2005

M. Kaldor, Global Civil Society. An Answer to War, Polity Press, Cambridge 2004 (prima ed. 2003), pp. 189, ISBN 0-7456-2757-9

Inserendosi in un dibattito di vasta portata sulla «società civile» di cui il lettore può farsi un'idea scorrendo le note, il libro di Mary Kaldor assume il termine come indicativo di un processo di «management» delle relazioni internazionali che, invertendo la direzionalità dei vettori giuridici della sovranità, muova dal basso e si impegni per una governance politica e consensuale della globalizzazione. Il punto di vista della società civile è quello che permette di interpretare in termini soggettivi e di «human agency» quanto invece l'economia pensa - deterministicamente - come semplice effetto della crescente interdipendenza tra i mercati.

La storia del concetto viene ripercorsa secondo uno schema che ne collega le vicende a differenti modalità di schematizzazione dei diritti. «Societas civilis» è il termine che viene adoperato nel corso del XVIII secolo per definire, in contrapposizione allo stato di natura e all'assolutismo, l'emergere dello «rule of law». «Bürgerliche Gesellschaft» designa tra XVIII e XIX secolo il modo in cui il discorso dei diritti impatta il terreno dell'economia e un sistema di relazioni che eccede lo Stato anche rispetto alle dinamiche di «nazionalizzazione» che progressivamente vengono ad investirlo.

Il concetto riemerge nella seconda metà del XX secolo ed è, secondo l'a., una radicale innovazione dovuta al dibattito dei movimenti sociali degli anni '70 dell'Est europeo (dal '68 praghese, a Charta 77, a Solidarnosc), dell'America latina degli anni '80 e del Sudafrica delle lotte contro l'apartheid. Il 1989 e la fine dell'«equilibrio del terrore» della Guerra fredda sono il punto di crisi e di svolta che ne segna la definitiva riconversione semantica. In questo modo il concetto caratterizza il processo di mobilitazione in vista di una nuova generazione di diritti (ambientali, di genere, alla pace) attraverso e con l'ausilio del quale possano essere definite e implementate le strategie della governance globale.

Tesi dell'a. è il fatto che il nuovo significato del termine «società civile» - proprio perché la sua connotazione contemporanea si è determinata a partire da reti transnazionali di mobilitazione e attivismo che eccedono le matrici eurocentriche e «atlantiche» del discorso politico - offra nuove e più ampie possibilità di emancipazione. Sin dalla fine del secolo XIX progressivamente pensata come «deterritoralizzata» (verrebbe da citare il Frantz della Vorschule zur Phisiologie des Staaten [1857]: «Die bürgerliche Gesellschaft ist wie der Ozean, und die Staaten sind die Inseln, die sich daraus erheben, und während sich im Wasser alles neutralisiert, erhalten sich die Unterschiede auf dem festen Lande»), la società civile si è venuta affermando come risposta all'esaurirsi delle capacità di regolazione dello Stato: prima attraverso il proliferare delle Ong (il cui ruolo, Kaldor riconosce come sempre più evidentemente addomesticato e funzionale al governo della crescente complessità delle relazioni internazionali) e poi, reattivamente, come vettore di ripoliticizzazione fondamentalista e multiculturale delle identità (secondo linee argomentative che contestano lo schema eurocentrico che immagina, a partire da Ferguson e dall'illuminismo scozzese, lo sviluppo della società civile come sottordinato a una concezione stadiale - coloniale, si potrebbe dire - della storia che si rappresenta gran parte del mondo come «incivile» o allo stato di natura). Infine, la società civile si è affermata nella concezione «attivista» e militante che, inagurata dai movimenti di dissidenza degli anni '70 in Europa orientale, passa attraverso l'America latina e l'Africa per riaffermarsi nel movimento globale materializzatosi per la prima volta tra Seattle e Genova, assumendo ciò che l'a. riconosce come un valore normativo.

In termini normativi, la «società civile» a cui Kaldor si riferisce risulta composta dai gruppi e dalle organizzazioni ad adesione libera (escludendo così le comunità e i networks identitari o «culturali») che sono in grado di fare pressione su, agire resistenza contro, o influenzare i centri di potere politico-economico che detengono le posizioni di dominio su scala globale. Ne risulta l'ulteriore esclusione delle Ong, perché passivamente impegnate nell'erogazione di servizi, piuttosto che attive nell'elaborazione critica, e perché le loro decisioni operative, ammantate dalla tecnicizzazione, costitutivamente sfuggono al pubblico confronto. Sono escluse anche le agenzie che condividono la visione neoliberal della società civile non come luogo per un «substantive empowerment» dei diritti di cittadinanza e della partecipazione, ma come semplice terreno da acquisire alla razionalità di mercato e sul quale far dismettere l'impegno di regolazione contrattata e di mediazione della politica e dello Stato.

Proprio perché la sua genesi si determina come evento molecolare e interstiziale tra i contrapposti blocchi della guerra fredda e proprio perché la sua ragion d'essere è quella di offrire canali per la contrattazione e la permanente ridefinizione degli equilibri della governance, la società civile appare in quest'analisi la risorsa fondamentale per opporsi alle forme contemporanee del «warfare» globale. La pace si contrappone come ideale normativo al «network warfare» del terrorismo internazionale e ai circuiti di accumulazione informale alimentati dalla guerra non-statale, allo «spectacle warfare» inaugurato dalla guerra delle Falkland-Malvinas e proseguito nel «counter-insurgency» degli Usa «unilateralisti globali», o al «neo-modern warfare» suscitato dalle forzature determinate dalle politiche del Wto e del Fmi, rispetto all'economia chiusa di Russia, India e Cina. In ogni caso la società civile, la rete di comunicazione tra organizzazioni e soggetti collettivi coinvolti nell'elaborazione di strategie alternative e complementari per la governance globale, appare a Mary Kaldor la leva per agire una reale applicazione e una costante estensione del «diritto internazionale umanitario» e del dovere/diritto di ingerenza.

Prendere sul serio l'«humanitarian law» significa per l'a. arruolare la società civile globale - una prospettiva, quest'ultima, che si presenta ora per la prima volta nella storia come concreta possibilità - ai regimi di un'«azione internazionale concertata» in grado di limitare la guerra, il genocidio (il Kossovo, il Ruanda), e di ampliare, come nella sua vocazione originaria, il raggio di effettiva applicazione del diritto attraverso un ininterrotto lavoro di «law enforcement» in grado di minimizzare perdite e lutti, pur proponendosi come «arma» di interposizione contro le ingiustizie e la violenza.

La società civile non rappresenta, perciò, il popolo. Nella teoria di Kaldor essa rappresenta piuttosto il forum per la partecipazione di individui e gruppi alla progettazione e all'implementazione di scelte in grado di materializzare gli interessi e le issues di agenti che non siano solo gli Stati. In questa prospettiva, la società civile globale rappresenterebbe non tanto un «soggetto», quanto piuttosto il medium attraverso il quale le «voci delle vittime» della globalizzazione - anche se non i loro «voti» - potrebbero giungere alle orecchie dei potenti dando vigore e nuovo spessore alle forme tradizionali della democrazia (p. 148).

Anche se il rischio, a dispetto della tesi difesa nel libro, è che la voce delle vittime finisca con l'essere tradotta da dispositivi di «law enforcement» che assumono come orizzontale e liscio lo spazio globale, come neutra la sfera pubblica e come inevitabili la guerra e la violenza che si tratta di «umanizzare».

Sandro Chignola