2005

R. Guha, History at the Limit of World-History, Columbia University Press, New York 2002, trad. it. La storia ai limiti della storia del mondo, Sansoni, Milano 2003

Le riflessioni dello storico indiano in questo volume si innestano su un nucleo di questioni sollevate soprattutto in una delle sue ultime opere Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial India, laddove dopo aver dimostrato che la supremazia britannica nel subcontinente non è stata in grado di egemonizzare le grandi masse rurali e urbane, si interrogava su come si sia cercato di edificare uno stato coloniale appropriandosi del passato dell'India.

In questo volume, che rielabora una serie di conferenze tenute alla Columbia University nel 2000, Guha si confronta con due differenti modalità discorsive del rapporto tra passato e scrittura del passato. Nel progetto coloniale e nella sua produzione di sapere strategico (avente come oggetto i colonizzati) emergerebbero così determinati meccanismi di costruzione della storia in quanto modalità egemone di relazione con il passato, che Guha collega alle riflessioni di Hegel sulla storia universale, vedendo in esse sia un antecedente storico sia il momento di più compiuta espressione teorica.

Come è noto le elaborazioni teoriche hegeliane riguardo la storia del mondo si svolgono escludendo dall'automovimento del Geist che si sa come libero i cosiddetti "popoli senza storia" tra cui figurano quelli dell'Asia e dell'Africa. Questa esclusione era fondata sulla convinzione che si potesse avere "storia" solo all'interno di una cornice statuale, essendo lo stato la mediazione ultima e indispensabile per la realizzazione oggettiva della libertà: "la formula rinascimentale 'nessuna scrittura, nessuna storia' [...], quando Hegel teneva le sue lezioni sulla filosofia della storia, era stata aggiornata in "nessuno stato, nessuna storia" [...]. Tuttavia, il legame che univa così intimamente storia, storiografia, stato e scrittura non era privo di anomalie" (p. 26). Infatti già nel 1801 a un bengalese al servizio della Compagnia delle Indie orientali, Ramram Basu, fu chiesto di scrivere la storia di uno dei suoi sovrani nella sua lingua madre (il bengali) e secondo il modello occidentale di scrittura storiografica. Questo tentativo, che oscilla tra un esercizio di storiografia moderna e razionalista e una narrazione che scivola nel mito e nella fantasia, apre nel saldo confine tracciato dal discorso hegeliano una piccola intaccatura nella quale si inserisce il contributo critico e corrosivo dello storico dei Subaltern Studies.

Prima di confrontare il discorso hegeliano con una modalità di narrazione del passato radicalmente differente, Guha comincia a illustrare una singolare divergenza nei due assi principali della narrazione storiografica hegeliana, ovvero quella tra mondo e storia, o meglio tra "prosa del mondo" e "prosa della storia". La prima nasce dall'esigenza di realizzare il Geist dopo che questo è uscito dall'immediata unità con la natura in cui, secondo il filosofo tedesco, tutto si riproduce in maniera identica. Lo spirito dunque può autoconoscersi a partire dalla sua dissoluzione in una moltitudine di relatività, costituita dalle singole individualità. Queste, nel loro sforzo di interagire, giungono alla consapevolezza di essere ognuna il medio dell'altra, formando così una struttura intersoggettiva in cui "si riconoscono come reciprocamente riconoscentisi". Tale fondamentale e multilaterale riconoscimento è alla base del dispiegarsi in tutta la sua ampiezza della prosa dell'esistenza umana che può effettivamente realizzarsi solo nella quotidiana molteplicità delle interazioni, tanto che "il quotidiano rappresenta [...] la dimensione temporale della prosa del mondo" (p. 36).

A questa lettura che salda alcuni loci della Fenomenologia dello Spirito (il riconoscimento tra le diverse autocoscienze) e dell'Estetica (il rapporto tra prosa e quotidianità), si contrappone l'analisi sulla "prosa della storia" quale risulta dalle Lezioni di filosofia della storia. Il mondo può diventare storia solo se interviene lo stato a dare una prospettiva teleologica alla dialettica Io-Noi. Per Hegel lo Spirito può andare oltre quel campo di particolarità, conflitti e contingenze che è la storia del mondo se si realizza nello stato, cosicché la storia del mondo non può che essere "la rappresentazione del processo divino, del corso graduale in cui lo spirito conosce se stesso e la sua verità e la realizza". Il risvolto storiografico di queste tesi porta, secondo Guha, ad "affermare che la scrittura della storia richiede una selezione del materiale (o delle testimonianze come le chiamano gli storici) rilevante per il tema, l'argomento o il problema di cui ci si occupa. Qualsiasi decisione in proposito servirà da "principio conduttore" per determinare la scelta delle testimonianze, dell'"accaduto" [...] e per attribuire a esso un significato via via che entra a far parte della narrazione" (p. 47). La prosa della storia - che è tale "principio conduttore" - è allora storia di un progresso e il principio conduttore che seleziona gli eventi, il materiale della storia che fa storia, non è il mondo ma è il Geist. È la sua incarnazione nello stato, come grado necessario dello sviluppo dello Spirito secondo il concetto di Libertà, a determinare l'esclusione di interi continenti e dei loro passati dall'unica storia possibile. La scena turbolenta e percorsa da una costante irrequietudine che ci presentava la prosa del mondo cede così il posto alla linearità dei progressi mostrati dalla prosa della storia. Per Guha tuttavia "ciò che viene presentato come il soggetto della storia del mondo, a un esame più attento si rivela solo un'area circoscritta che pretende di parlare a nome del mondo intero" (p. 52). Non ci può essere dunque alcuna "storia del mondo" se questa muove dall'esclusione di così ampi pezzi di storicità.

Lo storico indiano analizza come l'imporsi di questo paradigma della narrazione storica abbia portato in India ad un rifiuto delle rappresentazioni alternative del passato, proprie delle loro culture, e ravvisa che la rimozione di tali alternative da parte della storiografia moderna praticata infine dagli stessi indiani è solitamente considerata una misura dello sbalorditivo successo ottenuto dalla cultura che il Rāj ha introdotto nel subcontinente. Prima di questo cambio di paradigma che è riuscito a trasformare la mitologia hindu in storia, gli indiani concepivano il loro rapporto col passato in modo sensibilmente differente rispetto alla tradizione occidentale.

Quest'ultima presuppone il primato dell'esperienza personale nelle due principali forme di narrazione, il romanzo e la storiografia: "Collocare l'esperienza al centro di una narrazione significa definire una pretesa di verità in nome del realismo e della verosimiglianza per il romanzo e in nome dell'autenticità e della veridicità per la storiografia. In entrambi i casi è la testimonianza del narratore a essere sotto osservazione" (p. 75). Inoltre questa tradizione conferisce al narratore l'autorità dell'inizio di quella che sarà alla fine la sua storia. La questione dell'inizio, di cui si è già occupato Edward Said, è importante per la distinzione tra il paradigma narrativo occidentale e quello indiano dell'itihāsa. Questa parola, spiega Guha sulla scorta degli studi Daniel Ingalls, è composta dalla parola iti, che "viene utilizzata come le virgolette in inglese per spostare il denotandum dalla cosa alla parola [e dall'indeclinabile ha] per trasformare qualcosa che è stato o era (āsīt) in ciò che è appena stato detto di esso" (pp. 69-70).

In tale genere di narrazione, a cui appartengono il Mahābhārata e il Rāmāyana, il racconto comincia non a partire dall'iniziativa del narratore, bensì dalla richiesta dell'ascoltatore; così viene a configurarsi "una struttura di racconti dentro racconti [che] si affida a molte voci diverse, un movimento arterioso che molto spesso si lascia andare a digressioni in anse che prima o poi si riuniscono al corso principale" (p. 76). Gli interlocutori non sono semplici dettagli decorativi, ma raccolgono la volontà degli ascoltatori sullo sviluppo del ciclo narrativo; tutte queste svolte digressive stimolano la curiosità degli ascoltatori.

Ma la caratteristica peculiare che rende assai differente questo paradigma narrativo è il primato della ricorsività e della ripetizione rispetto alla centralità dell'esperienza diretta e della testimonianza immediata del narratore. Guha definisce l'itihāsa come "luogo discorsivo dove itiha [il passato nel suo esser tramandato] deposita qualunque cosa sia incluso in esso come una citazione riguardante il passato [...]; depositario di storie raccontate dalla tradizione e tramandate di generazione in generazione fin dall'antichità" (pp. 80-81). Tutto ciò implica due considerazioni, la prima è che l'itihāsa si basa sulla fiducia nella capacità della storia di rinnovarsi ad ogni narrazione; la seconda è che "la storia che entra a far parte dell'itihāsa non si basa tanto sull'immediatezza di un'esperienza personale, quanto piuttosto su una specifica distanza tra il narratore e l'evento" (pp. 79-80).

Tuttavia non si comprenderebbe bene in che specie di ripetizione o di ri-narrazione consista l'itihāsa se non si tenesse conto dell'importanza che riveste la cosiddetta adbhutarasa, ovvero il tipo di risposta estetica che è tonalizzata emotivamente - riprendendo così come schema analogico la Befindlichkeit heideggeriana - dalla meraviglia. La percezione del rasa, che dispone il soggetto all'apertura o alla chiusura nei confronti di se stesso e del mondo è dunque indistinguibile dalla conoscenza di sé e le trasformazioni interiori che essa comporta.

L'itihāsa e l'adbhutarasa devono essere considerate assieme per rendere conto di quel particolare rapporto copia-originale che provoca lo scuotimento emotivo del soggetto ogni volta che è sottoposto alla ripetizione di un racconto di meraviglia. È proprio la diversità di questo paradigma narrativo che consente la compresenza di ripetizione e meraviglia; dotando la cornice del racconto di una tensione digressiva sempre cangiante si ottiene un posizionamento estetico del soggetto sempre differente e spiazzante rispetto al precedente: "L'"ancora una volta" è separato da ciascun caso precedente da uno iato irriducibile che continua a generare variazioni, e con esse meraviglia, a ogni nuova narrazione" (p. 88).

Nell'ultima parte del volume Guha presenta uno degli ultimi interventi di Rabindranath Tagore sulla questione della storiografia. A ulteriore rinforzo delle precedenti considerazioni il monito del poeta indiano si rivolge al modo accademico e colonialista di scrivere la storia, che finisce per escludere la vita quotidiana, il vissuto più profondo di tutte quelle persone che nell'interazione di ogni giorno intessono una rete di relazioni condivise e tramandate, la quale costituisce quegli ampi pezzi di storicità dinnanzi ai quali il progetto storiografico coloniale si mostra del tutto inadeguato. È soltanto grazie all'azione congiunta di letteratura e storiografia che per Tagore si può recuperare questa dimensione della storicità espulsa da ogni rappresentazione, solo se il discorso storico si arricchisce della creatività del poeta si può rendere conto dell'idea fondamentale dell'impresa storiografica di Guha, cioè, con le parole di Massimiliano Guareschi: "quella di uno spazio autonomo della politica dei subalterni, che in forme proprie, attraverso la mobilitazione di modelli organizzativi e riferimenti simbolici specifici, si giustappone allo spazio politico delle élite" (p. 8).

Orazio Irrera