2005

O. Höffe, Gibt es eine interkulturelles Straftrechts? Ein philosophischer Versuch, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1999, trad. it. Gobalizzazione e diritto penale, Comunità, Milano 2001, pp. X-156, ISBN 88-24-50607-0

In questo saggio Otfried Höffe considera il diritto penale come un aspetto della "globalizzazione dei rapporti sociali". Oggi, egli rileva, "leggiamo di crimini economici commessi a Singapore, il responsabile dei quali è poi arrestato a Francoforte e condannato in Gran Bretagna". E non solo tutta una serie di fenomeni criminali attraversano le frontiere degli Stati, ma anche all'interno dei singoli ordinamenti giuridici ci pongono problemi di diritto penale interculturale. Ci si trova di fronte a situazioni come quelle di un cittadino immigrato in un paese europeo, che commette un reato e giustifica il suo comportamento sostenendo che quel comportamento nel suo paese di origine è legale, se non addirittura doveroso (pp. 31-34).

Se l'epoca della globalizzazione pone problemi nuovi, secondo Höffe quello del trattamento penale dello straniero è storicamente assai risalente. Lo straniero è stato considerato come barbaro, negando la sua pretesa di godere dei diritti umani, ma d'altra parte, fin da Levitico19,34, si afferma l'idea dell'eguale trattamento. Nell'Impero romano, peraltro, si è affermata la concezione dello ius gentium come diritto privato internazionale. Tale "diritto interculturale noto a tutti i popoli" verrà poi ricondotto dalla dottrina scolastica a una ragione naturale comune a tutti gli uomini, la ratio naturalis, e che consta di istituzioni e principi giuridici condivisi da tutti i popoli" (pp. 21-22). D'altra parte, nel diritto romano, il diritto penale non è incluso nello jus gentium. Il concetto di crimine si riferisce non allo status di cittadinanza ma al soggetto umano come tale. E nell'esperienza romana si sono prospettate ulteriori soluzioni: quella di una sorta di federalismo penale, che comporta la tolleranza di determinate azioni come rispetto dei costumi, e quella della coesistenza di differenti sistemi giuridici connessi con l'appartenenza alla comunità di origine, indipendentemente dal domicilio.

Pur tenendo conto di questi differenti aspetti, la soluzione proposta da Höffe prende decisamente la via dell'universalismo, poggiando su una stretta connessione fra diritto penale e tutela dei diritti umani. Per Höffe è un "fatto empirico [...] che anche i cataloghi dei diritti umani extraeuropei prendono le mosse da assiomi antropologici che, del resto, corrispondono ampiamente ai nostri" (p. 60), come pure si deve ammettere l'"esistenza di un particolare tipo di interessi, i quali costituiscano la condizione stessa della possibilità degli interessi così come li conosciamo di consueto" (p. 60). Esistono conditions of agency irrinunciabili per ogni essere umano, come la vita e l'integrità fisica, il linguaggio e la ragione, una generale capacità sociale e una più specifica capacità politica e giuridica.

Sulla base di questa comune conditio humana la legittimazione dei diritti umani rimanda a quello che Höffe definisce 'scambio trascendentale': l'uomo può causare violenza ed esserne vittima. Proprio per questo, secondo la 'morale giuridica', "sussiste una pretesa soggettiva a non diventare vittime della capacità altrui di usare violenza; formulato positivamente, si tratta del diritto alla vita e all'integrità fisica". Inoltre - e questo è il punto decisivo - tale interesse può essere tutelato solo laddove gli altri - che hanno a loro volta tale interesse - lo rispettino. Dunque "diritti soggettivi esistono solo laddove altri si fanno carico dei doveri corrispondenti: i diritti umani sono quindi vincolati ai corrispondenti doveri degli uomini nei confronti dei loro simili" (pp. 63-64)

Se è possibile definire in questo modo un nucleo di diritti umani e giustificarli in modo indipendente dall'appartenenza culturale, si deve d'altra parte, secondo Höffe, riconoscere che il diritto penale, in qualche forma, è presente in pressoché tutte le culture e che alcuni suoi principi hanno validità interculturale. Höffe si riferisce a principi fondamentali della procedura, come in dubio pro reo, audiatur et altera pars, nemo sit judex in causa sui. E per quanto riguarda il diritto penale sostanziale, afferma che le classi di delitti oggi consuete sono riscontrabili in pressoché tutte le culture. Ciò esprime, secondo Höffe, un nesso di implicazione fra diritti umani e diritto penale. Il diritto penale "rappresenta un elemento irrinunciabile dell'organizzazione di una società che intenda se stessa come vincolata all'ideale dei diritti umani [...] nella funzione concreta di scudo protettivo dei diritti umani ed espressione del legame della società con le vittime della loro violazione [...] in questa funzione esso avanza a buona ragione la pretesa di possedere una validità interculturale" (pp. viii-ix). Infatti, egli sostiene, "affermare che si ha diritto a qualcosa - per esempio alla vita ed all'integrità fisica - significa che il soddisfacimento di questo diritto è dovuto a ognuno e che in caso contrario si può ottenere tale soddisfacimento con la forza" (pp. 70-71).

In questa ottica, i divieti la cui inosservanza dà luogo a una sanzione penale rappresentano il rovescio di esigenze legittime, in ultima istanza fondate sui diritti umani e pertanto valide universalmente. Questo tipo di legittimazione, dunque, non si richiama a particolarità culturali ma d'altra parte non concede al diritto penale una sorta di delega in bianco, tale da trasformarlo in "uno strumento di controllo generale del comportamento". In ogni caso, per Höffe l'idea filosofica dei diritti umani non coincide con un determinato catalogo. Di qui la raccomandazione della 'modestia' e della 'cautela' e l'impegno a mediare un nucleo universale con elementi della rispettiva cultura, in cui le differenti tradizioni hanno da imparare reciprocamente: "altre culture giuridiche hanno lo stesso diritto dell''Occidente' a riconoscere se stesse nei diritti umani, portando a termine i processi di apprendimento e di trasformazione necessari a questo scopo a partire da se stesse" (p. 96).

La titolarità dei diritti umani si traduce immediatamente nella facoltà di punire il trasgressore. Ma affidare ai privati questo compito finisce per legittimare la 'legge del più forte' e, in mancanza di un terzo super partes, lascia alla mercé dell'interpretazione privata. Le Eumenidi di Eschilo possono essere interpretate come la narrazione del mito fondativo del diritto penale in quanto procedura che interrompe la catena delle vendette; raccontano la nascita del potere pubblico come momento sostitutivo della vendetta di sangue (pp. 70-78). Questa concezione del nesso diritti umani/diritto penale si esprime in una teoria retributivistica della pena. Höffe sottolinea che la pena in sé è una re-azione: punitur quia peccatum est. E "anche le alternative, l'effetto intimidatorio tramite la minaccia della pena e il reinserimento [...] riconoscono - eventualmente à contre cœur - l'idea della ritorsione" (p. 88).

Sulla base di questo approccio, Höffe sostiene che l'incontro fra culture differenti non configura come tale situazioni in cui gli stranieri possano richiamarsi alla diversità della loro cultura. Di fronte al rischio della creazione di 'nicchie giuridiche' e del proliferare di eccezioni alla regola, si deve tenere fermo che dal punto di vista penalistico non esistono 'stranieri' in senso forte: "Il diritto penale internazionale conferma così una regola fondamentale dei discorsi giuridici interculturali: ciò per cui ci impegniamo con forza, lo possiamo ritrovare anche in altre culture in particolare ciò per cui ci indigniamo suscita l'analoga indignazione dei nostri simili anche altrove" (p. 136). In questa linea, Höffe auspica la formazione di un codice penale transculturale, al di là della ristretta serie di reati previsti dallo statuto della International Criminal Court, di cui critica la timidezza ed i limiti (pp. 110-111).

Il saggio di Höffe ha un merito indiscutibile: 'prendere sul serio' il problema del confronto interculturale in tema di diritto penale. Ma si potrebbe mettere in questione l'effettiva universalità metatemporale e transculturale di quel nucleo di 'veri' diritti umani sui cui l'A. fonda l'intera argomentazione. E soprattutto si potrebbe rilevare che. anche se si riscontra un accordo pressoché universale sull'idea che alcuni beni e ad alcune conditions of agency hanno grande valore, nelle società multiculturali confliggono le differenti interpretazioni di tali beni e di tali valori. Nessuno contesta, ad esempio, che la vita umana o la salute abbiano grandissimo valore; ci si differenza radicalmente, però, sull'interpretazione del significato della vita e della salute: si pensi al dibattito sull'aborto o al problema delle mutilazioni genitali femminili.

Inoltre, Höffe tende a mettere in secondo piano le grandi differenze che si riscontrano - nella vicenda storica e sul piano del confronto fra differenti sistemi penali - nella tipologia delle pene e negli apparati sanzionatori. Ma è lecito chiedersi se un reato punito, poniamo, con il supplizio o piuttosto con la sedia elettrica o con una pena detentiva possa essere considerato come lo stesso reato. E soprattutto, come ci ha insegnato tutto un campo di ricerca, almeno a partire dagli studi di Michel Foucault, la funzione, l'ambito, il 'senso' del diritto penale si sono radicalmente modificati attraverso la ridefinizione e la trasformazione delle pene.

Ci si può d'altra parte chiedere se una concezione retributivistica della pena sia quella più adeguata al confronto interculturale. Considerare il diritto penale come, in definitiva, l'attribuzione di giuste punizioni per atti da considerare in sé, e dunque universalmente, illeciti, è il modo migliore per arginare efficacemente le violazioni dei diritti fondamentali e per limitare le sofferenze degli individui? La stessa esperienza recente indica altre vie. Nelle giurisprudenza penale europea si è affermata la tendenza a concepire il pluralismo normativo come una realtà con cui fare i conti. Che un determinato comportamento, reato nel paese di immigrazione sia viceversa considerato lecito, o più spesso obbligatorio, nel sistema di valori cui l'individuo risponde, è stato considerato spesso come un'attenuante. Ma soprattutto c'è da chiedersi se proprio nell'ambito del diritto penale anche la cultura giuridica europea non debba continuare ad impegnarsi in quei 'processi di apprendimento' cui Höffe si riferisce. Il dibattito sull'efficacia del diritto penale, e sull'opportunità di un'estensione pervasiva del suo campo di applicazione, è di lunga durata e di grande complessità. Qui si può ricordare che non sempre la via penale - e in particolare l'approccio retributivistico - si rivela praticabile, o adeguata, per conseguire fini come la tutela dei diritti umani, la protezione delle vittime, il perseguimento della pace e dell'integrazione sociale. È significativo che, in anni recenti, società che hanno conosciuto il genocidio o crimini contro l'umanità come l'apartheid abbiano rinunciato all'approccio penale o lo abbiano integrato reintroducendo o 'reinventando' forme tradizionali di giustizia. Per la costruzione di un diritto penale interculturale, forse non c'è da imparare solo dell'austero retributivismo kantiano, ma anche da forme 'primitive' e comunitarie di gestione e superamento dei crimini e dei conflitti. Davvero, come suggerisce Höffe, occorre molta cautela perché l'universalismo non si trasformi in imperialismo culturale.

Luca Baccelli