2005

B. Henri Lévy, Réflexions sur la guerre, le mal et la fin de l'histoire, 2001, trad. it. I dannati della guerra. Riflessioni sulla guerra, il male e la fine della storia, Il Saggiatore, Milano 2002, ISBN 88-428-1024-X

L'attacco alle due Torri gemelle e al Pentagono del settembre 2001 induce Henri Lévy ad aggiungere al suo libro su I dannati della guerra una prefazione in cui si affrontano i problemi relativi al rapporto tra Islam e Occidente e al concetto di fine della storia. Da un lato Lévy si rifiuta di ascrivere sotto l'unica categoria di terroristi anche solo potenziali tutti i mussulmani del mondo. Dall'altro lato, in seguito all'attacco su New York, trova ulteriore conferma alle perplessità relative al concetto di fine della storia, visto che «la più grande astuzia della Storia è forse quella di recitare la commedia del proprio esaurimento» (p. 18).

Tuttavia il tema centrale del libro è un altro: una riflessione sulla guerra, sul male e sulla fine della storia visti dalla prospettiva dei «dannati della guerra», ossia coloro che, nel solco della guerra fredda, continuano a scannarsi ai quattro angoli della Terra nel disinteresse generale, vittime di una storia che ormai non li riguarda più. Con essi «emerge un mondo in cui, per la prima volta nei tempi moderni, e proprio perché i grandi racconti conferitori di senso ormai tacciono, enormi masse di uomini sono coinvolte in guerre senza scopo, senza chiari obiettivi ideologici, senza memoria pur durando da decenni, fors'anche senza esito, e in cui a volte è ben difficile dire, fra protagonisti ugualmente ebbri di potere, denaro e sangue, dove sia il vero, il buono, il male minore l'auspicabile» (p. 26).

Alla descrizione delle guerre più devastanti e meno ricordate del pianeta, Henri Lévy dedica tutta la prima parte del volume, con cinque reportages giornalistici che descrivono altrettante situazioni in qualche modo esemplari dei peggiori buchi neri della storia: l'Angola, sede di una guerra ormai quarantennale tra Mpla (Movimento Popular da Libertação de Angola) e Unita (União Nacional para a Independência Total de Angola), guerra che ha le sue uniche zone franche nelle regioni petrolifere e minerarie, appaltate a grandi multinazionali occidentali e in cui veri e propri schiavi lavorano sotto l'occhio vigile dei militari di entrambi gli schieramenti. Lo Sri Lanka, dilaniato dalla guerra civile tra induisti e buddisti e in cui l'esercito della maggioranza buddista ha comportamenti tanto criminali quanto i reparti induisti delle Tigri Tamil. Il Burundi, in cui la lotta tra Hutu e Tutsi assume i connotati di un vero e proprio suicidio collettivo. La Colombia in cui, nel contesto della lotta per il controllo dei campi di coca, si scontrano Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) e paramilitari di destra. Infine il Sudan, in cui il Nord mussulmano (che detiene il governo ufficiale del paese) e il Sud cristiano (controllato dalla Spla [Esercito popolare di liberazione del Sudan]) si combattono da decenni, dove i villaggi vicini ai pozzi petroliferi vengono sistematicamente sgomberati e distrutti dal governo per dare mano libera alle grandi multinazionali del petrolio e in cui, nell'indifferenza generale, il piccolo popolo Nuba viene affamato e deportato.

Ognuno di questi paesi è, come specifica Henri Lévy nelle note della seconda e ultima parte del libro, un caso esemplare di insensatezza. Se, infatti, le guerre hanno sempre tratto un senso dalla divinità nel nome della quale erano combattute o dagli ideali terreni, veri e propri surrogati di divinità che ne erano alla base, altrettanto non si può dire delle guerre dimenticate, che sembrano continuare solo per una sorta di moto perpetuo impazzito. Tuttavia, se la mancanza di senso è totale agli occhi di un occidentale, si può dire altrettanto per coloro che vi sono totalmente coinvolti? E se le guerre dimenticate dei dannati della terra contribuissero anch'esse in futuro, «a loro e a nostra insaputa, per il peggio o per il meglio, a seppellire un mondo e a darne alla luce un altro» (p. 134)?

Ma se almeno alcune di queste guerre, viste da una prospettiva interna assumono un senso ben preciso, che senso possono avere per le vittime, per gli schiavi e perfino per chi le combatte? E ancora: le ideologie che conferiscono senso moltiplicano o diminuiscono il sangue e i morti? Vanno rimpiante o no le guerre dotate di senso? Poiché ognuna di queste domande può portare, secondo Henri Lévy, ad una duplice soluzione, per cui occorre procedere ad ulteriori precisazioni. Ci sono infatti guerre che, come nel caso dell'Angola, «un senso lo hanno avuto, un vero grande senso politico, e tutto sta ad indicarci che lo hanno perduto» con la fine della guerra fredda (p. 136). Ci sono poi guerre che sembrano parallele a quella angolana, ma in cui l'attuale mancanza di senso appare più che altro «un gioco di prestigio dialettico destinato a dissimulare il nuovo senso nato sulle macerie del vecchio senso» (p. 137): è il caso del Sudan, dove si gioca nascostamente la partita terribilmente dotata di senso dell'appropriazione delle risorse petrolifere. Esistono poi guerre che «al contrario un senso lo sfoggiano, ne esibiscono a tonnellate» visto che sono un comodo mezzo, come in Colombia, per coprire traffici di carattere mafioso. Altre guerre hanno, come nel caso dello Sri Lanka, un senso vero e proprio, ma limitato geograficamente dalla scarsa importanza che lo scontro ha nei grandi giochi di potere in cui è coinvolto l'occidente e, inoltre, nella capacità di comprensione stessa di un «occidentale giudeo cristiano per il quale l'alterità si arresta alla frontiera dell'Islam» (p. 138). Vi è infine un ultimo caso: «guerre in cui l'idea stessa di senso, quasi il suo ricordo, ha finito per perdere senso». È il caso del Burundi, «la più insensata delle guerre insensate. La più dimenticata delle guerre dimenticate. I dannati fra i dannati» (p. 138).

Pur nella loro differenza, i quadri desolanti offerti da Angola, Burundi, Sudan, Sri Lanka e Colombia, appaiono comunque tutti ben diversi dall'idea di fine della storia che si può trarre dalla lettura di Kojève il quale, secondo Henri Lévy, esplicitando e modificando almeno in parte la posizione hegeliana, oltre a ritenere che la fine della storia avrebbe dovuto estendersi a tutto il mondo, suggerisce «che a scomparire, quando scompare la storia, siano il desiderio di riconoscimento, la rivalità mimetica degli orgogli e degli amor propri, dunque il bisogno stesso di battaglia e la fonte, dalla notte dei tempi, della guerra» (p. 183). Tuttavia, nonostante tali evidenti discrepanze, Henri Lévy trova almeno tre elementi che, nelle situazioni disperate dei dannati della guerra, fanno emergere qualcosa di simile all'idea di fine della storia: innanzitutto la fine del "travaglio" del negativo che, se da un lato è da intendersi come fine della guerra, dall'altro lato deve essere inteso anche come «fine di quel lavorio di sé su di sé, e di sé sulla natura, che è la definizione della Storia in marcia» (p. 184). Tale è la situazione del Burundi in cui l'umanità «prostrata, sfaccendata, esausta» che è possibile riconoscervi, appare come un evidente immagine «di quel non rapporto con la natura e con il mondo, di quella rinuncia all'idea stessa di confrontarsi con il dato per lavorarlo e metamorfizzarlo che rivelano, secondo gli hegeliani, che sono scaduti i termini e si sta entrando nel tempo della non Storia» (p. 185). Il secondo elemento di contiguità è invece la mancanza di un'idea di tempo intesa come passato, presente e futuro. La fine della storia di Kojève (e di Fukuyama) è infatti la riproposizione del tempo costituito da attimi giustapposti e sempre uguali criticato da Nietzsche e Benjamin. Ma qual è la situazione in Burundi se non una totale mancanza di passato (non esistono archivi, monumenti, giornali), di futuro e, quindi, un sostanziale appiattimento su un presente terribile e ripetitivo? Terzo elemento di continuità è poi la fine dell'idea di individuo inteso come soggetto che nega il dato in quanto contrapposto all'oggetto. A tale situazione si oppone infatti, con la fine della storia, la sostanziale soddisfazione dell'uomo che riconosce ed è universalmente riconosciuto, dell'uomo che si animalizza rinunciando al suo desiderio. Tale situazione è, secondo Henri Lévy, quella che si manifesta, in modi certo molto diversi da quelli pensati da Kojève e Fukuyama, di nuovo in Burundi, dove ogni forma di umanità, a partire dall'usanza di seppellire ed onorare i morti, sembra aver perso vigore.

Da queste osservazioni Henri Lévy trae due ipotesi: la prima è che, a differenza di ciò che era stato predetto da Hegel prima, da Kojève dopo e, infine, da Fukuyama, la fine della storia non si è materializzata né nell'impero napoleonico, né con la realizzazione del socialismo in Russia né, tantomeno, con il crollo del muro di Berlino. Segni evidenti di essa sono infatti, più che da altre parti, proprio nel Burundi. La seconda ipotesi di Henri Lévy verte invece sul fatto che la fine della storia non si presenta affatto come la fine del regno della necessità ma, al contrario, se il paradigma di riferimento è il Burundi, essa "non è felicità ma orrore. Non è il primo mattino ma l'ultimo. Non è perpetua euforia ma fiamme infernali" (p. 194).

Le ultime considerazioni lasciano il campo ad una serie di interrogativi che riguardano innanzitutto il rapporto tra la fine della storia nei buchi neri del pianeta e i motivi di essa: da dove scaturisce e chi ne è l'artefice? La risposta sembra essere che tutto dipende dal ritiro dell'occidente dai campi di battaglia del terzo mondo in seguito alla fine della guerra fredda ma, se davvero è accaduto questo, allora "Burundesi, angolani, srilankesi sarebbero sempre stati unicamente gli ausiliari di una Storia che aveva il suo centro e la sua iniziativa altrove?" (p. 195).

L'ultima serie di interrogativi che si pone Henri Lévy verte infine sul rapporto tra i buchi neri della storia e l'occidente. Se infatti, stimolato dalla sfida dell'integralismo islamico, esso sembra ritrovare «il gusto del tragico, il senso, i tormenti e, forse anche, l'ebbrezza della storia» (p. 197), dall'altro lato i sintomi di un progressivo avvicinamento alla fine della storia sembrano evidenti anche per l'occidente. Lo studioso si domanda quindi se non sia possibile ipotizzare una sorta di fine della storia a due velocità con una versione dura per i dannati della guerra e una versione morbida per il mondo occidentale e, allo stesso tempo, non sia il caso di accettare l'idea della correlazione di storia e fine della storia, nel momento in cui i segni dell'una e dell'altra sembrano coabitare sotto lo stesso tetto. Alla luce di ciò, secondo Henri Lévy, gli schemi dei possibili rapporti tra occidente e buchi neri sono tre: o la totale separatezza di due storie che, finite o meno, non hanno nessun motivo di incontrarsi nuovamente; o la contaminazione per cui la periferia contamina progressivamente il centro e lo trascina nella sua «corsa verso il nulla» (p. 198); o, infine, il confronto, secondo cui i dannati della terra, spontaneamente o perché arruolati nell'esercito dell'integralismo islamico, si troveranno a battersi direttamente con l'occidente. La domanda, insomma, con cui l'Autore si congeda è la seguente: supponendo una «geografia della disperazione definitivamente mondializzata» e un «mondo a rotoli» in cui interi popoli fossero spinti «nella notte della non Storia, quali forme inedite, dunque tragiche, assumerà allora la loro disperazione» (pp. 280-281)?

Valerio Martone