2006

M. Nussbaum, Hiding from Humanity. Disgust, Shame, and the Law, Princeton University Press, Princeton 2004, tr. it. Nascondere l'umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma 2005, 486 pp, ISBN 8843035193

Martha Nussbaum in questo libro analizza il ruolo che emozioni come il disgusto e la vergogna giocano nella società nordamericana, impegnata per tradizione giuridica e politica a garantire il rispetto liberale per il pluralismo. Partendo dalla lettura di alcune sentenze sia in materia penale che civile, l'autrice mostra come il ricorso al disgusto e alla vergogna, quali sentimenti legittimi per chiedere giustizia, possa elevare l'impressionabilità dell'uomo comune a fattore determinante di produzione normativa, rischiando perciò di incentivare meccanismi di stigmatizzazione sociale verso gruppi più deboli o soggetti svantaggiati. Come via di uscita viene proposto un modello di giustizia basato su una valutazione di "ragionevolezza delle emozioni". In tale concezione della giustizia è racchiusa l'adesione dell'autrice ad una ideale politico preciso, adesione che diviene più chiara nell'ultimo capitolo di questo libro totalmente dedicato al ripensamento del liberalismo politico (cap. 7, Un liberalismo progressista senza finzioni?).

Ma procediamo per gradi.

Il libro si apre con un saggio nel quale l'autrice affronta preliminarmente la questione teoretica del rapporto che si dà tra emotività e produzione normativa (Le emozioni e la legge). Di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni? Le emozioni sono esperienze umane più complesse di uno stimolo biologico o di uno stato d'animo. Esse sono avvertite in quanto possiedono, nella maggior parte dei casi, un oggetto sul quale si concentra l'emozione stessa. Si tratta, come l'autrice lo definisce, di un "oggetto intenzionale", vale a dire che il ruolo di tale oggetto nell'emozione dipende dal modo in cui esso è visto e interpretato dalla persona che prova l'emozione. Come già Aristotele aveva mostrato nella Retorica, esiste un rapporto diretto tra emozione e credenza. Tramite le credenze, le emozioni si esplicitano fino a che risultano determinate in buona parte della loro natura (per cui, p. es., la paura implica una credenza relativa al verificarsi di possibilità nefaste in un futuro imminente). A veder meglio, quindi, l'esperienza emotiva si gioca tra il pensiero dell'oggetto, la credenza dello stesso e l'emozione suscitata percependolo. Si può dunque affermare che le emozioni contengono al loro interno una forma di giudizio circa il loro oggetto; in questo senso esse hanno internamente condizioni di ragionevolezza che possono essere esplicitate e sono perciò passibili di valutazione. La connessione delle credenze, attraverso le emozioni, a criteri di ragionevolezza costituisce per Nussbaum un importante presupposto da cui partire per costruire criteri pubblici e liberali di valutazione delle emozioni. L'uomo infatti è per sua natura un essere vulnerabile e mortale e la struttura stessa della vita umana genera una certa tendenza a emozioni irragionevoli. Per questo motivo la produzione di un impianto di valutazione delle emozioni consentirebbe di capire meglio cosa si deve intendere per "uomo ragionevole", senza schiacciarlo sul novero di credenze, filtrate nelle norme e nei comportamenti sociali, che stanno alla base dell'"uomo medio".

Nei successivi due capitoli l'autrice si sofferma sul disgusto e sul suo contenuto cognitivo (Il disgusto e i nostri corpi animali; Il disgusto e il diritto). Il disgusto esprime un sentimento di ripugnanza nei confronti di enti portatori di contaminazione. Esso ha attinenza con la relazione problematica che abbiamo con la nostra animalità, con il decadimento naturale del nostro corpo e con le sue escrezioni, odori, impurità. Da questo livello primario il disgusto si propaga fino a essere proiettato verso gruppi di persone socialmente vulnerabili che vengono sottomessi. Esso quindi costituisce un cattivo criterio di ragionevolezza perché, prima di tutto, non sempre coincide con l'individuazione di un pericolo reale e, poi, è soggetto a manipolazioni sociali e a superstizioni. Il disgusto svolge un ruolo importante nel diritto, come giustificazione per sancire l'illegalità di certi atti (come ad esempio nei casi in cui il danno inflitto si giustifica come "reazione ragionevole"; o come nelle soluzioni giuridiche che regolano l'oscenità, la pornografia, i crimini efferati, le leggi sulla turbativa), una importanza questa del disgusto nel diritto che, secondo Nussbaum, andrebbe rivista: in quanto criterio di orientamento limitato, esso non è degno di guidarci nell'azione pubblica. Al disgusto Nussbaum preferisce l'indignazione che concerne, in maniera meno superstiziosa, una reazione a torti e danni effettivamente subiti. L'indignazione è infatti una reazione al fatto reale che anche le cose che ci stanno più a cuore possono essere danneggiate dall'azione ingiusta di un altro.

Nel quarto, quinto e sesto capitolo l'autrice passa all'analisi della vergogna (L'iscrizione del volto: la vergogna e lo stigma; Cittadini esposti alla vergogna?; Proteggere i cittadini dalla vergogna). La vergogna è una esperienza umana nella quale impariamo quanto sia difficile e doloroso nascondere le nostre debolezze. Secondo Nussbaum la vergogna è un sentimento che si trova ancor prima che diventiamo coscienti del sistema di valori nel quale viviamo. Essa attiene a quella fase di narcisismo dei primi mesi di vita del bambino. In questa fase il bambino vive in una condizione allucinata di onnipotenza che imparerà a modulare dopo le prime esperienze frustranti che gli faranno scoprire il principio di realtà. La vergogna pone in questa fase le sue basi: essa è il riconoscimento doloroso di non-onnipotenza, di mancanza di controllo sul mondo, una sorta di fallimento narcisistico dell'idea di perfezione. Nasce in questo modo un senso di inadeguatezza che precede qualsiasi particolare apprendimento delle norme sociali (come sottolineato nel caso B dei Frammenti di un'analisi di Winnicott) e che porta la vergogna a crescere quale sentimento di distacco rispetto al contesto nel quale le emozioni hanno luogo, un sentimento perciò non sempre legato ad un pubblico - come avviene nell'imbarazzo - e che quindi non ha un carattere sociale prevalente. La vergogna di tipo primitivo subordina infatti gli altri alla necessità del sé, di autoaffermazione e perfezione, e in questo modo non ha potenzialità creative di riparazione del male fatto, come avviene invece per il senso di colpa, ma solo un atteggiamento di fuga.

Così come per il disgusto, anche per la vergogna esistono nella società meccanismi di propagazione che espongono i cittadini alla stigmatizzazione pubblica. Come dovrebbe comportarsi la legge a proposito? L'autrice attacca i comunitaristi come Kahan e Etzioni che pensano che la vergogna abbia un effetto deterrente forte e che la punizione tramite vergogna dia espressione ai valori più fondamentali della società (come ad es. per gli automobilisti fermati in stato di ubriachezza tenuti ad esporre sul paraurti della loro auto adesivi che recitano "conducente condannato per guida in stato di ubriachezza").

Non tutti i gruppi sono omogenei. All'interno di essi esistono differenze di norme e valori che il più delle volte corrispondono a differenze di potere esercitate su soggetti considerati inferiori all'interno del gruppo stesso. Questo è l'errore di molte teorie comunitariste che rischiano di non vedere che anche all'interno dei gruppi sociali avvengono processi di stigmatizzazione. La legge in questo caso dovrebbe offrire una robusta protezione insistendo prima di tutto sui diritti civili e le libertà individuali, e poi agire in maniera più efficace sulle situazioni contingenti che creano le condizioni per il sorgere di stigma: migliorare le condizioni socio-economiche, impedire l'uso di profili razziali nei giudizi pubblici, promuovere leggi antidiscriminazione, promuovere leggi volte a colpire i cosiddetti "crimini motivati da odio".

Nell'ultimo capitolo Nussbaum ripensa le basi del liberalismo politico. Per far questo parte da J.S. Mill e dalla distinzione che egli pone tra "fatti che riguardano se stessi" e "fatti che riguardano gli altri" come elemento fondamentale di definizione della sfera della libertà, una distinzione che permette di superare le incertezze della divisione tra pubblico e privato che hanno affossato molti liberalismi. Questo principio va poi sviluppato alla maniera rawlsiana, anteponendo il valore dell'individuo ai motivi del benessere sociale. Questi sono, per l'autrice, gli ingredienti fondamentali di una liberalismo progressista che, oltre a difendere la dignità dell'individuo, deve far propria una concezione della persona che tenga conto della vulnerabilità umana e che abbia come fine politico la capacità di scegliere e di sottrarsi alle affiliazioni e alle stigmatizzazioni identitarie.

Al di la di una analisi rigorosa dell'importanza del ruolo pubblico delle emozioni, soprattutto nel campo del diritto, l'autrice non sempre riesce a mantenere per tutta l'opera la stessa brillantezza analitica, rimanendo a volte impigliata in critiche stereotipate. Questo si fa sentire con maggiore forza nell'argomentazione usata contro le teorie comunitariste: qui rimane prigioniera di uno stereotipo di comunitarismo di stampo conservatore, facile da criticare e a cui affiancare un modello, senza dubbio più meditato, come il suo liberalismo progressista. Pur consapevole della ragionevolezza di alcune delle critiche dell'autrice, sono dell'opinione che esista anche una capacità riformatrice del comunitarismo che, pensando ai temi del disgusto e della vergogna, potrebbe aiutare a smascherarne le cause sociali, senza dover assumere per forza una posizione morale a riguardo o dover usare queste emozioni come elemento di identificazione comunitaria.

Antonio Carnevale