2006

M. Festenstein, Negotiating Diversity, Polity Press, Cambridge 2005, p. 197, ISBN 0-7456-2406-5

È innegabile che il tema della differenza culturale sia al centro del dibattito politico e filosofico-politico contemporaneo. In varie forme, dalla riformulazione della teoria della giustizia di Rawls in Liberalismo politico e dalle critiche dei communitarians alla giustizia liberale, fino al più recente dibattito intorno al multiculturalismo, la differenza culturale sembra essere diventata l'oggetto privilegiato della riflessione della teoria e della filosofia politica. Nel mare magnum della produzione scientifica che ruota intorno a questa tematica, il volume di Matthew Festenstein Lecturer in Politics presso l'università di Sheffield, si segnala per l'angolazione originale dalla quale viene affrontato il problema oltre che per la chiarezza e la completezza dell'esposizione. Obbiettivo della ricerca non è soltanto quello di passare in rassegna le soluzioni politiche ai dilemmi della società multiculturale, ma anche quello di compiere una ricognizione più generale intorno alle modalità con cui la cultura è diventata oggetto della riflessione teorico-politica.

La fortuna del concetto di cultura nella riflessione filosofico-politica risale almeno, come accennavo in precedenza, alla critica di matrice communitarian al progetto del liberalismo rawlsiano di impermeabilizzare i criteri di giustizia rispetto alla sfera delle preferenze personali. Questa fortuna si è espressa tuttavia attraverso una grande varietà di "tesi culturaliste" che Festenstein passa accuratamente in rassegna nel primo capitolo di Negotiating Diversity. In termini generali, le diverse formulazioni di queste tesi concordano nel riconoscere nell'appartenenza culturale un ingrediente non eliminabile della soggettività politica: la cultura di un individuo è un elemento costitutivo della sua personalità, pertanto configura una dimensione che non è possibile mettere tra parentesi nel processo di elaborazione dei principi di giustizia. Tuttavia, questa assunzione di partenza può essere sviluppata in direzioni molto diverse, in rapporto alla nozione di cultura che viene presa in esame. A questo proposito, Festenstein individua tre percorsi principali, cui corrispondono tre diverse accezioni di "cultura": la nozione normativa di cultura - cultura come insieme di precetti che orientano le scelte degli individui -, la nozione sociale (societal) di cultura - cultura come insieme di istituzioni diffuse nella società (scuole, istituzioni politiche, ecc.) che organizzano la vita degli individui - e infine la nozione semiotica di cultura - cultura come insieme di significati cui gli individui attingono e attraverso i quali interpretano il mondo circostante. Si tratta di accezioni di un unico termine che appaiono ovviamente interrelate fra loro ma che evidenziano anche prospettive e problematiche differenti. A questa variabilità nelle assunzioni di partenza intorno al concetto di cultura corrisponde una parallela differenziazione negli argomenti addotti in favore della tesi normativa, che pretende di derivare dall'affermazione del carattere costitutivo dell'appartenenza culturale la conclusione della necessità da parte dello Stato di introdurre delle forme di riconoscimento delle differenze culturali. L'analisi delle strategie argomentative sviluppate in questo senso costituisce l'oggetto del secondo capitolo del libro e viene organizzata da Festenstein sulla base di una doppia dicotomia, tra argomenti individualistici e non individualistici - a seconda che la giustificazione addotta per il riconoscimento dell'appartenenza culturale rinvii o meno, in ultima analisi, a diritti e interessi individuali - e fra argomenti strumentali e non strumentali - a seconda che l'appartenenza culturale sia valutata come un bene da perseguire per se stesso oppure solo strumentalmente per il raggiungimento di un bene ulteriore.

A partire dal terzo capitolo, esaurita la sezione "introduttiva" del volume, Festenstein affronta in successione tre approcci paradigmatici nell'ambito della teoria del multiculturalismo: l'approccio del "culturalismo liberale" (Kymlicka, Raz e Taylor), la tesi dell'"universalismo negativo" (Barry e Kukathas) e l'approccio "deliberativo-dialogico". Uno dei principi centrali della teoria liberale è quello secondo il quale lo Stato deve compensare le differenze fra gli individui nell'accesso ai beni fondamentali, quando tali differenze non dipendono da libere scelte. A questa tesi generale i sostenitori del culturalismo liberale aggiungono la tesi ulteriore in base alla quale l'appartenenza culturale costituisce un bene fondamentale. Se congiungiamo queste due assunzioni si ottiene la tesi caratterizzante del culturalismo liberale, nella versione di Will Kymlicka (1995, 2001): lo Stato deve operare, senza venir meno alla propria neutralità, per fornire alle culture più svantaggiate quelle forme di tutela che sono necessarie per la loro perpetuazione - per esempio, forme di autogoverno per le minoranze nazionali -, perché la sopravvivenza di una cultura minoritaria costituisce una condizione fondamentale per l'espressione della soggettività dei suoi membri. Festenstein argomenta persuasivamente che la tesi di Kymlicka si espone a due ordini di critiche: da una parte, fondandosi su una nozione "sociale" di cultura - nel senso chiarito nel primo capitolo -, non riesce a tenere in debita considerazione le istanze di quei gruppi - migranti, culture minoritarie disperse su una vasta porzione del territorio statale - che, non essendo localizzati in un'area ben definita, non possiedono una propria cultura sociale da preservare. Dall'altra, anche il requisito di neutralità imposto allo Stato sembra difficile da soddisfare: infatti, dal momento che le identità culturali non sono mai statiche e monolitiche ma comprendono al loro interno una pluralità di sottoidentità e sottogruppi spesso fra loro in conflitto, lo Stato nel garantire ai membri di un determinato gruppo le risorse per la conservazione della propria cultura, si trova inevitabilmente a operare scelte su quali aspetti di un'identità culturale siano più "autentici" o più meritevoli di essere preservati. Da qui la scelta compiuta da alcuni autori - come Joseph Raz (1994) e Charles Taylor (1992) - di rinunciare al requisito della neutralità per abbracciare una forma di culturalismo perfezionista.

I sostenitori della tesi dell'universalismo negativo recuperano invece l'originaria aspirazione liberale a favore dell'"impermeabilizzazione" delle politiche pubbliche rispetto all'appartenenza culturale. Secondo gli "universalisti" lo Stato dovrebbe conservare una posizione di indifferenza rispetto alle molteplici identità culturali dei cittadini, organizzando le proprie politiche secondo criteri che prescindono dal riconoscimento delle culture presenti sul territorio. All'interno di questo schema generale si presentano però due varianti molto diverse tra loro. La prima variante "libertaria" è stata recentemente esposta da Chandran Kukathas (2003): secondo Kukathas lo Stato deve impostare la sua azione sulla base del duplice presupposto di non interferire con la libertà di coscienza dei cittadini e di non formulare valutazioni delle diverse concezioni del bene diffuse nella società. Per questo motivo, al divieto di fornire un riconoscimento politico alle identità culturali e di predisporre politiche specifiche di esenzione da certi doveri per determinati gruppi di individui, deve fare da contraltare l'attribuzione della maggiore autonomia possibile a tutti i cittadini nell'ambito dei gruppi e delle comunità cui volontariamente aderiscono. In questo modo Kukathas si spinge a dichiarare perfettamente legittime, se messe in atto all'interno di comunità chiuse, pratiche molto controverse come le mutilazioni genitali infantili o certe forme di ostracismo attuate a danno di individui devianti. Al contrario, la versione egualitaria della posizione universalista, che viene ricostruita a partire dal lavoro di Brian Barry (2001) insiste sull'importanza di una definizione preliminare di un insieme di principi di giustizia ai quali le norme e le pratiche culturali devono assoggettarsi: lo Stato deve garantire a tutti i cittadini uguali diritti civili e politici ma in che modo questa dotazione si accorda con le preferenze dettate dalla cultura è un aspetto di cui lo Stato non deve farsi carico, dal momento che l'appartenenza culturale è una questione interamene privata. L'obbiezione più forte che Festenstein fa valere contro le tesi universaliste è che perseguire un astratto ideale di neutralità dello Stato è irrealistico: la selezione delle politiche statali non è mai neutrale, perché il modo in cui viene organizzata la vita pubblica, a partire da decisioni elementari come la scelta della lingua ufficiale o delle feste civili, possiede un inevitabile impatto culturale; lo stesso si può dire per qualsiasi ipotetico insieme di principi di giustizia o di diritti fondamentali. Allo stesso tempo, anche la possibilità di immaginare una coesistenza di diverse comunità culturali chiuse presuppone un "moral standpoint" dall'alto del quale regolamentare aspetti controversi come il diritto di uscita degli individui dal gruppo cui appartengono e le relazioni tra la comunità e l'esterno.

La concezione della deliberazione pubblica come pubblico dialogo si presenta, secondo Festenstein, come una valida alternativa ai vicoli ciechi del culturalismo liberale e dell'universalismo. Secondo il modello deliberativo, l'azione dello Stato deve prendere forma a partire da una discussione pubblica che coinvolge tutte le identità presenti all'interno dello Stato. In questo modo sembra possibile evitare i problemi connessi con la necessità di definire a priori un modulo di convivenza tra le diverse appartenenze culturali. Tuttavia, l'implementazione di un dialogo pubblico richiede l'adozione di regole. La scelta di queste regole appare particolarmente delicata perché da essa dipende sia la non esclusione di soggetti che avrebbero titolo a intervenire nel dibattito pubblico, sia le decisioni su quali argomenti possono essere fatti valere nel contesto della deliberazione politica. A questo proposito, una tradizione che rinvia a Rawls (1993) propone come criterio cruciale di ammissibilità il parametro della ragionevolezza degli argomenti addotti. Festenstein, tuttavia, ha buon gioco nel sostenere che il criterio della ragionevolezza non può essere considerato culturalmente indipendente. Ma se non è possibile fare affidamento su criteri e regole predefiniti, in che modo è possibile generare quella fiducia reciproca su cui si basa il funzionamento del modello deliberativo? Nel capitolo conclusivo Festenstein considera tre meccanismi attraverso i quali si produce fiducia: l'identità culturale, la presenza di un ethos diffuso nelle forme di una comune identità nazionale e l'azione delle istituzioni. Coerentemente con l'impostazione complessiva del lavoro, Festenstein non ritiene che sia possibile indicare un'unica via maestra per la creazione di uno stabile rapporto di fiducia all'interno del sistema politico, suggerendo piuttosto l'opportunità di individuare soluzioni diverse caso per caso.

Nel complesso Negotiating Diversity si propone sicuramente come una delle introduzioni più valide alla teoria politica del multiculturalismo. Le presentazioni degli autori discussi sono sempre chiare e incisive; le tesi enunciate vengono sempre inquadrate criticamente con riferimenti esaurienti alla letteratura secondaria. Alcuni forse potranno rimproverare a Festenstein un'eccessiva cautela teorica, che lo porta a non delineare una propria soluzione al problema della società multiculturale. Altri potranno forse lamentare un'insufficiente problematizzazione del concetto di cultura. Ma si tratta di rilievi che - davvero, in questo caso - non diminuiscono il valore e l'utilità del lavoro.

Riferimenti bibliografici

  • Barry, B. 2001, Culture and Equality, Polity Press, Cambridge.
  • Kukathas, C. 2003, The Liberal Archipelago, Oxford University Press, Oxford.
  • Kymlicka, W. 1995, Multicultural Citizenship, Oxford University Press, Oxford, trad. it. La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna, 1999.
  • ---- 2001, Politics in the Vernacular: Nationalism, Multiculturalism and Citizenship, Oxford University Press, Oxford.
  • Raz, J. 1994, Ethics in the Public Domain, Oxford University Press, Oxford.
  • Taylor, C. 1995, Philosophical Arguments, Harvard University Press, Cambridge, Mass.
  • Rawls, J. 1993, Political Liberalism, Columbia University Press, New York, trad. it. Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, 1994.

Leonardo Marchettoni