2005

M. Ignatieff, Human rights as politics and idolatry, Princeton University Press, Princeton 2001, trad. it. Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 160, ISBN 88-07-10350-8

Questo testo cerca di chiarire il senso dei diritti umani per il mondo contemporaneo considerandoli sotto due angolature fondamentali: come politica e come idolatria. Dal primo punto di vista si nota che, sebbene spesso l'attivismo dei diritti umani si definisca antipolitico perché difende rivendicazioni morali universali, intese a delegittimare le giustificazioni politiche degli abusi sugli esseri umani, in realtà un attivismo efficace è tendenzialmente parziale e politico. La rivoluzione dei diritti umani è cominciata concretamente con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. Attualmente, i diritti della maggioranza degli esseri umani dipendono dagli stati in cui questi vivono. I popoli che non hanno uno stato aspirano ad istituirlo e in alcuni casi combattono per raggiungere questo obiettivo. Anche se gli stati rimangono il principale scudo protettivo dei diritti, i movimenti internazionali per i diritti umani e le convenzioni hanno acquisito una influenza significativa sugli stati di diritto nazionali. Così, benché i diritti umani internazionali abbiano autorità e potere, la loro portata e il loro mandato sono divenuti sempre più confusi. In seguito al crollo dei sistemi comunisti, inoltre, e all'affermazione dei valori occidentali, i diritti umani, sempre più di frequente, sono considerati il linguaggio di un imperialismo morale. Ignatieff discute proprio la credenza che i diritti umani siano al di sopra della politica e che abbiano la funzione di portare a conclusione le dispute politiche. In realtà, secondo l'autore, i diritti umani dovrebbero essere considerati come «una forma di politica, che deve ricondurre i fini morali alle situazioni concrete e deve essere pronta a sottoscrivere compromessi spiacevoli non solo tra fini e mezzi, ma anche tra un fine e l'altro» (pp. 25-26). Peraltro, il testo sottolinea la difficoltà di conciliare i valori dei diritti umani con il mantenimento della stabilità di uno stato, come nel caso del popolo curdo e Timor Est. In questi casi, il problema della politica occidentale dei diritti umani è che, promuovendo l'autodeterminazione dei popoli, si mette in pericolo la stabilità degli stati che è un requisito indispensabile della protezione dei diritti umani.

Queste considerazioni inducono a rivalutare il rapporto tra democrazia e diritti umani, all'interno del quale diventa centrale il ruolo del costituzionalismo. Il diritto all'autodeterminazione, insomma, è una rivendicazione che, nell'ottica di Ignatieff, non sempre appare giustificabile. L'importanza del costituzionalismo, in questo contesto, risiede nel fatto che esso «implica l'allentamento dell'unitarietà dello stato nazione - un popolo, una nazione, uno stato - in modo che esso possa rispondere adeguatamente alle richieste, avanzate dalle minoranze, di protezione del loro patrimonio linguistico e culturale e al loro diritto all'autogoverno» (p. 37). Questo discorso presuppone la necessità dell'ordine dello stato come garanzia dei diritti: il rafforzamento dei diritti umani passa per il rafforzamento degli stati più che per l'attivismo delle ONG.

Molto importante è anche il problema dell'intervento esterno per far rispettare i diritti umani. Questo tipo di interventi spesso hanno avuto poco successo o sono stati contraddittori. Il punto è che anche quest'ambito dei diritti umani si presenta particolarmente ambiguo. È difficile determinare correttamente i criteri di intervento. Il confine tra gli abusi riguardanti i diritti umani puramente interni e quelli che minacciano la pace e la sicurezza internazionale non è netto. Inoltre, i diritti umani vengono fatti valere attraverso un sistema internazionale tracciato dai vincitori del 1945. Il risultato è che l'intervento dispone raramente del consenso internazionale, perché non esistono le istituzioni atte a creare tale consenso. Il momento dell'intervento tende ad essere compromesso nella sua legittimità perché esso tende a collocarsi in seguito alle violazioni brutali dei diritti umani, quasi che queste fossero un prerequisito necessario. Ignatieff individua quindi tre cause per la crisi dei diritti umani, dal punto di vista politico internazionale. In primo luogo la mancanza di coerenza nei criteri di intervento; secondariamente, la difficoltà di conciliare i diritti umani universali con l'impegno verso l'autodeterminazione e la sovranità dello stato; infine l'incapacità, successivamente all'intervento, di creare con successo istituzioni legittime che possano proteggere i diritti umani.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, Ignatieff pone una domanda rilevante. Posto che i diritti umani sono divenuti una sorta di articolo di fede, un insieme di credenze, «che significato ha credere in essi?» (p. 55). Ora, per l'autore fare dei diritti umani una questione di credo significa trasformarli in una questione metafisica e, quindi, in una specie di idolatria. Il punto diventa il fatto che i diritti umani riguardano ciò che è giusto, non ciò che è bene. Essi sono importanti «perché aiutano la gente ad aiutarsi» (p. 59) e riguardano il conferimento di potere individuale. Tale conferimento di potere agli individui, inoltre, è desiderabile perché, quando gli individui hanno capacità di azione, sono in grado di proteggere se stessi dall'ingiustizia. I diritti umani vengono giustificati attraverso un approccio minimalista per cui essi dovrebbero configurarsi come «una cassetta degli attrezzi contro l'oppressione, che gli attori individuali devono essere liberi di usare se lo ritengono opportuno all'interno del più ampio contesto di credenze culturali e religiose in cui vivono» (pp. 59-60).

A questo punto vengono valutate le obiezioni all'autorità dei diritti umani. Innanzitutto quella islamica, che non condivide il linguaggio che universalizza i diritti, poiché esso implica un individuo sovrano e indipendente inconcepibile secondo la dottrina del Corano. Spesso l'Occidente ha commesso l'errore di assumere fondamentalismo e Islam come sinonimi, oppure in modo altrettanto sbagliato ha concesso troppo alla contestazione islamica in nome del relativismo culturale. Una seconda obiezione viene dai valori asiatici espressi in paesi emergenti dell'Estremo Oriente, che sostengono l'idea di un via asiatica allo sviluppo e alla prosperità. In queste obiezioni l'elemento che viene posto sotto accusa nei confronti dei diritti umani è l'individualismo morale che essi sottendono. Tuttavia, si deve sottolineare che «adottare i valori della capacità di azione individuale non implica necessariamente adottare il modo di vivere occidentale» (p. 71): cercare la protezione dei diritti umani vuol dire soltanto usufruire delle protezioni date dalla "libertà negativa" (espressione ripresa da Berlin). L'individualismo del discorso sui diritti costituisce proprio un rimedio effettivo contro la tirannia e, soprattutto, costituisce una teoria leggera del bene umano, poiché definisce e mette al bando quelle limitazioni che rendono la vita umana impossibile, ma non prescrive la gamma delle vite buone da seguire. Così, l'intervento dei diritti umani è legittimato quando l'autorità tradizionale è "arretrata o incivile", non secondo gli standard occidentali, ma "secondo gli standard di coloro che quell'autorità opprime" (p. 79). Parallelamente, il fondamento dell'idea di diritti umani va cercato in quel che sono gli esseri umani, «lavorando su assunzioni riguardanti quanto di peggio essi possono fare e non su speranzose aspettative del meglio» (p. 82). La conclusione è che si dovrebbe cominciare a pensare ai diritti umani come ad un linguaggio che crea le basi per la deliberazione. Essi non sono il credo universale di una società globale o una religione secolare, ma qualcosa di più prezioso: il vocabolario comune dal quale possono cominciare le nostre argomentazioni. Una conclusione nella quale sembra rinvenibile una visione quasi wittgensteiniana di diritti umani come giochi linguistici.

L'edizione italiana del saggio di Ignatieff è accompagnata dagli interventi di due teorici politici italiani: Salvatore Veca e Danilo Zolo. Ne accenniamo rapidamente. Veca cerca di mettere a fuoco la priorità del male nella giustificazione di una tesi plausibile sui diritti umani affrontando anche il problema dell'ampiezza delle dimensioni distinte della giustificazione e dell'adesione ai diritti umani. Zolo sviluppa invece un'analisi teorica del saggio di Ignatieff, in particolare alle idee del moralismo, dell'etnocentrismo, della collocazione dei diritti soggettivi nella sfera della libertà negativa.

Un libro quindi, che rende disponibile al lettore un approccio alla problematicità dei diritti umani, mostrando una parte della complessità filosofico politica che questa dimensione sottende e che, spesso, nei discorsi mediatici e pubblici, non viene adeguatamente valutata.

Francesco Giacomantonio