla comunitarizzazione degli ordinamenti statali corrisponde quindi una costituzionalizzazione del diritto comunitario necessaria al fine di potere realizzare l'integrazione tra gli ordinamenti.

Circa la seconda questione assistiamo ad una dialettica tra riconoscimento dell'efficacia diretta delle direttive, e autolimitazione del ruolo integrativo della Corte di giustizia in seguito a resistenze da parte dei paesi membri. L'autore mostra come il riconoscimento da parte dei giudici costituzionali dell'effetto diretto delle direttive sia stato più veloce in Stati con un record di infrazioni più alto, in particolare l'Italia. Al contrario la resistenza del Consiglio di Stato francese e della Corte federale delle finanze tedesca induce la Corte di giustizia a limitare l'effetto diretto delle direttive ai rapporti tra Stato e cittadini e non ai rapporti interprivati.

Il quarto capitolo del libro affronta il tema della costituzionalizzazione dell'ordinamento comunitario a partire dalle osservazioni della dottrina e della giurisprudenza italiana. Ad entrambe viene riconosciuto un apporto innovativo rispetto alle intenzioni del legislatore costituzionale e alla dottrina giuridica degli anni cinquanta. Tali innovazioni dipendono, secondo l'autore, dall'inerzia del legislatore costituzionale italiano e dalla frequenza delle procedure di infrazione a causa delle inadempienze imputabili al legislatore italiano e alla pubblica amministrazione. Anche questa volta si punta ad una ricostruzione dei mutamenti del discorso giuridico, come in altre parole gli operatori giuridici, legislatore, giudici e giuristi, vedono la loro attività e come considerano i metodi di indagine e di risoluzione delle questioni giuridiche che devono affrontare.

L'autore inquadra il processo, sicuramente eterodosso rispetto ai principi della teoria del diritto internazionale, di "comunitarizzazione" dell'ordinamento italiano all'interno dello smantellamento dell'idea di "sacralità del legislatore" (ordinario e costituzionale). Sulla scorta di una duplice contingenza (l'impossibilità di modificare la costituzione per la polarizzazione delle posizioni tra maggioranza e opposizione e le inadempienze del legislatore ordinario che si sottrae alle necessarie modifiche dell'ordinamento), la dottrina e la giurisprudenza assumono un ruolo rispettivamente "censorio" e "supplente" nei confronti dell'autorità legislativa. La necessità di cambiamenti significativi si imponeva sia a livello dottrinale sia a livello ordinamentale a causa delle numerosissime condanne comminate al nostro paese da parte della Corte di giustizia, tra il 1968 e il 1979, facendo parlare di una "particolare solerzia nel perseguire le violazioni da parte italiana" rispetto alle centinaia (commesse da altri paesi) segnalate dal Dipartimento giuridico della Commissione (p. 199 e nota). L'autore conclude quindi: "le assenze e inadempienze del legislatore offrivano l'occasione per un'interpretazione costituzionale fortemente evolutiva e per un'attività di costruzione dogmatica" (p. 202). Si assiste, allora, ad una cooperazione tra giudici comuni e Corte di giustizia al fine di realizzare questa integrazione tra l'ordinamento comunitario e quello statale con un utilizzo massiccio dell'istituto del rinvio pregiudiziale, utilizzo che, fa notare l'autore, permette ad uffici subordinati (i pretori) di partecipare a questo dialogo intergiudiziale mettendosi in contatto direttamente con la Corte di giustizia e realizzando una forma particolare di deliberazione pubblica argomentata. L'azione del giudice comune non costituisce un limite al governo democratico, ma una modalità di esercizio di tale potere, un "modello di democrazia" coerente con l'ideale di ragione pubblica esposto, tra gli altri, da J. Rawls.

In questo processo di "comunitarizzazione" dell'ordinamento italiano, la Corte costituzionale assume, per Itzcovich, un ruolo contrapposto a quello svolto dai giudici a partire dalle sentenze Costa (14/1964) e Acciaierie San Michele (98/1965). In primo luogo la Corte costituzionale riconosce la potestà del legislatore, tramite leggi di esecuzione, di limitare la sua sovranità in seguito alla stipula di Trattati internazionali. In questo modo l'art. 11 Cost. viene interpretato come una "norma permissiva" che rende costituzionali tramite legge di esecuzione i Trattati Ce; tuttavia, non viene riconosciuto al legislatore ordinario un obbligo di non promulgare leggi in contrasto con i Trattati Ce. In secondo luogo la Corte costituzionale elabora una posizione dogmatica circa i rapporti tra diritto statale e diritto comunitario: i due ordinamenti costituiscono "due orbite prive di ogni nesso" (p. 214). La Corte costituzionale riafferma quindi la legittimità della sua giurisdizione nei confronti del giudice comune italiano. Infine, la limitazione della sovranità statale incontra, secondo la Corte, un controlimite nella tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.

L'autore mostra, tuttavia, come il ruolo "frenante" della Corte costituzionale viene sostituito da un forte europeismo, in seguito al modificarsi di condizioni politiche nazionali e internazionali, con la sentenza Frontini (183/1973). Trovandosi davanti alla questione se l'applicabilità diretta dei regolamenti comunitari non fosse un caso di violazione dell'art. 70 Cost. sulla produzione di leggi, e se la competenza comunitaria ad istituire prelievi agricoli non violasse la riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 Cost.), la Corte si trova davanti ad una scelta "tragica": o considerare fondato il ricorso, e quindi minare alla radice il processo di integrazione europeo, o rendere la dottrina dei controlimiti al diritto comunitario un semplice auspicio. La Corte, come è noto, giudica infondate le questioni, ma è interessante seguire l'autore nella sua disamina della decisione.

La Corte costituzionale, argomenta Itzcovich, si trova costretta a seguire un approccio "topico": "di fronte alle competenze mobili della Comunità e al carattere dinamico ed evolutivo del processo di integrazione europea, era impossibile costruire gerarchie normative stabili; per contro, potevano funzionare solo giudizi di bilanciamento su base casistica" (p. 229). Giudici e giuristi passano da argomentazioni formalistiche e avalutative a prese di posizione politicamente compromesse. Per alcuni si tratta della "assunzione di una responsabilità etico-politica, piuttosto che strettamente tecnico-giuridica, nei confronti del progetto europeo" (p. 244); per altri si tratta di difendere le istituzioni democratiche statali da uno sviluppo dai contorni politicamente incerti. Espressione di questa "politicizzazione" è la continua affermazione, da parte della dottrina, del carattere "rivoluzionario" dell'esperienza d'integrazione europea. In questo quadro, caratterizzato dalla tensione tra gli schemi dottrinali e l'impetuoso processo di integrazione giuridica, al giurista non viene chiesto di riconoscere la costituzionalità o meno della legge ordinaria che ratifica i Trattati, data l'impossibilità politica per l'Italia di uscire unilateralmente dalla Comunità europea. Il giurista deve costruire i concetti dogmatici e proporre le interpretazioni costituzionali che permettano di concepire come valide le leggi d'esecuzione del diritto comunitario. Con la politicizzazione dell'argomentazione giuridica entra però in crisi la distinzione tra punto di vista interno (dogmatico), che considera obbligatoria la norma fondamentale dell'ordinamento studiato, e punto di vista esterno (teorico), che non considera quella norma fondamentale come obbligatoria. In altre parole, la dottrina continua a dividersi in studiosi dal punto di vista interno al diritto comunitario e studiosi dal punto di vista interno al diritto statale. Non si può però più distinguere facilmente tra punto di vista interno ed esterno ad un ordinamento giuridico, comunitario o statale, in quanto l'interpretazione di un ordinamento dipende dall'interpretazione dell'altro; è come se diventasse impossibile distinguere tra le norme fondamentali in quanto entrambe per essere interpretate rinviano l'una all'altra. Si costituisce così una comunità giuridica europea "al proprio interno eterogenea e differenziata" in quanto i suoi membri non sono spesso d'accordo su come fissare i confini tra ordinamento comunitario e singoli ordinamenti statali.

La politicizzazione del dibattito, intesa come tramonto dell'insularità del discorso giuridico, è vista da Itzcovich come un risultato necessario dato il conflitto tra autonomia del diritto comunitario e sovranità dell'ordinamento statale. In questo caso al giurista non è data altra strada che individuare e difendere dei valori supremi, "dei principi etico politici ulteriori rispetto a una legalità ormai sdoppiatasi in comunitaria e statale" (p. 268). In questo processo di politicizzazione del discorso giuridico particolare enfasi è data alla "dottrina minore" prodotta dai "pratici del diritto" (giudici e funzionari della Comunità, giudici nazionali e avvocati dello Stato). Questa assunzione di responsabilità è vista come urgente, date le difficoltà del processo di integrazione e l'assenza ed inadempienza del legislatore, costituzionale ed ordinario. In questo senso si chiede al giudice di farsi parte di questo processo ovviando con la sua azione alle carenze del legislatore e dell'amministrazione. A questo processo di "politicizzazione" della dottrina dei "giuristi pratici" fa da contraltare la reazione della "dottrina accademica". Si afferma da una parte il valore dell'autonomia del discorso giuridico rispetto alla contingenza degli orientamenti politici, anche di quelli che provengono dalla Corte di giustizia. In questo modo si mantiene "la capacità del diritto di consolidare le aspettative normative e di guidare i comportamenti" e si evita il rischio che ogni accademia cada preda, reattivamente, di fobie nazionalistiche (pp. 309-310). In questo modo, nota Itzcovich, la dottrina accademica finisce per politicizzarsi anch'essa. A fare le spese di questa situazione è la capacità della dogmatica di distinguere, in modo giuridico, non politico, tra l'ordinamento comunitario e i singoli ordinamenti statali.

L'ultimo capitolo si occupa appunto di come le dottrine internazionalistiche abbiano tentato di risolvere il problema dei rapporti tra gli ordinamenti. Si presentano a tal proposito due soluzioni: da una parte si distingue tra sovranità, che non si può cedere, e competenze o funzioni, che possono essere cedute ad autorità sovranazionali al fine di realizzare la cooperazione internazionale e la pace; dall'altra si rinuncia all'idea che la sovranità sia originaria ed esclusiva dell'istituzione statale e si ipotizza che l'ordinamento statale si "apra" all'ordinamento comunitario creando così dei "vuoti giuridici" riempiti dal diritto comunitario stesso. In entrambi i casi si ricorre alla nozione di diritti fondamentali come un controlimite a questo processo di cessione di competenze o di costruzione di un ordinamento sovranazionale di ascendenza privatistica.

Questo duplice ruolo dei diritti fondamentali è, per l'autore, la spia della crisi irreversibile dell'applicazione della teoria dell'ordinamento giuridico alle tematiche d'integrazione europea. Viene a mancare, infatti, la pretesa, propria delle teorie dell'ordinamento giuridico, di considerare un insieme di norme giuridiche come esclusivo e chiuso, come "la totalità di ragioni valide ed efficaci, la totalità delle ragioni decisive, cioè la totalità delle questioni giuridiche già decise, delle norme poste." (p. 429). Al contrario, una dogmatica giuridica basata sui diritti fondamentali si fonda su un allentamento delle caratteristiche di chiusura ed esclusività dell'insieme di ragioni giuridiche disponibili per dirimere una controversia (p. 433).

Seppur appesantito da qualche ripetizione, soprattutto per quanto riguarda l'ultimo capitolo, il testo costituisce un esercizio prezioso di analisi del discorso giuridico di vari attori del processo di integrazione. Con ampi riferimenti, anche biografici, alle figure principali di questo dibattito e con una precisa ricostruzione del legame tra evoluzione della giurisprudenza ed evoluzione della dottrina, l'autore offre un grande affresco di un processo d'importanza incalcolabile per la nostra civiltà giuridica. Le conclusioni di questo studio costituiscono una sponda, riteniamo imprescindibile, per tutti gli studiosi di filosofia del diritto, indipendentemente dai propri interessi, in quanto collegano il tema, centrale, della crisi delle teorie ordinamentali del diritto, e in generale del positivismo giuridico così come ci è stato presentato da Bobbio, con l'affermarsi delle teorie "neocostituzionalistiche" del diritto e la critica delle tesi circa l'insularità del discorso giuridico.

Nella filosofia del diritto, per lo più, tali tematiche sono affrontate a partire dal processo di costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici statali. Il testo di Itzcovich, invece, ci presenta un processo simile partendo dalla costruzione di un ordinamento sovranazionale "di tipo nuovo". Tale costruzione mostra, per particolari ragioni, l'insostenibilità delle dottrine ordinamentali del diritto sia nella loro versione dualista sia nella loro versione monista, sia infine nella versione pluralista.

Che però la dogmatica neocostituzionalista riesca a risolvere il problema di individuare l'unità delle ragioni giuridiche, in modo da distinguerle dalle ragioni "non giuridiche" (politiche e morali), è un elemento di discussione e di scontro, così come il dibattito sull'evoluzione del positivismo giuridico negli ordinamenti costituzionali dimostra. A tal proposito l'autore non si pronuncia, se non ricordando che una forma di "unitarietà" del discorso giuridico, di distinzione di questo da altre argomentazioni, è necessaria al fine di parlare di una "dogmatica giuridica". Anche il discorso del neocostituzionalismo ha bisogno di un suo "formalismo", così come è necessariamente "opaco rispetto alle politiche che può di volta in volta ospitare" (p. 420). Importante, secondo l'autore, è però avere mostrato una discontinuità nel discorso giuridico rispetto alle teorie ordinamentali, discontinuità che si può apprezzare anche per i processi di costruzione di sistemi giuridici sovranazionali. Rimane allora aperta una questione. Anche il neocostituzionalismo mira ad un ordinamento chiuso, inteso come insieme esclusivo delle ragioni giuridiche? In questo caso, non si apprezzerebbe una differenza rilevante, almeno su tale questione, tra teorie ordinamentali e teorie neocostituzionali. Se invece si vuole riconoscere che con il neocostituzionalismo si punta a mettere in crisi (come fa C.S. Nino, tra gli altri, con la sua connessione tra diritto e morale, ma anche R. Alexy con la sua teoria dell'argomentazione giuridica come caso particolare dell'argomentazione morale) l'idea di un insieme chiuso e unitario di norme, la c.d. tesi dell'insularità del discorso giuridico, allora rimarrebbe da discutere in che senso tale dottrina intende presentare una sua dogmatica e un suo formalismo. Questo mi sembra un limite dell'analisi di Itzcovich: non avere problematizzato l'idea che il neocostituzionalismo possa ambire ad una sua dogmatica, ed essersi invece limitato a riaffermare l'esigenza che la comunità dei giuristi mantenga un suo linguaggio e suoi codici. Tale affermazione non mi sembra sbagliata, ma apre per la dottrina neocostituzionalista un problema che per ragioni probabilmente di opportunità, date le già rilevanti dimensioni del lavoro, l'autore non affronta: come individuare un sistema giuridico non chiuso, ma unitario, con un proprio codice, ed aperto ad argomentazioni morali? Resta dunque l'impegno di affrontare un simile problema, tenuto conto però dell'importanza del contributo offerto oggi da Itzcovich.

Francesco Biondo