2005

J.P. Heimonet, La démocratie en mal d'altérité: masse et terreur, réflexions sur l'informe du pouvoir moderne, L'Harmattan, Paris 2003, ISBN 2-7475-4932-1

Il rapporto democrazia-capitalismo, secondo Heimonet, produce storicamente un paradosso, ossia «una messa in forma economica e politica dei rapporti umani che, per aver tentato di razionalizzare e contrattualizzare la libertà, mettere la sovranità alla portata di tutti, finisce per vuotare i suoi partecipanti della loro iniziativa e delle loro responsabilità di cittadini» (p. 11).

L'importanza del passaggio da una sovranità dall'alto a una sovranità popolare e atomizzata, già individuata da Tocqueville, produce quindi il passaggio da una forma di potere immediatamente identificabile come quello del monarca assoluto, a un potere che invece, diffondendosi nella società, risulta meno riconoscibile. Ciò conduce a una maggiore autonomia dei cittadini ma, proprio quando si verifica tale situazione ideale per la democrazia, essa appare in crisi. In effetti, secondo Heimonet, la crisi deriva dalla mancanza di un fine, dal fatto che l'unica forza che sembra ormai capace di «orientare lo spirito e l'energia della società» (p. 14) è il mercato autoregolato. Con l'avvento del capitalismo e della ragione calcolante applicata al mercato e alla politica viene insomma a mancare un fine trascendente e l'uomo rivolge i propri interessi a fini secolari convertendosi al Dio denaro o a utopie impregnate dell'idea di progresso. Tale percezione del mondo entra in crisi con Auschwitz e la bomba atomica, salvo poi essere ripresa negli ultimi anni con l'idea di fine della storia, idea dimentica del fatto che «questa violenza ancora calda è ingrediente oggettivo del calderone culturale che assicura oggi alle democrazie i loro privilegi» (p. 20). L'incapacità di crearsi un fine fa sì che l'uomo faccia propri i criteri di scelta più immediati, il qui e ora del consumismo il quale, in ultima analisi, sembra essere l'arma principale capace di eliminare ogni forma di progettualità.

Il sistema capitalistico, dopo duecento anni di storia, è stato criticato sia dal punto di vista economico, dato che conduce al ripiegarsi sull'idea del puro interesse e profitto individuale, sia dal punto di vista morale, data la sua totale incapacità di riconoscere un qualsiasi Altro non riconducibile agli standard esplicativi della scienza. Tali elementi, secondo Heimonet, devono essere analizzati insieme per avere un'idea reale del concetto di potere oggi. Proprio perciò è importante cogliere la dimensione del sacro connessa al denaro, non solo quindi l'importanza che esso ha nella produzione e distribuzione delle ricchezze, ma la sua capacità di influire «sulla formazione delle mentalità da cui dipende in ultima analisi la possibilità del vivere insieme» (p. 29). Tale analisi manca in Mauss e in Bataille, entrambi però coscienti dell'impossibilità di creare un saldo legame sociale e un potere unicamente sulla base della nozione di utile. La necessità dell'Altro è quindi particolarmente sentita, secondo Heimonet, proprio nel mondo attuale in cui ogni cosa è ridotta a cifra, ma tale Altro radicale finisce per incarnarsi proprio nel denaro e nei flussi finanziari, ossia, in ultima analisi, nella «assimilazione della trascendenza con il numerico e il quantitativo» (p. 36). Il potere trova quindi oggi, a parere dell'a., la propria giustificazione trascendente nella sacralizzazione del denaro e della cifra. La ragione calcolante tramite cui il puritano Robinson cerca di sottomettere l'isola su cui è naufragato non è quindi solo prodotto di un preciso calcolo finalizzato all'utile ma rappresenta proprio le modalità del sacro nell'ambito della cultura capitalistica. Il puritanesimo ci indica che «il denaro non è un semplice utensile che serve ad affrettare e facilitare il godimento. La sua funzione è più nobile: essa consiste nell'organizzare il caos delle cose, mettere ordine nell'esistenza strutturando il suo corso» (p. 50). Tale ambivalenza del denaro, valida per il puritanesimo e il capitalismo delle origini, lascia però spazio oggi più all'idea di denaro-utensile che a quella del denaro come istanza ordinatrice. Tutto ciò appariva già evidente, secondo Heimonet, a Tocqueville durante il suo viaggio in America. Lo slancio spirituale dei primi pellegrini si era trasformato in «pragmatismo inveterato» (p. 54), il cartesianesimo inteso come totale coincidenza di reale e razionale era divenuto il credo dei cittadini statunitensi. Conseguenza di ciò è, nell'ambito delle democrazie, «l'indifferenziazione degli individui tra loro e la loro indifferenza al riguardo di un potere vuoto di trascendenza» (p. 59). Tale tendenza verso l'eguaglianza intesa come livellamento verso il basso produce però, secondo Tocqueville (e Heimonet), una nuova forma di dispotismo, ossia il dispotismo del «pensiero medio» (p. 66) e il soffocamento del pensiero critico nel nome del pensiero unico e dell'interesse privato. Culmine di questo processo è nella prima metà del XX secolo il trionfo del fascismo, cui il liberalismo risponde sconfiggendo il totalitarismo, evento celebrato da Fukuyama e dovuto alla superiorità del modello liberale ma, allo stesso tempo, «ad un dispositivo economico le cui prestazioni ottimali richiedono la deresponsabilizzazione e la massificazione della coscienza individuale» (p. 73). In risposta a ciò la società diviene sempre più opulenta anche se, allo stesso tempo, si registrano preoccupanti fenomeni di violenza urbana riconducibili, secondo Heimonet, proprio al bisogno di riconoscimento derivante da una società che, arricchendosi, distrugge l'Altro e rende sempre meno riconoscibile il potere.

Ma dove risiede il potere oggi? Esso è atomizzato nei singoli che si chiudono sia al pensiero dell'Altro che a quello degli altri e si nutre proprio della mancanza di senso che ogni giorno filtra dai mezzi di comunicazione di massa. Se la tirannia classica esercitava il proprio potere direttamente sui corpi, quella dello stato tutelare si esercita invece «sulla costrizione interiore e spirituale che modella il pensiero, asservisce le menti senza violenza apparente» (p.77). Lo stato liberale oggi, come i regimi totalitari, pretende di aver chiuso la storia, di aver superato le tensioni interne ma così facendo, proprio come lo stato totalitario, produce la massificazione degli individui e l'incapacità delle forze sociali di rinnovare se stesse. L'autonomia di cui gode oggi l'individuo nelle democrazie occidentali finisce quindi per diventare indice, secondo Heimonet, proprio della tirannia globale che si esprime nell'omogeneizzazione. L'autonomia è insomma così totale da far sì che l'uomo finisca per «perdervisi abdicando alla propria identità» (p. 81) e l'unica uscita da tale situazione è, riprendendo il pensiero sulla religione di Tocqueville, la rielaborazione di un'etica universale. L'individuo deve insomma uscire dal proprio egoismo assoluto e riappropriarsi di una sfera del senso in cui appaiano chiari l'illimitatezza della libertà, la ristrettezza delle possibilità e, «nella luce di un'autonomia su scala umana, la derisione di ogni potere» (p. 89).

La democrazia, differentemente dai regimi che l'hanno preceduta, non si definisce tanto grazie alle sue istituzioni quanto sullo scambio simbolico che produce aspirazioni e progetti comuni capaci di implementare il legame definito dall'interesse e dalla cifra. È grazie a tale capacità simbolica che, secondo Heimonet, si può cercare di definire i limiti del potere e dell'interesse con un meccanismo che, simile alla descrizione della funzione della religione data da Tocqueville (e all'idea di Bataille della necessità di un legame spirituale fondato sul linguaggio), possa costruire senso a partire dai concetti di tolleranza e rispetto dell'altro, e grazie alla funzione «catartica del libero pensiero» (p. 92).

L'idea della democrazia come luogo nel quale l'uomo progetta e si progetta mettendosi costantemente in discussione è però lontana dall'attualità anche se, secondo Heimonet, non si possono collegare tutti i mali della democrazia al capitalismo. Esso è infatti, storicamente parlando, il migliore dei sistemi produttivi e, sebbene gravato da ingiustizia e cinismo resta, contrariamente alle religioni secolarizzate di una presunta democrazia assoluta ed egualitaria e grazie «alla libertà di impresa, di scambio e di proprietà» (p. 104), il motore fondamentale della democrazia stessa. Problema della democrazia oggi non è quindi il capitalismo ma l'incapacità della ragione calcolante, base illuministica della democrazia come del totalitarismo, di mettersi in discussione, così come la sua costante tendenza a ritenersi un assoluto in nome dell'economia. La ricetta che Soros suggerisce di fronte a tali disfunzioni è proprio la presa d'atto della non perfettibilità della società umana ma, allo stesso tempo, della sua costante possibilità di migliorarsi tramite un processo di moralizzazione che ponga al centro della discussione libertà e giustizia prima che mercato. Errore di Soros, secondo Heimonet, è la pretesa di curare con dei consigli la democrazia quando «come il male, la cura è endogena» (p. 109). Non è quindi nella prescrizione dei valori che si può trovare la cura quanto piuttosto «nello sforzo collettivo dove essi acquistano la loro forma e divengono necessari ingegnandosi a creare senso» (p. 109).

In tale ambito, pensando alla polemica tra Sartre e Camus sull'idea di rivolta, secondo Heimonet, la posizione di Camus, che vede nella rivolta più un'opposizione al non-senso piuttosto che un tentativo di eliminare le contraddizioni materiali, dovrebbe essere rivalutata. La vera rivolta infatti, «ossia la rivolta specificamente umana, supera gli orizzonti della physis accrescendo il senso nel mondo» (p. 117). Tale posizione, anche se inefficace nell'analisi dei problemi è, come nota anche Bataille, dotata di quella «lucida umiltà» (p. 119) che le impedisce di pensare la fine della storia e, allo stesso tempo, essa è emblematica di una situazione come quella attuale in cui è prioritario dare concretezza ad un'idea di uomo per cui l'io e il noi siano «legati dalla responsabilità comune di pensare e creare la storia invece che subirla o farla» (p. 122).

Se la critica deve essere alla base della democrazia e del suo rinnovamento è anche vero che, secondo Heimonet, certa critica che vuole abbattere le basi stessa della cultura di cui fa parte è da rigettare in toto. A questo proposito egli parte dal presupposto che la diffusione della violenza sia diretta conseguenza dell'abbandono dei valori di riferimento del liberalismo e che quindi un filo rosso colleghi il maggio '68 addirittura con l'11 settembre. Nel fare ciò Heimonet pone nello stesso calderone Sollers e Derrida, Deleuze e Guattari, Foucault e Baudrillard opponendo al loro «nichilismo» (p.133) la necessità di rafforzare con la partecipazione le basi teoriche e pratiche delle istituzioni occidentali, visto che la guerra iniziata con l'11 settembre «non è una guerra tra due civiltà o tra due culture, l'Occidente e l'Islam, ma la guerra di ogni cultura contro ciò che le nega» (p. 140).

Il libro, prendendo le mosse da Tocqueville e Bataille, offre sicuramente un interessante spaccato teorico con cui cerca di dar conto delle debolezze dell'odierna democrazia globalizzata. Poco incisiva appare però la parte finale in cui Heimonet cerca di porre un limite alla critica quando, secondo le sue stesse premesse, invece solo la critica (anche radicale?) rende possibile il rinnovarsi, tramite la costruzione di senso, della democrazia stessa.

Valerio Martone