2005

L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 87, ISBN 88-420-6470-X

La domanda che si pone il sociologo Luciano Gallino in questo volume è come rendere sostenibile la flessibilità. Il presupposto esplicito (e senza dubbio problematico) da cui parte è che "il lavoro flessibile può non piacere, al lume d'una concezione non puramente mercantile del lavoro, ma è qui per restare a lungo, poiché è strettamente connaturato con i modelli organizzativi e le tecnologie delle imprese del XXI secolo" (p. 8). Detto questo, che è anche l'argomento invocato da più parti per estendere una 'inevitabile' flessibilizzazione del lavoro in nome dell'efficienza e della competitività globale, l'a. non nasconde affatto, dati alla mano, quanto si cela dietro la domanda di sempre maggiore flessibilità: essa è premessa ed espressione di un "attacco generalizzato al diritto del lavoro" (p. 14), in quanto contribuisce da un lato alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative e dall'altro alla de-responsabilizzazione dell'impresa; introduce inoltre nel mercato del lavoro il principio del 'numero chiuso' e, con esso, un alibi per non tematizzare problemi altrettanto importanti; infine, anche qualora si consideri che la moltiplicazione dei lavori flessibili è dovuta agli imperativi di esorbitante redditività pretesi da investitori istituzionali di cui sono ostaggio gli stessi dirigenti d'impresa, ciò che viene per lo più sottaciuto (a livello sia privato che pubblico) sono gli alti oneri personali e sociali a carico dei lavoratori sottoposti alla flessibilità. Se le cose stanno così, spiega l'a., è urgente e opportuno fornire un'adeguata fenomenologia delle forme attuali di lavoro flessibile e dei loro costi umani, onde poi poter avanzare proposte concrete per un intervento pubblico teso a minimizzarne l'impatto sui lavoratori e sulla società e a rendere, appunto, più sostenibile la flessibilità. In questa disamina il breve ma denso saggio di Gallino ha il merito di mettere alcune cose in chiaro.

È quanto mai arduo dare una topografia esaustiva dell'arcipelago dei lavori flessibili, ossia di quelli che "richiedono alla persona di adattare ripetutamente l'organizzazione della propria esistenza - nell'arco della vita, dell'anno, sovente persino del mese o della settimana - alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano" (p. 25). Tuttavia, sostiene l'a., si possono distinguere almeno due grandi tipologie di flessibilità: la prima, "numerica" o "quantitativa" o "esterna", permette all'impresa di variare il numero dei suoi occupati in relazione alle oscillazioni del ciclo produttivo (licenziamento/occupazione); la seconda, "funzionale" o "qualitativa" o "interna", permette all'impresa di modulare direttamente i parametri della prestazione d'opera dei dipendenti (salari, orari, luoghi, mezzi, ecc.). Entrambe queste tipologie, per conseguire gli obiettivi prefissati, fanno ricorso a cicli e processi di destrutturazione, esternalizzazione e terzizzazione, che declinano il modello flessibile all'esterno e all'interno delle imprese, generando una ipertrofia di contratti individuali più o meno 'atipici'. Nel complesso, secondo stime del 2001, si calcola che i "salariati della precarietà" siano in Italia circa 8 milioni, a cui vanno aggiunti gli almeno 5 milioni di occupati nell'economia sommersa, che ancora più flessibilmente entrano ed escono dalla flessibilità 'regolamentata'. "Dinanzi a tali cifre - commenta Gallino - le accuse solitamente rivolte alla rigidità del mercato del lavoro in Italia appaiono quanto meno formulate con limitata attenzione alla realtà" (p. 34).

Il tratto che accomuna queste forme altrimenti singolarizzate di occupazione è la precarietà: sono cioè tutti lavori "in vario modo e da diversi punti di vista insicuri, instabili, temporanei, soggetti a revoca, incerti, senza garanzia di durata, fugaci o brevi" (p. 36). I costi umani che essi comportano sono sintetizzati dall'a. in tre tipi di precarietà: una precarietà esistenziale, dovuta alla limitata o nulla possibilità di formulare previsioni o progetti per il futuro; una precarietà professionale, legata all'impossibilità di accumulare esperienze lavorative trasferibili da un lavoro all'altro; una precarietà sociale, infine, in quanto la rimozione degli aspetti di stabilità spaziale e relazionale del lavoro mina alla base l'identità e l'integrazione sociale della persona (last but not least si potrebbe aggiungere un quarto tipo non meno significativo di precarietà: quella economica!). Il peso e la durata di questi oneri variano in rapporto ai differenti ambiti lavorativi e ruoli occupazionali, ma non paiono essere intaccati dalle trasformazioni del mercato del lavoro e dall'obsolescenza dei sistemi lavorativi tradizionali (come invece sostengono i fautori della net-economy e del postfordismo; a questo proposito, anzi, Gallino - al pari di molti altri osservatori, si pensi agli studi di Robert Castel - non esita a sottolineare come in molti settori avanzati si registri il ritorno in grande stile dei vecchi e collaudati strumenti di sfruttamento della forza lavoro: "Ford e Taylor sembrano essere più che mai gli ispiratori dell'organizzazione dei modi di lavorare", p. 60).

L'obiettivo di prendere in conto istituzionalmente i costi umani della flessibilità (o almeno di quella parte del lavoro flessibile suscettibile di venir regolata da leggi e norme, con l'esclusione quindi del 'sommerso') è subordinato, secondo l'a., all'implementazione di politiche del lavoro che operino con i seguenti mezzi: istituzioni per sostenere il passaggio da un lavoro all'altro; certificazioni di competenze trasferibili; interventi sull'organizzazione del lavoro; programmi di formazione; riattivazione, pur nella placeless society, del senso dell'idea di 'posto di lavoro'. Se e come politiche di questa natura possano essere scelte e perseguite da un governo nazionale o europeo all'ombra degli imperativi della globalizzazione economico-finanziaria non è un argomento trattato da Gallino, che invece conclude questo volume accennando ad una forma di intervento che potrebbe rendere più efficaci e praticabili anche le altre, e consistente nell'introduzione del "principio del diritto al lavoro a tempo prescelto" (p. 86, il riferimento esplicito è alla "rivoluzione del tempo liberamente scelto" caldeggiata negli anni '80 dai sociologi del lavoro): si tratterebbe di dare al maggior numero di lavoratori un'autentica possibilità di scelta tra una molteplicità di lavori flessibili e una "pluralità non marginale" di lavori normali. Di fronte a queste auspicabili conclusioni, tuttavia, volte a rendere sostenibile - ossia "meno rigida" - la flessibilità, si ha tuttavia l'impressione che il futuro del lavoro (flessibile) e dei suoi diritti sia destinato a rimanere in una condizione, sia pur 'ammortizzata', di precarietà.

Alessandro Paoli