2010

United Nations Development Program, Human Development Report 2009 - Overcoming barriers: Human mobility and development, Palgrave Macmillan, New York 2009, ISBN 978-0-230-23904-3

Dal 1990, il Programma delle Nazione Unite per lo Sviluppo (UNPD) pubblica lo Human Development Report, un rapporto che ogni anno tratta un tema diverso analizzandolo attraverso le lenti dello Sviluppo Umano. Tale concetto è stato elaborato sulla base delle idee di Amartya Sen, Nobel per l'Economia nel 1998, secondo il quale il benessere di una persona è dato non solo dal conseguimento di effettivi "stati di essere e di fare", ma anche e soprattutto dall'insieme dei funzionamenti potenzialmente attivabili: quest'ultimo è lo spazio delle capabilities, o delle libertà reali, nel quale la persona sceglie tra i diversi stati del mondo a cui può accedere.

E' importante chiarire il punto di vista di questi rapporti per comprendere il contenuto del più recente di essi, che si occupa della relazione tra mobilità e sviluppo ed esplora in particolare i modi in cui le politiche nei confronti della mobilità umana possono influenzare lo sviluppo umano.

Il tema del rapporto 2009 è la mobilità umana in tutte le sue declinazioni e gli autori scelgono di analizzare in maniera congiunta tutti i tipi di migrazione che sono generalmente trattati in letteratura in maniera distinta: spostamenti forzati o volontari, interni o internazionali, temporanei o permanenti, per ragioni economiche o non economiche sono tutti inclusi nello studio. Tali distinzioni vengono raramente richiamate nel testo in quanto, secondo gli autori, esse rischiano di rendere più oscure le dinamiche del processo migratorio, piuttosto che contribuire a fare chiarezza.

L'incipit del rapporto va subito al cuore del problema e assume a tratti toni piuttosto netti: le barriere al movimento di persone sono dannose perché restringono le possibilità di scelta delle persone e questo non può che essere negativo dal punto di vista dello Sviluppo Umano. Si legge nelle prime pagine del rapporto: "La mobilità umana può essere un fattore enormemente efficace per migliorare le prospettive di reddito, di salute e di istruzione di una persona. Ma il suo valore è ancora maggiore: essere capace di decidere dove vivere è un elemento fondamentale della libertà umana" (nda: traduzione nostra).

La mobilità umana è un fenomeno necessario perché mosso da cause strutturali, e dà ampi benefici ai migranti, alle loro famiglie, alle comunità di provenienza, e a gran parte della popolazione che vive nei paesi di destinazione. Gli autori del rapporto smentiscono quanto scritto nel rapporto dell'UNDP del 1994, dove si sosteneva che il movimento di persone dovesse essere visto come un problema da correggere.

Nel Rapporto del 2009 si afferma invece che i timori nei confronti degli effetti negativi dell'immigrazione sui salari e sull'occupazione nei paesi di destinazione sono esagerati, e altrettanto lo sono le preoccupazioni sugli effetti negativi che gli immigrati avrebbero sull'accesso e la qualità dei servizi sociali per la popolazione autoctona, sulle supposte minacce alla coesione culturale, nonché sul legame tra immigrazione e criminalità. Le posizioni dei governi dei paesi di destinazione riflettono spesso una visione miope dell'immigrazione, si fanno guidare da ragioni puramente elettorali nella scelta delle politiche migratorie, e per questo spesso trattano i lavoratori migranti, in particolare quelli temporanei o irregolari, come "acqua che viene da un rubinetto che può essere aperto o chiuso a piacimento" (nda: traduzione nostra).

Il rapporto si articola in un'introduzione e in cinque capitoli principali, che analizzano: le caratteristiche del movimento di persone in termini generali, gli aspetti che riguardano i migranti stessi - chi si muove, come, perché e dove -, quelli che riguardano il paese di origine - in particolare le famiglie dei migranti e le loro comunità - e gli effetti sui paesi di destinazione. Nell'ultimo capitolo vengono infine discusse le politiche economiche e settoriali rilevanti per i processi di mobilità umana e che aspirano al miglioramento dello sviluppo umano. Ci proponiamo qui di illustrare brevemente il contenuto di ognun capitolo, mettendone in luce i punti chiave e gli spunti che ci paiono più interessanti.

Nel capitolo 2 leggiamo che la principale ragione che spinge le persone a muoversi è l'aspirazione al miglioramento della qualità della propria vita, che il movimento viene frenato da barriere sia di natura sia politica che economica e che queste sono più difficili da superare per le persone povere. Leggiamo inoltre che i flussi migratori sono destinati a crescere nei prossimi decenni per ragioni economiche e demografiche di natura strutturale.

Si mette in risalto il ruolo della migrazione nella riduzione delle disuguaglianze ricordando come nel diciannovesimo secolo più dei due terzi della convergenza salariale e' stata frutto dei massicci spostamenti di persone da paesi con salari più bassi a paesi con salari più elevati. Viene ricordato inoltre che le barriere alla mobilità non sono sempre esistite: fino al 1924, per esempio, non era necessario richiedere un visto per risiedere permanentemente negli Stati Uniti e nel 1905 solo l'un per cento delle persone che arrivarono ad Ellis Island si videro negare l'ingresso al paese.

Il capitolo successivo descrive la migrazione come una strategia di successo, in quanto i migranti generalmente riescono ad ampliare il proprio spazio delle capabilities. Ciò avviene nonostante i benefici della migrazione non siano distribuiti in maniera uguale e siano spesso ostacolati dalle politiche adottate sia dai paesi di origine che dai paesi di destinazione. I soggetti più svantaggiati sono i bambini e gli adolescenti, in particolare quelli che migrano non accompagnati e hanno lo status di irregolari, e quelli che migrano temporaneamente con i genitori tra paesi in via di sviluppo. Le politiche nei confronti dei minori migranti variano a seconda dei paesi. E' interessante scoprire per esempio che la Svezia non permette ai bambini che risiedono irregolarmente sul suo territorio di frequentare la scuola, e che lo stesso avviene in molti paesi in via di sviluppo. In questo capitolo gli autori provano a sostenere che talvolta i migranti non riescono ad ottenere benefici in termini di empowerment, che rischiano di estremizzare alcuni aspetti della propria cultura di origine e compromettere il dialogo con le culture dei paesi di accoglienza. Tale discorso è affrontato nel rapporto in maniera molto generica: leggendo le poche pagine che gli autori dedicano al tema si ha l'impressione che non vi siano delle spiegazioni precise sul perché questo avviene. Non si esplora a fondo il legame tra questi atteggiamenti e le discriminazioni che i migranti vivono nelle società che li ospitano.

Un punto interessante e poco esplorato nelle letteratura che viene affrontato in questo capitolo è quello degli spostamenti forzati di persone dovuti ai grandi progetti infrastrutturali: il tipico esempio è quello della costruzione delle grandi dighe, come quella di Tucuruì in Brasile, che ha provocato lo spostamento di circa 30,000 persone e il cambiamento radicale delle strategie di sussistenza di diversi gruppi indigeni. Gli autori mettono bene in risalto i danni che queste persone sono costrette a subire a causa dello spostamento e sostengono che i governi dovrebbero programmare questi interventi fin dalle fasi preliminari tenendo conto delle conseguenze sulle popolazioni interessate. Anche le riflessioni sulle iniziative che mirano a combattere la tratta di persone sono interessanti: si dice, infatti, che spesso queste possono produrre effetti opposti a quelli sperati. Un esempio è quello di una campagna di informazione in Nepal rispetto ai rischi di contrarre il virus dell'HIV che ha portato alla stigmatizzazione dei migranti di ritorno.

Secondo gli autori del rapporto l'impatto dell'emigrazione sulle famiglie e sulle comunità di origine dei migranti, analizzato nel capitolo 4, è nettamente positivo: pur ammettendo che parte della letteratura è scettica su questo punto, essi propendono chiaramente per quelle posizioni che considerano i benefici in termini economici e di accumulazione di capitale umano prevalenti rispetto agli effetti negativi. Ugualmente, essi sostengono che non esista evidenza di significative conseguenze negative dell'immigrazione nei paesi di destinazione.

Nell'ultimo capitolo del rapporto gli autori discutono delle proposte specifiche riguardo alle politiche che i governi - sia dei paesi di origine che di quelli di destinazione - potrebbero intraprendere per accrescere i guadagni in termini di sviluppo umano derivanti dallo spostamento di persone. Queste politiche sono riassunte in sei punti fondamentali: (1) liberalizzare e semplificare i canali di ingresso regolari che permettono alle persone di cercare lavoro all'estero; (2) garantire ai migranti il rispetto dei diritti fondamentali della persona; (3) ridurre i costi di transazione connessi alla migrazione; (4) ampliare le opportunità dei migranti nei paesi di destinazione; (5) permettere alle persone di godere dei benefici della migrazione interna soprattutto in termini di accesso ai servizi; (6) fare sì che la mobilità diventi parte integrante della strategia di sviluppo nazionale di ogni paese a basso reddito.

Le proposte politiche più interessanti riguardano i costi di transazione: vengono discusse misure semplici che potrebbero avere una efficacia immediata, come la riduzione dei costi e dei tempi per ottenere i documenti per l'espatrio, la creazione di sportelli informativi sulle possibilità di lavoro all'estero, sul modello di quello creato recentemente dall'Unione Europea in Mali, la regolamentazione delle agenzie di reclutamento private e l'affidamento del reclutamento ad organizzazioni internazionali affidabili.

La più importante delle riforme proposte è, secondo gli autori, quella che riguarda il diritto di lavorare dei migranti: le restrizioni alla possibilità di lavorare per i richiedenti asilo e per i rifugiati vigenti in molti paesi, o l'impossibilità per i lavoratori migranti che risiedono regolarmente in un paese di cambiare datore di lavoro o ancora il mancato riconoscimento dei titoli di studio, rappresentano significative barriere politiche la cui rimozione migliorerebbe le possibilità di sviluppo umano dei migranti.

Non è facile fare una valutazione complessiva del rapporto: esso mira a mettere in luce gli aspetti positivi della migrazione e a sfatare luoghi comuni sui suoi aspetti negativi. Propone inoltre politiche che favoriscono la mobilità. Le argomentazioni addotte per convincere il lettore sono però spesso deboli e non sempre è facile seguire la linea del ragionamento. Analizzare in maniera congiunta tutti i tipi di migrazione, qualunque sia l'origine, la destinazione e la causa dello spostamento, pur avendo l'indubbio vantaggio di evitare i rischi della compartimentazione, può creare confusione, dando l'impressione che troppo spesso è difficile stabilire dei nessi causali. Per esempio, la volontà di tenere insieme tutti i paesi di origine e di destinazione, che siano paesi del Nord o del Sud del mondo, in un'unica analisi fa sì che nel rapporto si succedano esempi tratti da paesi estremamente diversi l'uno dall'altro e non permette la necessaria contestualizzazione di alcune dinamiche.

Alcune riflessioni, come quelle sulle conseguenze della migrazione altamente qualificata e sull'impatto delle rimesse sui paesi di origine, o quelle sull'impatto fiscale dell'immigrazione, sono di carattere generico e offrono pochi riferimenti bibliografici: lo scopo degli autori è probabilmente quello di fugare i dubbi rispetto all'impatto positivo della mobilità, ma evitando di scavare a fondo su certe questioni, essi ottengono l'effetto contrario di sottoporsi a facili critiche.

Infine, i toni decisi e chiari che troviamo nell'incipit del rapporto lasciano a poco a poco il posto ad un argomentare particolarmente accorto, che sembra essere stato limato e smussato. Si fanno continui richiami al realismo politico, all'importanza per i governi che vogliono modificare le politiche migratorie di garantirsi il consenso elettorale, trattandosi di un tema particolarmente delicato. Sorprende che non venga usata l'argomentazione della scarsa efficacia delle politiche restrittive, che invece dovrebbe essere dominante in qualunque lavoro che miri a promuoverne l'abbattimento. Sorprende anche che nel criticare le politiche dei paesi di destinazione non si faccia alcun accenno al reato di clandestinità, introdotto in Italia di recente, ma presente per esempio anche in Gran Bretagna, in Germania e in Francia. La previsione di tale reato non è forse un ledere manifestamente alla libertà di movimento, che in questo rapporto viene difesa a spada tratta sin dalle prime pagine? E' chiaro che, data l'elevata sensibilità politica dell'argomento, il rapporto fatica a mantenere l'equilibrio tra le posizioni che vorrebbe prendere e il tentativo di essere politicamente corretto. In definitiva, ci sentiamo di dire che, seppure le intenzioni del rapporto siano molto buone, esso sembra mancare un po' di coraggio e di efficacia.

Francesca Marchetta