2005

C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 127, ISBN 88-15-06811-2

"Un mondo in frammenti": questa visione del mondo d'oggi, a fronte della crescente globalizzazione dell'economia e delle comunicazioni, ha spinto Clifford Geertz ad affrontare in questo saggio le implicazioni di tale "frammentazione" sui concetti tradizionali della teoria politica. Il tutto avvalendosi del metodo d'indagine della ricerca etnografica, basato sull'analisi delle particolarità e delle differenziazioni culturali, che guarda con sospetto i concetti universali - "nazione", "stato", "popolo" - consolidatisi nel dibattito teorico-politico contemporaneo. Un mondo sempre più "in frammenti", infatti, imporrà la rivisitazione delle tradizionali categorie concettuali con cui si è da sempre considerato l'ordine politico mondiale. Di fronte alla disgregazione interna di vari "stati" ex-coloniali (Nigeria, Sri Lanka, Algeria), Geertz non può non constatare l'improponibilità di un modello classico di stato nazionale che vanamente si è sempre creduto applicabile ad entità che forse tutto potevano essere tranne che "stati" o "nazioni". La complessità etnico-culturale di paesi come il Canada o la ex Jugoslavia, o il conflitto insanabile tra singalesi e tamil nello Sri Lanka, inducono Geertz a chiedersi legittimamente "che cos'è un paese, se non è una nazione?". La risposta deve realisticamente prendere atto che bisogna liberare il concetto di "paese" dall'idea di "nazione", al fine di rivalutare il peso e l'importanza che può assumere il primo rispetto alla seconda. Il "paese" è per Geertz "un'arena politica, mentre la nazione è una forza politica". Tutto ciò al fine di screditare categorie concettuali come "uniformità", "omogeneità", "consenso" e di aprire il vocabolario della politica anche alla dimensione della "varietà" e del "disaccordo". I paesi - scrive infatti Geertz - "non vanno intesi come unità prive di saldature e totalità perfettamente integre": il caso del "paese" Jugoslavia lo dimostra ampiamente.

Coerentemente con una tale impostazione, Geertz arriva pure a mettere in luce la relatività del concetto di "cultura" e il fallimento dei tentativi dell'etnologia classica di comprendere e classificare unitariamente le culture. In realtà, ciò dipende dalla relatività dello stesso "consenso" che dovrebbe costituire una cultura. Dalla dissoluzione del cosiddetto "progetto coloniale" sono nati infatti paesi con una eterogeneità culturale enorme e con una grande molteplicità di livelli su cui tale eterogeneità si manifesta: l'Indonesia (di cui Geertz si è occupato a lungo) è uno di questi paesi. È perciò opportuno ricostruire innanzitutto la "struttura culturale" di ogni paese, cercando di capire come la partecipazione alla vita collettiva si svolga contemporaneamente a livelli e ad ambiti diversi (familiare, di villaggio, di regione). L'identità culturale viene perciò ad essere intesa come "un campo di differenze" che si incrociano a tutti i livelli, e si pone così il problema di una nuova teoria politica in grado di supportare questo modello. Geertz pensa ad una teoria politica più attenta a fatti e peculiarità concreti, incentrata sull'arbitraggio culturale. L'A. arriva a chiedersi (rispondendo affermativamente) se un certo tipo di liberalismo (o meglio, sulla scia di Berlin e Walzer, una socialdemocrazia liberale) possa reggere questa sfida: un liberalismo che riconosca le sue origini e i suoi caratteri culturali (sostanzialmente occidentali) e che abbia fiducia nelle "sue" esperienze, ma che sappia ascoltare e comprendere anche "chi è altro da noi". Se questo meccanismo dell'ascolto funzionerà, anche "noi" verremo ascoltati, e si verrà così a creare un'influenza reciproca tra le "nostre" esperienze e le "altre" esperienze, come richiederebbe un significativo confronto interculturale (la logica è quella dello scambio, anziché dello scontro).

Negli ultimi due capitoli Geertz approfondisce la dimensione del "conflitto etnico" e del "conflitto religioso". A proposito del primo, l'A. continua nella sua critica del "vocabolario" con cui si pretenderebbe di trattare ancora l'argomento: concetti troppo globali e legati al passato, tipici del nation-building ("nazionalità", "autodeterminazione", "minoranze", "etnie") rischiano di impedire una piena comprensione del fenomeno o la formulazione di nuove proposte sul tema. Geertz propone invece alcuni concetti alternativi, quali "lealtà primordiali" e "entità costituite", sulla cui base poter poi costruire una "politica dell'identità". Questo tipo di lessico consente di mettersi dalla parte dei soggetti-attori più che da quella degli osservatori esterni; consente di cogliere le affinità essenziali, le "datità" dell'esistenza sociale, contro invece le logiche aggregative dello stato-nazione. Solo da questa prospettiva potranno scaturire spazi politici per una "democrazia agonistica" (Connolly) tra gruppi conflittuali basata sul rispetto dell'avversario. E solo su tale rispetto, anziché sul consenso primordiale, questa politica potrà basarsi.

Il volume si chiude con una riflessione molto interessante sul "conflitto religioso", nell'ambito della quale Geertz denuncia i rischi di una traslazione completa della religione dall'interiorità dell'uomo verso l'esterno, verso la politica, lo stato, la "cultura". Dopo la caduta del Muro e il conseguente moltiplicarsi delle "rappresentazioni collettive del sé", la religione è diventata una sorta di variabile dipendente utile soprattutto alla "ricerca dell'identità". In tal modo la religione segue pericolosamente la logica del potere e della politica della forza. Che cosa ne è allora di quello che William James chiamava "il morso del destino", ovvero l'esperienza religiosa innanzitutto personale che riguarda ogni singolo individuo? Il caso di alcune giovani donne giavanesi che, pur in aperto contrasto con le convenzioni locali e a costo di essere discriminate, hanno deciso di indossare la jilbab (un abito femminile islamico) aiuta a riportare il discorso sulla dimensione soggettiva dell'esperienza religiosa. Geertz non sostiene certo che la religione vada fondata unicamente su questa dimensione, ma auspica un suo recupero e una sua integrazione all'interno delle dimensioni esterne del fenomeno religioso. Il rischio, evidentemente, è sempre quello di pericolose omogeneizzazioni.

È quest'ultimo, in definitiva, il bersaglio costante della critica che Geertz sviluppa nel suo saggio. L'antropologia, con il suo senso del particolare, può rappresentare un valido strumento contro il linguaggio omogeneizzante, e la teoria politica dovrebbe perciò servirsene. Il volume, infatti, ha il pregio di contenere una ricchezza di dettagli e di "indagini sul campo" (soprattutto riguardo all'Indonesia e al Marocco), anche se forse presenta alcune lacune sul piano della teoria politica, dove non si riesce a cogliere appieno il significato del "liberalismo" proposto da Geertz.

Ilario Belloni