2005

D. Garland, The Culture of Control: Crime and Social Order in Contemporary Society, Oxford University Press, Oxford 2001, trad. it. La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, il Saggiatore, Roma 2004, pp. 447, ISBN 88-428-1029-0

Secolo XXI, Stati Uniti: un afroamericano su tre di età compresa fra i venti e i trentacinque anni è sottoposto a controllo penale dentro o fuori dal carcere, mentre in alcuni stati del sud tornano in voga le divise carcerarie a strisce bianche e nere, che i detenuti indossano anche mentre consumano l'ora d'aria, incatenati l'uno all'altro. Nel frattempo, il territorio metropolitano è sorvegliato da milioni di occhi elettronici - telecamere a circuito chiuso che vigilano silenziosamente sulle "zone a rischio" della città - e la prevenzione della criminalità di strada rientra sempre più fra i normali costi di gestione degli esercizi commerciali, che la appaltano ad imprese private della sicurezza il cui organico in divisa supera ormai quello delle forze dell'ordine.

Strategie di controllo sociale apparentemente contraddittorie. Nel primo caso il criminale è un individuo radicalmente "diverso", un vero e proprio monstrum incorreggibile i cui istinti atavici minacciano la società, e perciò deve essere neutralizzato fisicamente e socialmente ad ogni costo. Nel secondo, il criminale è al contrario un individuo perfettamente "normale", razionale e opportunista come ogni attore economico, che probabilmente sarà dissuaso dal delinquere dalla presenza di una telecamera discreta o di una pattuglia di vigilanza privata. Nel primo scenario le prerogative penali dello stato sovrano si mostrano in modo spettacolare sul palcoscenico di un "teatro punitivo" in cui il deviante è stigmatizzato e degradato. Nel secondo, lo stesso stato sovrano sembra rinunciare al proprio monopolio su "legge e ordine", lasciando che il controllo della criminalità si insinui silenziosamente fra le pieghe del mercato e della privatizzazione.

Ne La cultura del controllo David Garland cerca di ricostruire le coordinate di questa ambivalenza, per suggerire che mentre la prima strategia rimanda a una "criminologia dell'altro" - il criminale è un mostro irrazionale e incontrollabile - la seconda rientra in una "criminologia del sé" - il criminale è un homo oeconomicus, proprio come tutti "noi" - e che entrambe, in una sorta di apparente "schizofrenia penale", consolidano una nuova "cultura del controllo" che pervade sempre più le società contemporanee. Modelli quanto mai distanti di gestione della questione criminale - punitivo, espressivo e "premoderno" il primo; preventivo, pragmatico ed "postmoderno" il secondo. Versanti simmetrici di un'emergente "società del controllo" al cui interno si intrecciano e si sovrappongono tentazioni neoautoritarie e retoriche neoliberiste: se il primo territorio - quello della gogna, del patibolo, della galera - sembra occupato soprattutto da attori politici (partiti, governi, presidenti e premier) in cerca di nuova legittimazione pubblica, il secondo - quello delle smart card, delle telecamere a circuito chiuso e dei gruppi di sorveglianza del vicinato - è invece attraversato soprattutto da agenzie amministrative (polizie, amministrazioni cittadine, dipartimenti locali) ansiose di ottenere risultati visibili sul piano del contenimento del crimine.

Sullo sfondo, secondo Garland, una società "tardo-moderna" attraversata da drammatiche trasformazioni economiche, politiche e culturali: flessibilizzazione del lavoro, insicurezza e precarietà crescenti, proliferazione di stili di vita divergenti, crisi della famiglia nucleare, delegittimazione pubblica dello "stato" e riduzione drastica dei margini di gestione politica delle contraddizioni indotte dalla globalizzazione capitalistica. In questo scenario si consuma inevitabilmente - a partire dalla metà degli anni '70 - la definitiva sconfessione delle strategie di governo dei problemi sociali (e quindi della questione criminale) legate al welfare state, dalle cui ceneri sorge appunto la nuova "cultura del controllo": la cultura di una società che percepisce il crimine come fenomeno al tempo stesso normale e intollerabile, ordinario e mostruoso; fonte di ansie e sorgente inesauribile di profitti, e che ha rinunciato a qualsiasi illusione di "integrazione", "risocializzazione" e "inclusione" delle proprie frange devianti.

In questa comunità dell'insicurezza, solcata da ansie e paure tanto endemiche quanto difficili da nominare, la questione penale smette di essere competenza esclusiva delle classi professionali liberal che l'avevano "governata" nel secondo dopoguerra al riparo da ogni tentazione populista, per diventare un'arena al cui interno le società occidentali ridefiniscono la propria controversa identità e tracciano nuove coordinate dell'esclusione. La penalità diventa quindi per Garland oggetto di strumentalizzazione politica e veicolo di pulsioni reazionarie. Le posizioni sociali del criminale e della vittima si distanziano sempre più; il primo riassume in sé tutti i mali impronunciabili della società contemporanea: non più "deprivato" ma "depravato", egli attenta al benessere di una società civile che - di converso - si identifica sempre più con la seconda: la vittima, simbolo di una vulnerabilità diffusa che non riesce a "dirsi" se non attraverso il rituale punitivo. Immaginare possibilità di resistenza al consolidamento della "cultura del controllo" non può che significare, allora, consegnare nuovamente l'insicurezza alla sua dimensione propriamente politica, nel tentativo di "nominare" diversamente le contraddizioni della società tardo moderna.

Alessandro De Giorgi