2005

R. Genovese, Convivenze difficili. L'Occidente tra declino e utopia, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 186, ISBN 88-07-10381-8

La nozione di globalizzazione descrive "un dominio dell'economia e della tecnica esteso all'intero pianeta, che non troverebbe più alcuna resistenza nelle forze del passato e aprirebbe, davanti ai nostri occhi, lo scenario di un futuro che ha la forma di un presente eternamente minaccioso" (p. 34). La globalizzazione è in effetti concepita, in grande parte della letteratura, come tendenza verso l'uniformità storica: anche in maniera contrastata e contraddittoria, anche concedendo spazi significativi di autonomia alle realtà locali e alle varie culture, si tratterebbe di un processo epocale lungo il quale prima i capisaldi della modernizzazione, e quindi quelli della post-modernità, si diffonderebbero e imporrebbero ovunque. Rino Genovese si colloca tra coloro per i quali questa concezione non coglie l'essenziale. Si consideri ad esempio l'attuale guerra in Iraq. Essa vede intrecciarsi molteplici piani storici e retaggi culturali sfalsati: i curdi perseguono l'obiettivo di un proprio Stato nazionale, come avveniva ai tempi della prima guerra mondiale; gli sciiti progettano una repubblica islamica di tipo iraniano; gli eredi di Saddam coltivano l'idea di una modernizzazione nazionalista come ai tempi di Nasser; i sunniti radicali puntano a un califfato integralista; perfino tra americani e britannici, a parità di tecnologia, incide diversamente, nella condotta militare, la rispettiva esperienza neocoloniale e veterocoloniale.

Quando Khomeini in Iran nel 1979 rompe la continuità delle rivoluzioni degli ultimi due secoli, oppure quando l'esercito sovietico viene sconfitto dalle bande tribali in Afghanistan, si inizia a constatare che non vi è una sola modernizzazione possibile (sebbene a due facce, occidentale e di socialismo reale). Questa constatazione marca ormai i nostri giorni, ponendoci di fronte al gigantismo della Cina o alle azioni del terrorismo islamico. Siamo in un pluriverso in cui tanti diversi sentieri evolutivi si realizzano sempre parzialmente. L'arcaico rimane accanto al nuovo. Nessuna identità è pura. Il destino dell'umanità è l'ibridazione culturale: così, ad esempio, il consumismo può rigenerare le pratiche del dono, la tecnica può suscitare forme di pensiero magico, i flussi finanziari dei mercati possono, pur attraversandole tutte, non unificare né pacificare le aree del pianeta. Ogni ibridazione limita il moderno, contaminandolo con il suo contrario arcaico-tradizionale.

Se l'orizzonte è popolato soltanto da ibridi, il nostro compito, sostiene l'autore, sta nel coltivare quegli ibridi che riducano la violenza dei conflitti ed estendano le possibilità di autorealizzazione individuale. Al riguardo secondo Genovese - che ricorre ad un concetto dovuto a Marshall Sahlins - gli ibridi più fecondi sono quelli 'creoli', ossia i percorsi di adattamento attivo e resistenza con cui culture e forme di vita non occidentali mutuano elementi della cultura dominante e li trasformano in base alle proprie tradizioni. Ad esempio, i fenomeni neotradizionalisti vanno spesso interpretati come processi di reinvenzione di una cultura locale per scopi politici, miscelandola efficacemente con l'uso delle tecnologie più sofisticate e dei mass media. Simili percorsi, tranne quando si chiudono entro i confini di una 'tribù', presentano una valenza positiva: alimentando la coesistenza e la fusione tra i diversi, contribuiscono a rendere autenticamente plurali e meno accesi i conflitti, senza avere la pretesa illusoria di estinguerli; dilatando lo spettro delle transazioni possibili tra individui e tra gruppi, contrastano l'etnicizzazione delle relazioni sociali.

In questa stessa chiave, Genovese rivisita le tre grandi correnti politiche progressiste dell'Occidente: la liberale, la democratica e la socialista. Annota che nessuna di esse ha vinto, essendosi imposta una formazione sociale sincretistica, la liberaldemocrazia, su cui s'innesta il socialismo, inteso come una politica volta a dare espressione alle lotte sociali mediante l'allargamento dei diritti. Il socialismo spinge la liberaldemocrazia ad affrontare la questione sociale, per incrementare le opportunità accessibili agli individui. Mentre il socialismo trae alimento dalle lotte sociali specifiche, la liberaldemocrazia effettua l'universalizzazione giuridico-politica dei contenuti espressi dalle lotte. Questa tensione tra rivendicazioni particolari e diritti da universalizzare ci aiuta a comprendere la modalità relativa con cui oggi l'Occidente dovrebbe recuperare la propria vocazione universalistica. L'universalismo continuamente si spezza, poiché tutte le culture tendono a chiudersi nei riguardi delle altre culture; eppure continuamente si ricompone, poiché ogni cultura tende ad affermarsi ed estendersi mediante l'inclusione di individui e gruppi. La creolizzazione di socialismo e liberaldemocrazia dovrebbe pertanto provare a mantenere entrambi i poli della relazione.

L'impostazione teorica delineata in questo libro - e che, viene annunciato, avrà pieno dispiegamento in un'opera maggiore, Trattato sui vincoli, che apparirà nel 2006 - appare stimolante ma non del tutto convincente. La perplessità maggiore riguarda proprio la coppia di categorie ibridazione/creolizzazione che sta al cuore dell'argomento. Secondo Genovese "la creolizzazione è una risposta e talvolta una proposta; l'ibridazione è invece qualcosa che inevitabilmente accade" (p. 22). Autorevoli studiosi della globalizzazione neoliberista hanno tuttavia mostrato come questa discenda da un progetto radicale di politica economica che, ovviamente, non è stato privo di effetti inintenzionali, e che non è attribuibile sic et simpliciter a qualche Grande Vecchio Occidentale; ma che, nelle sue linee portanti, è stato perseguito da una rete di istituzioni e organizzazioni ben identificabile. Ciò, a mio avviso, basta a segnalare che l'indagine delle asimmetrie dei processi globali d'ibridazione andrebbe specificata e approfondita notevolmente, soprattutto distinguendo quelle forze storiche che, se lasciate a se stesse, allestiscono ibridi nei quali assorbono, asserviscono o usano strumentalmente l'identità altrui. Il più recente volume di Luciano Gallino (L'impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005) documenta ad esempio con stringente lucidità come la principale di queste forze meriti ancora di essere denominata capitalismo; e come essa dia forma a pulsioni autodistruttive, contro cui si richiede l'emergere di soggetti culturali, sociali e politici antagonisti. Si tratta di una prospettiva di analisi molto diversa da quella di Genovese, il quale, di fronte agli ibridi più fortemente asimmetrici, auspica piuttosto un "processo di disgiunzione reciproca tra i contendenti, che potrebbe rendere obsoleta la guerra" (p. 157). In mancanza di un'analisi adeguatamente ravvicinata delle ibridazioni, la tentazione sembra insomma consistere nell'allentare quelle che suscitano maggiori difficoltà.

Nicolò Bellanca