2005

J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1996, trad. it. di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 280, ISBN 88-07-10245-5

Questo testo raccoglie una serie di contributi dedicati alla relazione tra le dimensioni dell'universalismo dei principi repubblicani e la società contemporanea. La prima parte, «Quanto è ragionevole l'autorità del dover essere?», è incentrata sul fondamento cognitivo della morale. Vengono ripercorse le teorie con cui si è cercato di spiegare la formazione dei "sentimenti morali": l'empirismo, in cui si individua una dinamica che ci proietti oltre l'egoistico perseguimento dei nostri interessi particolari; il contrattualismo, che salda la fondazione normativa di un sistema di giustizia agli interessi dei singoli individui; la tradizione aristotelica, che ritiene immanente ad ogni comunità concreta una comunità morale intesa come una sorta di sé migliore (in quanto membri di questa comunità gli individui si aspettano l'un l'altro un pari trattamento): in tale prospettiva giustizia significa anche solidarietà; la tradizione kantiana, infine, che lega la volontà libera alla ragione, ovvero alla "coscienza intuitiva" di ciò che tutti potrebbero ragionevolmente volere. Habermas ribadisce la sua propensione per una fondazione della morale che si verifichi attraverso processi (ideali) di confronto comunicativo tra i gruppi sociali, che espongano le loro posizioni senza pregiudizi reciproci; una comunità morale "inclusiva", dai confini aperti a tutti e soprattutto a coloro che sono reciprocamente estranei e tali vogliono rimanere.

Nella seconda parte vengono valutate le posizioni di Rawls sul carattere politico della giustizia come equità. Secondo Habermas, il consenso per sovrapposizione di cui Rawls parla, difetterebbe di un fondamento epistemologico. Da ciò derivano le obiezioni sollevate sia alla costruzione della posizione originaria della teoria rawlsiana (ossia la situazione in cui i decisori razionali si trovano soggetti a restrizioni che garantiscono imparzialità di giudizio nelle questioni di giustizia), sia alla confusione tra questioni di validità e di accettazione. Inoltre, nella teoria di Rawls si critica la preminenza data ai diritti liberali, che mette in ombra il processo democratico. Il liberalismo politico di Rawls pensa i diritti come gusci protettivi che tutelano l'autonomia privata e in questo modo l'autonomia pubblica sembra un mezzo per rendere possibile l'autonomia privata. Diversamente, Habermas sostiene un repubblicanesimo kantiano, per cui tutti devono considerarsi collettivamente come autori delle leggi cui si sentono vincolati come singoli: è l'uso pubblico della ragione istituzionalizzato nel processo democratico che costituisce la chiave per la concessione di libertà uguali.

Nella terza parte, «Quale futuro per lo stato nazione?», attraverso il riferimento a concetti come sovranità e cittadinanza, stato di diritto e democrazia, sono illustrate le principali funzioni dello stato nazionale: a) l'esigenza della sovranità interna e esterna, b) la separazione dell'attività amministrativa da quella economica, c) l'autoidentificazione collettiva e l'integrazione sociale. Ovviamente lo stato nazione presenta anche aspetti ambivalenti, connessi con i pericoli del nazionalismo. Nella società contemporanea la coscienza nazionale oscilla, per l'a., tra un allargamento dell'inclusione e un rinnovamento della chiusura. Egli affronta questo problema attraverso un'analisi delle tesi di Schmitt sul rapporto tra nazione, stato di diritto e democrazia. In Schmitt il concetto centrale della democrazia è il popolo: egli tende a separare la democrazia dallo stato di diritto: la volontà politica egemonica dipende da uno spirito del popolo naturalizzato e non ha bisogno di essere il risultato di discussioni pubbliche.

Habermas, tuttavia, ritiene possibile declinare il rapporto tra nazione, stato di diritto e democrazia in una versione comunicativa di repubblicanesimo e non nella versione etnonazionalista. Emergono così due diverse visoni della democrazia che conducono a considerazioni differenti riguardo l'autodeterminazione nazionale, il multiculturalismo e la sovranità nazionale.

In Schmitt l'autodeterminazione dipende dalla capacità di un gruppo etnico di definirsi come popolo omogeneo, mentre per Habermas, gli stati nazionali di solito non si sviluppano pacificamente partendo da etnie singole e isolate. Dal punto di vista, invece, della questione del multiculturalismo si deve osservare che la coesistenza giuridicamente equiparata di gruppi sociali diversi non deve portare la società in una pluralità di subculture reciprocamente ostili. Habermas ritiene che, da un lato, «la cultura di maggioranza [debba distaccarsi] dalla cultura politica generale e non vi si confonda, altrimenti sarebbe essa a dettare fin dall'inizio i parametri dei discorsi di autochiarimento», dall'altro che «le energie coesive della cultura politica comune [debbano] restare abbastanza forti perché la nazione dei cittadini non vada in pezzi» (p.158).

La questione della sovranità si connette invece con i diritti umani. Nel diritto internazionale classico vi è il divieto di intromettersi negli affari interni di un altro stato. Nella carta dell'ONU questo divieto viene controbilanciato dalla tutela internazionale dei diritti dell'uomo, possibilità rifiutata da Schmitt. Habermas sostiene qui che le strategie dell'organizzazione mondiale inducono il diritto internazionale a trasformarsi poco alla volta in diritto cosmopolitico. Sviluppa così l'idea (articolata più diffusamente ne La costellazione postnazionale) per cui il futuro della società politica occidentale non dipende tanto dalla formazione di un "popolo europeo" quanto dalla rete comunicativa di una sfera pubblica politica estesa all'intera Europa.

Nella quarta parte, sullo sfondo del quadro teorico politico kantiano, trova spazio il tema dei diritti umani. Kant prospettava la possibilità del superamento dello stato di natura attraverso una confederazione cosmopolitica degli stati liberi. Habermas intende riformulare l'idea kantiana cosmopolitica alla luce della situazione attuale. Tale riformulazione richiederebbe, innanzitutto, una istituzionalizzazione del diritto cosmopolitico e, di conseguenza, la connotazione giuridica del "cittadino del mondo". In tal modo sarebbe possibile accedere a un'idea di pace non in senso solo negativo come in Kant.

Ovviamente, queste elaborazioni habermasiane si pongono in contrasto con le interpretazioni del realismo politico così come dell'idea dello scontro di civiltà preconizzato da Huntington. Nell'insieme di questi obiettivi si riflette la questione della politica dei diritti umani. Essi spesso vengono identificati con una dimensione morale, ma per Habermas, in una prospettiva sia cosmopolitica sia statuale, il diritto non va confuso con la morale: ciò si può ottenere trasformando lo stato di natura vigente tra gli stati in una situazione giuridica di legalità, in modo da garantire agli accusati, anche in caso di crimini di guerra e crimini contro l'umanità, una tutela contro ogni forma di discriminazione morale. Habermas si impegna a sviluppare questa considerazione in contrapposizione alle obiezioni di Schmitt, che depenalizza la guerra di offesa e la "rottura di civiltà" e che concepisce un ordine internazionale in cui sia ancora possibile condurre le guerre e risolvere i conflitti per questa via. Ora, è vero che una moralizzazione immediata del diritto e della politica "sfonderebbe" quelle zone protette che si vogliono invece salvaguardare per le persone giuridiche. Ma è erroneo credere, come fa Schmitt, che per evitare questa moralizzazione sia necessario liberare la politica e il diritto dalla morale. Il diritto cosmopolitico, infatti, è per Habermas uno sviluppo dell'idea dello stato di diritto.

I diritti umani, in quest'ottica, non devono essere scambiati per diritti morali e diventare elementi di fondamentalismo. Il fondamentalismo dei diritti umani può essere scongiurato solo trasformando cosmopoliticamente in una situazione di legalità lo stato di natura ancora vigente tra gli stati. Ora, gli ordinamenti politici hanno bisogno di una legittimazione che, nella teoria politica, è garantita da due dimensioni: sovranità popolare e (appunto) diritti umani. Tra le due dimensioni esiste un nesso, poiché i diritti umani istituzionalizzano i presupposti comunicativi necessari alla formazione della volontà politica. Peraltro, i diritti umani possono costituire una dimensione ideologica di falso universalismo. Habermas valuta quindi le critiche sollevate ai diritti umani. Quella più tradizionale è che essi sono tipicamente individualistici e non sono validi per le culture non occidentali. Habermas ritiene poco fondata tale tesi, perché ritiene i diritti soggettivi funzionalmente insostituibili e che anche le comunità extraeuropee, nel loro percorso verso la modernità, non possano farne a meno. Se è vero che i diritti soggettivi sono in dotazione alle singole persone giuridiche, è anche vero che lo status di persona giuridica si forma solo nel contesto di una comunità fondata sul riconoscimento reciproco dei membri liberamente associati.

Nella parte conclusiva, «Cosa significa "politica deliberativa"?» si discutono due modelli tradizionali della politica, quello liberale e quello repubblicano: essi vengono distinti sulla base del loro rapporto col processo democratico. Mentre nel modello liberale la politica ha la funzione di aggregare e di imporre gli interessi sociali dei privati nei confronti dell'apparato statale, in quello repubblicano la politica non ha solo una funzione di intermediazione, ma anche di socializzazione. Hebermas propone, invece, una concezione politica ulteriore, caratterizzata dalla democrazia deliberativa. Emerge l'idea di una società decentrata che, con la sfera pubblica politica, produce in sé un'arena che tratta problemi di rilevanza sociale complessiva. La politica, in questo modo, non può né essere collocata al vertice né essere "un modello ordinatore" della società, ma semplicemente diventa uno dei tanti sistemi d'azione. Ma la corretta dimensione democratica deve restare legata allo stato di diritto e l'a. conferma questo nesso pur riconoscendone, nella pratica contemporanea, la sua contingente debolezza. Tale legame si basa proprio su quell'integrazione di morale, diritto e politica che sola può fondare una procedura politica indirizzata a tutelare sia l'autonomia pubblica (repubblicana) che quella privata (liberale).

La posizione teorico-politica avanzata in questo testo, quindi, sostiene un recupero delle categorie politiche della modernità e della riaffermazione del loro valore. Il punto è che il progetto della modernità è tutt'altro che compiuto. Così, pur trattando temi e problemi di ottica politologica o sociologico-politica, l'approccio di Habermas continua a sottendere un'idea forte di filosofia o, comunque, il riflesso di un pensiero sempre evolutivo e pluriprospettico in cui, seguendo Adorno, l'umanità non è solo ciò che è ed è stata, ma anche ciò che può essere. E questo è il consueto merito/limite del teorico dell'agire comunicativo.

Francesco Giacomantonio