2011

R. Dworkin, Justice in Robes, Belknap Press, Cambridge (Mass.) 2006, trad. it. La giustizia in Toga, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 325, ISBN 978-88-420-8443-3

Quando ci si accinge a leggere la traduzione italiana della raccolta di saggi di Ronald Dworkin, Justice in Robes, edita nel 2006, per i tipi della Belknap Press, è bene ricordare la celebre affermazione di Pascal, in virtù della quale: "[...] trois degrés d'élevation du pôle renversent toute la jurisprudence"(citato in G. Del Vecchio, I presupposti giuridici della nozione di diritto, Zanichelli, Bologna, 1905, p. 27).

Il filo conduttore del testo è rappresentato dalla struttura analitico-definitoria del diritto: Dworkin critica l'assunto secondo cui sia sufficiente, per dare una compiuta definizione di diritto, far riferimento alle regole che compongono un sistema, ed è invece convinto sia necessario ricomprendere al suo interno anche una serie di elementi extra-normativi, spesso di derivazione morale. In particolare, il teorico americano, afferma di essere interessato principalmente a quello che definisce il "concetto dottrinale" di diritto, al quale ricorriamo quando diciamo, ad esempio, che secondo il diritto di Rhode Island non è valido un contratto sottoscritto da chi ha meno di dodici anni. Ora, la sentenza di un giudice si fona sulla verità o meno di tali proposizioni; nel caso in specie, se sia vero o meno che, in base al diritto di Rhode Island, un contratto sottoscritto da chi ha meno di dodici anni non può essere considerato valido. Secondo Dworkin "[...] le proposizioni del diritto giocano un ruolo importante in una complessa rete di presupposti e credenze di questo genere e ricevono il loro senso da tale ruolo. Ovviamente è una questione di fondamentale importanza pratica il fatto se fra i test che i giudici e gli altri dovrebbero effettuare per decidere quando tali proposizioni sono vere rientrino anche quelli di tipo morale, che chiedono, ad esempio, se sia una politica giusta e saggia non consentire ai bambini disabili di fare contratti" (p. 4). Più precisamente, il giurista americano perviene alla formulazione della tesi per cui il concetto dottrinale serva a individuare cosa è diritto in una data comunità politica.

A tal fine, nell'Introduzione, Diritto e morale (pp. 3-40) Dworkin descrive, in modo da lui stesso definito "artificiale", la struttura generale di una teoria giuridica, dividendola in quattro stadi (semantico, giurisprudenziale, dottrinale, giudiziale) al fine di individuare in quali di essi la morale possa assumere un ruolo peculiare. Secondo la teoria dell'integrità dworkiniana, la morale è implicata nella definizione del diritto sia nello stadio giurisprudenziale, sia nei successivi stadi dottrinale e adjucative (p. 18).

Nel primo stadio, definito "semantico" (pp. 11-15), l'Autore distingue tra diversi concetti, che svolgono diverse funzioni in base ai soggetti che ne condividono una prassi convergente: a) i concetti criteriali, in base ai quali le persone condividono alcuni concetti in quanto concordano sulla loro definizione (si pensi al concetto di scapolo, che presuppone l'accettazione, da parte dei soggetti, della definizione di celibe, quale maschio non sposato); b) i concetti di genere naturale, in cui le persone condividono alcuni concetti relativamente alla loro struttura fisica o biologica, quale ad esempio il concetto di tigre; c) i concetti interpretativi, che vengono condivisi dagli individui, come attori di complesse prassi politiche che richiedono di essere interpretate al fine di decidere come condurle al meglio. E' da precisare che mentre la prassi linguistica convergente determina l'applicazione corretta dei concetti criteriali e di genere naturale, questo non vale per l'applicazione concetti interpretativi, in quanto le persone possono condividere tale concetto anche quando sono in grave disaccordo sulle sue esemplificazioni. Pertanto, secondo il giurista americano, un'utile teoria di un concetto interpretativo (si pensi, ad esempio, ad una teoria della giustizia), non può semplicemente riportare, in modo neutrale, i criteri per la sua identificazione, come fanno i concetti criteriali e di genere naturale, ma deve essere essa stessa un'interpretazione della prassi in cui il concetto figura, e pertanto i fatti e i principi morali devono necessariamente figurare tra le basilari condizioni di verità delle proposizioni del diritto (pp. 14, 245).

Nel secondo stadio, definito "giurisprudenziale" (pp. 15-16), il teorico deve costruire una teoria del valore o dell'ideale del diritto. Pertanto, egli tenta di individuare, attraverso l'interpretazione, il valore giuridico rilevante che giustifica al meglio la prassi giuridica. Mentre per le teorie del diritto utilitaristiche tale valore è rappresentato dall'efficienza, Dworkin fa riferimento all'ideale di integrità , che si attua attraverso il principio aspirazionale della legalità, inteso come emblema e specchio dell'eguale considerazione pubblica che dà il diritto a un insieme di persone di definirsi "comunità" (p. 81).

Nel terzo stadio, definito "dottrinale" (pp. 16-21), il teorico ha il compito di identificare e applicare le proposizioni vere del diritto, alla luce del valore individuato nello stadio giurisprudenziale, cioè deve interpretare una legge o una raccolta di leggi alla luce del valore preso come riferimento. Per buona parte dei teorici del diritto la verità delle proposizioni del diritto dipende solo da fatti sociali, e quindi si prescinde, nell'interpretazione del diritto, da qualsiasi riferimento alla morale politica (p. 17). Secondo Dworkin, invece, è possibile garantire al meglio il valore dell'integrità se la verità delle proposizioni del diritto dipende anche da principi propri della morale, personale e politica, alla luce dei rispettivi test dell'adattamento e del valore (p. 18).

Nel quarto stadio, definito "sentenziale" o "adjudicative" (pp. 22-25), sorge la questione di cosa i funzionari politici (che hanno generalmente il compito di far rispettare il diritto) dovrebbero effettivamente fare in casi particolari. Questo è dal giurista americano considerato un problema politico e dunque morale, e in particolar modo è un problema su quando la morale richiede che i giudici agiscano indipendentemente o in contrasto con il diritto (p. 22).

Alla luce dei quattro stadi sopra evidenziati, in cui è possibile rinvenire in quali differenti fasi la morale può entrare nella struttura e nella definizione delle teorie del diritto, Dworkin, nei capitoli successivi del suo libro, partendo dall'assunto che l'origine di molti problemi tra i filosofi è causata dal fatto che essi non distinguono a sufficienza i vari concetti (dottrinale, tassonomico, sociologico di diritto, aspirazionale) del diritto, si propone di analizzare e criticare diverse concezioni giuridiche contemporanee - dal pragmatismo giuridico all'originalismo costituzionale, al positivismo dottrinale analitico, inclusivo ed esclusivo confrontandosi infine con i contributi di John Rawls (p. 253 ss.).

Nel I capitolo, Pragmatismo e diritto (pp. 41-54), il giurista americano analizza il pragmatismo giuridico, scettico e antiteorico sostenuto Richard Rorty e Stanley Fish. Tali autori, che partono da un differente stadio semantico rispetto a Dworkin, criticano l'idea secondo cui le proposizioni del diritto hanno condizioni di verità, replicando che le proposizioni del diritto non sono né vere, né false, ma solo espressione delle preferenze soggettive dei giudici o di altri funzionari. Secondo i pragmatisti scettici il concetto dottrinale di diritto non è un concetto criteriale, o di tipo naturale, o interpretativo, ma è un concetto finto (p. 27). Dworkin replica a tali affermazioni, sostenendo che Richard Rorty e tutti i suoi seguaci sembrano distinguere, pur senza chiarirlo, tra un livello interno e uno esterno. Il primo è il livello in cui è portata avanti una qualche attività pratica come il diritto, la scienza, le arti letterarie o l'impegno morale; il secondo è il livello in cui i filosofi e gli altri teorici osservano tali attività piuttosto che parteciparvi, e in cui si scopre come il mondo e il diritto sono davvero (p. 43). Rorty e la corrente pragmatista sostengono il rifiuto di tali affermazioni esterne in quanto aventi carattere metafisico e fondazionale (p. 44). Dworkin, dal canto suo, critica la tesi di Rorty secondo la quale il diritto è "un'onnipresenza incombente nel cielo", sostenendo che il livello esterno a cui questi fa riferimento non esiste (p. 46). Altro pragmatista antifondazionista la cui posizione teorica è analizzata dal giurista americano è Stanley Fish, che in merito alla possibilità o meno di giungere ad un consenso o trovare risposte corrette nelle credenze sociali condivise, si pone in opposizione aperta al fondazionalismo o oggettivismo interpretativo dworkiniano, considerandolo come un "[...] tentativo di fondare la ricerca e la comunicazione su qualcosa di più fermo e stabile della mera credenza o della prassi incontrollata (S. Fish, Doing What Comes Naturally. Change, Rhetoric, and the Practice of Theory in Literary and Legal Studies, Duke University Press, Durham, 1989, p. 342). Fish liquida di fatto il paradigma del testo, presentandolo alla stregua di un universo aperto nel quale l'interprete può scoprire infinite connessioni, con la conseguenza di abolire ogni distinzione tra misreading (fraintendimento) e interpretazione corretta. Dworkin sostiene che l'interpretazione del diritto è essenzialmente politica, così come per Fish, ma l'intenzione dell'interprete assume per i due filosofi un aspetto differente. Secondo Dworkin l'intenzione dell'autore (legislatore e giudice) partecipa all'individuazione dell'interpretazione migliore possibile entro la comunità o tradizione giuridica a cui l'interprete e il testo appartiene, realizzando una coerenza interna. Il giudice, quando interpreta, manifesta la sua appartenenza ad una pratica sociale. Secondo Fish, invece, la prassi interpretativa ha carattere passivo e irriflessivo, e quindi non influenza in alcun modo il pensiero del giurista partecipante alla stessa prassi, che pertanto mantiene un'assoluta libertà di scegliere la strategia interpretativa (p. 53). Dworkin è del parere che Fish non si renda conto di come la teoria giuridica e l'argomentazione teorica "si amalgamino" alla prassi giuridica interpretativa, e anche di come i giuristi accademici e i filosofi del diritto possano tentare di contribuire a questa impresa (p. 289 nota 19).

Nel II capitolo, A lode della teoria (pp. 81), Dworkin, affronta il ruolo della teoria nel ragionamento e nella prassi giuridiche, proponendo l'analisi di un caso immaginario. La signora Sorenson, che soffre di artrite reumatoide, è stata curata per molti anni con farmaci, etichettati con differenti marchi da produttori diversi, il cui principio attivo è denominato Inventum, che si è scoperto avere seri effetti collaterali. A causa di ciò, quest'ultima ha subito danni irreversibili al cuore, e decide di richiedere i danni all'azienda farmaceutica che ha prodotto il farmaco che l'ha danneggiata. Tuttavia, non riuscendo a provare quale delle undici aziende le ha causato effettivamente i danni lamentati, in quanto nel corso degli anni ha assunto prodotti contenenti l'Inventum di tutte quelle case farmaceutiche, decide di citarle tutte in giudizio, considerandole responsabili in base alle quote di vendita sul mercato dell'Inventum nel periodo in cui la signora Sorenson lo ha assunto (p. 10). Come dovrebbero decidere i giudici e i giuristi in questo caso, qualificato hard case, posto che non vi è un precedente o una regola che lo decide chiaramente? Tale problematica riporta al tentativo, proposto da Dworkin in Law's Empire, di comprendere la natura del disaccordo teoretico su ciò che deve essere considerato diritto, per poi costruire e sostenere una teoria specifica del diritto (R. Dworkin, L'impero del diritto, Il Saggiatore, Milano, p. 17). Si parla di disaccordo teoretico quando persone diverse intendono il diritto in modo diverso, e quindi, proprio per questo motivo, giungeranno talvolta a conclusioni divergenti. Pertanto, a partire dalle stesse norme, si possono dare soluzioni giuridiche diverse, in quanto tale scelta si fonda su scelte di valore. In base all'accettazione dell'esistenza di tale disaccordo sul diritto, Dworkin distingue tra teorie semantiche e teorie interpretative del diritto. Le prime sono rivolte ad identificare i criteri di validità del diritto, cioè le definizioni del diritto e le condizioni di verità delle proposizioni giuridiche, cercando di individuare le "cose giuridiche" che devono essere interpretate. Le teorie positivistiche di Kelsen e Joseph Raz sono di questa specie e differiscono tra loro nell'individuazione dei fatti storici decisivi per la validità. Anche le teorie del diritto giusnaturalistiche sono semantiche, e differiscono dalle prime perché seguono criteri non solo fattuali ma anche morali al fine di decidere quale proposizione giuridica sia vera. Dworkin critica l'approccio semantico in quanto non è in grado di cogliere la dimensione giuridica, e propende per le teorie interpretative del diritto, che considerano il diritto non come una cosa da osservare dall'esterno, ma come un'attività che nel suo conoscersi si va svolgendo ed attuando. Nel caso Sorenson, secondo il giurista americano, i giudici dovrebbero far riferimento ai principi generali sottostanti alla normativa relativa alla responsabilità da produzione di prodotti e poi applicare tali principi al caso in questione. Pertanto, secondo il giurista americano la signora Sorenson ha ragione, e avrebbe diritto ad un risarcimento danni, in base al principio morale secondo cui chi trae profitto da un'impresa rischiosa dovrebbe condividerne il rischio (pp. 17, 157). In particolare, Dworkin si sofferma sul modo più appropriato di ragionare o argomentare sulla verità delle affermazioni del diritto, e distingue tra: a) l'approccio compenetrato o teorico e b) l'approccio pratico. Secondo il primo approccio, che Dworkin predilige, ragionare giuridicamente significa mettere in relazione problemi giuridici specifici con una rete di principi giuridici o derivanti dalla morale politica, presupponendo che un'affermazione interpretativa sia superiore alle rivali, alla luce di una verità morale oggettiva (pp. 56, 65). Secondo il secondo approccio, sostenuto dal relativismo filosofico della Scuola di Chicago di Posner e Sunstein, la verità in generale, e la verità riguardo la morale politica in particolare, è creata dalle nostre prassi, e non è possibile individuare una verità indipendente da una cultura o da un linguaggio particolari. Pertanto, ogni decisione giudiziaria è un'occasione politica e i giudici e i giuristi dovrebbero analizzare il problema pratico posto in essa (pp. 56, 80). Essi pertanto criticano l'uso della teoria morale nell'argomentazione giuridica, attraverso tre obiezioni: una metafisica, una pragmatica e una professionale (p. 64). Secondo l'obiezione metafisica proposta da Posner (e accettata da Rorty), il linguaggio crea il nostro universo morale, piuttosto che riportarlo, e quindi non c'è alcuna verità oggettiva sulle questioni morali, ma solo giudizi o opinioni personali su cui vi è un consenso nella comunità linguistica o interpretativa (pp. 65-67). Per quanto concerne l'obiezione pragmatica, Posner sostiene che i giudizi espressi dai giudici nelle sentenze non presuppongo alcuna teoria, ma rappresentano semplicemente degli atteggiamenti, e pertanto il ragionamento giuridico dell'interprete viene svolta alla luce del principio utilitaristico (pp. 67, 80). Infine, per quanto concerne l'obiezione professionale, i giuristi devono utilizzare, nel ragionamento giuridico, quali strumenti dell'argomentazione, l'analisi testuale, e nei casi difficili l'analogia, prescindendo da concezioni teorico-filosofiche (pp. 72-76).

Sul punto, Dworkin replica parafrasando Kant, e sostiene che l'analogia senza teoria è cieca (p. 76). Per quanto concerne infine la tesi "antiteorica" di Cass Sunstein, secondo il quale i giudici dovrebbero decidere i casi loro sottoposti consultando solo i materiali giuridici della loro giurisdizione, evitando "ascese teoriche", e guidati dal principio della priorità locale, precisando che lo sviluppo di teorie su larga scala del giusto e del bene è un compito democratico e non giudiziario (p. 78), Dworkin replica che l'astinenza giudiziaria, se fosse effettivamente realizzabile, non produrrebbe più democrazia, ma la paralisi di un processo essenziale alla democrazia (p. 80).

Nel III capitolo, Il nuovo mastino di Darwin (pp. 82-114), il giurista americano riprende la versione pragmatista più influente, accennata nel capitolo 2, e sostenuta dal giudice federale Richard Posner, simpatizzante del "soggettivismo morale", il quale ritiene che i criteri per pronunciare un'affermazione morale valida siano "locali", cioè relativi al codice morale della particolare cultura in cui l'affermazione è formulata (p. 97). Per tali motivi, il pragmatismo giudiziario non filosofico e consequenzialista si esplica solo attraverso lo stadio sentenziale della teoria giuridica e non necessita di alcun stadio o "ascesa della giustificazione" precedente, in quanto i giudici, in virtù del loro potere politico, devono prendere in considerazione le conseguenze delle loro decisioni, al fine di migliorare la loro comunità politica, alla luce del fatto che come categoria professionale sono sufficientemente d'accordo sugli scopi autentici della loro società (p. 27). Dworkin critica questa versione di pragmatismo giudiziario, non filosofico e consequenzialista, in quanto in primis essa non specifica quali sono gli scopi sui quali i giudici sono d'accordo, e in secondo luogo questi ultimi sono in realtà profondamente in disaccordo su tutte le questioni politiche che hanno a che fare con il diritto (p. 28). Anche se secondo Posner i giudici, a fondamento del loro ragionamento giuridico, avrebbero bisogno di una teoria politica, Dworkin è del parere che la teoria di Posner, in realtà, si fondi su una peculiare teoria morale, denominata pragmatismo darwiniano, che consiste in un atteggiamento morale sostantivo e non strumentale, in base al quale non siamo noi a identificare norme e attitudini appropriate al fine una fioritura umana, ma è la natura a farlo, attraverso la selezione naturale o qualcosa di analogo. Pertanto, tale atteggiamento presuppone che certi tipi di vita umana, certe forme di società umana siano intrinsecamente superiori alle altre (pp. 100-101).

Nel IV capitolo, Pluralismo morale (pp. 115-127), Dworkin sostiene che la concezione del pluralismo dei valori, sostenuta da Isaiah Berlin, e che sta acquisendo un'influenza costantemente crescente, aderisce ad un'idea di libertà che produce conflitto tra valori politici, in quanto è intesa come capacità di fare ciò che si vuol fare liberi da vincoli o coercizioni da parte di altri (pp. 122, 159). In base ad essa, gli esseri umani sono condannati a scegliere tra valori politici oggettivi, indipendenti e fondamentali, quali la libertà, l'eguaglianza, la democrazia e la giustizia, e ogni scelta può comportare una perdita irreparabile (pp. 115-116, 123). Tale scelta si esplica attraverso una decisione che secondo Berlin non ha carattere morale o politico, ma è di tipo concettuale (p. 160). Questa conclusione sembra porsi in aperto contrasto con la teoria del diritto di Dworkin, in quanto la sua interpretazione della prassi giuridica presuppone che i valori che la giustificano, anche se vari e complessi, formino un insieme integrato, finalizzato al raggiungimento dell'ideale dell'integrità allo stadio dottrinale e sentenziale (p. 30). Dworkin risponde a tale critica sostenendo che i valori politici sono interdipendenti tra loro, e propone una concezione alternativa della libertà, in cui libertà significa fare qualsiasi cosa ci piaccia, fino a quando rispettiamo i diritti morali, propriamente intesi, degli altri (pp. 122-123).

Nel V capitolo, Originalismo e fedeltà (pp. 128-152), Dworkin analizza la più importante versione contemporanea di positivismo politico, denominata originalismo, che si propone di leggere la Costituzione americana in base alle opinioni morali di chi ha posto in essere la Costituzione stessa, finché tali opinioni non vengano sostituite dal popolo nel loro insieme attraverso un emendamento costituzionale. Dworkin affronta il problema della fedeltà al testo costituzionale, riprendendo le Tanner Lectures, due famose lezioni tenute a Princeton dal giudice federale Scalia, confluite poi nel libro di Scalia, A Matter of Interpretation (A.Scalia, A Matter of Interpretation: Federal Courts and the Law, Princeton University Press, Princeton, 1997), e sostiene che la corretta interpretazione costituzionale abbia carattere costruttivo. Ciò significa considerare la Costituzione come una carta di principi, in cui l'interpretazione ha ad oggetto sia il testo costituzionale, che funge da punto di partenza e di cui deve essere rinvenuto il senso storico-semantico, sia il precedente e la storia costituzionale stessa, che a volte possono avere la meglio sul testo costituzionale stesso, nel tentativo di costruire un'interpretazione volta a cogliere il senso dell'integrità della stessa Costituzione (p. 132,140). Il giurista americano distingue tra due forme peculiari di originalismo: da un lato, l'originalismo semantico, il quale sostiene che alle parole del testo costituzionale deve essere attribuito il significato che i framers che hanno promulgato il testo intendevano attribuirgli; dall'altro l'originalismo di aspettativa o di intenzione politica, che fa riferimento a ciò che gli estensori si aspettavano di realizzare nel dire ciò che dissero. Dworkin ritiene che l'originalismo semantico sia inattaccabile, mentre critica quello di aspettativa, in quanto ritiene che se gli estensori della Costituzione hanno inteso fissare degli standard morali astratti, allora siamo fedeli a ciò che intendevano dire solo se riteniamo che abbiano dichiarato che la legislazione dovesse essere individuata in relazione alla giustizia stessa (p. 34). Il giurista americano sostiene che il giudice Antonin Scalia (che rivendica la posizione di originalista semantico) appartenga in realtà all'approccio originalista di aspettativa (pp. 34, 136-137). Dworkin si propone inoltre di individuare tre virtù che potrebbero avere la meglio sul valore della fedeltà al testo costituzionale, e le distingue: 1) nella giustizia; 2) nella democrazia; 3) nel pragmatismo giuridico. Per quanto concerne il punto sub 1), il giurista americano è del parere che la Costituzione potrebbe essere così ingiusta da annullare la fedeltà ad essa (p. 145). In merito al punto sub 2), egli osserva che, secondo la concezione della democrazia maggioritaria, in una democrazia genuina il popolo e non i giudici federali dovrebbero decidere da sé questioni fondamentali di morale politica (pp. 145, 161). Quindi, secondo tale concezione, la revisione giudiziaria che dà ai giudici il potere di mettere da parte i giudizi di morale politica approvati da una maggioranza è da considerarsi antidemocratica. Dworkin, pertanto, propone la differente concezione della "democrazia partecipata" , intesa come partecipazione di tutte le persone ad un autogoverno, in virtù del quale agiscono insieme come membri di uguale importanza di una comune impresa cooperativa. Secondo tale concezione della democrazia, la regola della maggioranza è democratica solo se vengono garantite le condizioni di uguale partecipazione (pp. 145-146), qualificata come: a) opportunità, garantita dal I° emendamento, per tutti i cittadini di svolgere una parte uguale nella vita politica (diritto di voto e diritto di espressione nelle deliberazioni pubbliche formali e negli scambi morali informali); b) uguale partecipazione nel governo da parte degli individui, garantita dalla clausola di equal protection, nel senso che gli interessi di ognuno vanno presi in considerazione allo stesso modo nella determinazione dell'interesse collettivo; c) garanzia della libertà religiosa, espressa, nel I° emendamento, e garanzia di indipendenza nelle fondamentali scelte etiche, contenuta nella clausola del due process, che garantisce il riconoscimento di una sfera privata in cui le persone sono libere di prendere da sé la maggior parte delle decisioni etiche e religiose, di cui rispondono alla loro coscienza e al loro giudizio, e non a quello della maggioranza (p. 146). Se si accetta la concezione dworkiniana della democrazia partecipata, la revisione giudiziaria risulta coerente con la democrazia stessa, e quindi i giudici possono con competenza interpretare le clausole morali astratte della Costituzione, in quanto tale competenza è conferita loro dall'organizzazione di governo (p. 146). Per quanto concerne, infine, il punto sub 3), sostenuto dal realismo giuridico americano, i giudici si dovrebbero concentrare sui casi particolari, adottando il criterio analogico piuttosto che il riferimento ai principi. Dworkin critica questa interpretazione della Costituzione parafrasando Immanuel Kant, secondo il quale le analogie senza principi sono cieche (pp. 148-150).      

Nel VI capitolo, Il "poscritto" di Hart e il senso della filosofia politica (pp. 153-203), Dworkin riprende la critica, avanzata nell'Introduzione, al positivismo dottrinale o analitico, difeso da Herbert Hart, secondo cui le proposizioni del diritto sono vere soltanto in virtù di fatti sociali (ad esempio la legislazione, le decisioni giudiziarie, i costumi sociali) e che pertanto l'esistenza e il contenuto del diritto può essere identificato solo in tali fatti sociali, prescindendo da qualsiasi riferimento alla morale, eccetto quando il diritto così identificato non abbia esso stesso incorporato un criterio morale per la sua identificazione (pp. 30-31). In particolare, mentre per Dworkin l'argomentazione giuridica è un'argomentazione morale, in virtù della quale i giuristi devono decidere quale insieme di principi in competizione tra loro fornisca la giustificazione migliore (moralmente più vincolante) della prassi giuridica nel suo complesso, secondo Hart, l'argomentazione giuridica ha carattere normativo solo e solamente quando le fonti sociali rendono gli standard morali parte del diritto (p. 158). Pertanto, mentre per la filosofia politica di Dworkin i concetti politici di giustizia, libertà ed eguaglianza, democrazia, hanno carattere normativo e valutativo, e tendono, nell'unità di valori platonica, all'integrità (p. 184), secondo Hart e i filosofi politici (che assumono un punto di vista critico) denominati da Dworkin "archimedei", i principali valori politici sono politicamente neutrali (p. 163). Per quando concerne, infine, i diversi stadi di cui si compone una teoria giuridica, individuati da Dworkin nell'Introduzione di questo libro, è possibile rilevare come i positivisti dottrinali analitici si fondino sull'"assillo semantico" in virtù del quale il concetto dottrinale di diritto non è un concetto interpretativo (la chiarificazione del quale richiederebbe un approfondimento di questioni di morale politica, e quindi una connessione a questioni di morale politica), ma bensì un concetto descrittivo o criteriale, in cui la morale o la politica non assumono alcun ruolo, e dipende da una prassi linguistica convergente, che delimita l'estensione del concetto attraverso criteri di applicazione condivisi, oppure lega il concetto a un genere naturale distinto (p. 154). Dworkin, in quest'opera, si occupa marginalmente anche dei tratti caratteristici di altre due versioni di positivismo, meno rilevanti dal punto di vista filosofico rispetto a quello dottrinale: a) il positivismo sociologico, che sostiene che i test morali non figurano tra i test appropriati per distinguere il diritto da altre forme di organizzazione sociale e politica; b) il positivismo tassonomico, che sostiene che i principi morali e i principi giuridici sono distinti e quindi il diritto non include alcun principio morale (p. 31); c) il positivismo politico, sostenuto da Holmes, Learned Hand e oggi da Liam Murphy, che, oltre ad avere rilevanza filosofica, possiede altresì una rilevanza pratica, al pari del pragmatismo giuridico e della concezione dell'integrità del diritto stesso sostenuta da Dworkin, in quanto affronta il problema di come gli interpreti dovrebbero decidere i casi loro sottoposti, sostenendo che ciò che i giudici dovrebbero fare è largamente deciso dalle proposizioni vere del diritto e si richiamano, come fa Dworkin, alla morale politica per giustificare le loro concezioni sulle condizioni di verità delle proposizioni del diritto (p. 31).

Nel VII capitolo, Trent'anni dopo (pp. 204-242), il giurista americano analizza la concezione del diritto fornita da Jules Coleman, in virtù della quale il fenomeno giuridico di una comunità consiste solo in quello che i suoi legislatori hanno dichiarato esser tale, cosicché è un errore supporre che una forza o un'agenzia non-positive - ad esempio la verità morale oggettiva, Dio, lo spirito di un'epoca, la volontà diffusa del popolo, o il corso della storia - possa essere una fonte del diritto a meno che i legislatori non l'abbiano dichiarata tale (p. 204). Coleman distingue tra due versioni di positivismo giuridico: a) il positivismo dottrinale analitico o positivismo esclusivo (da Dworkin definito un dogma tolemaico), il cui maggiore sostenitore è Joseph Raz, in base al quale ciò che il diritto richiede o proibisce non può mai dipendere da un test di carattere morale (pp. 216-230); b) il positivismo inclusivo, secondo cui il diritto può contenere criteri morali di validità, e pertanto i criteri morali possono figurare nei test per l'identificazione del diritto valido, ma solo se la comunità giuridica ha adottato una convenzione che lo stabilisce (pp. 205-216). Coleman appoggia questa seconda forma di giuspositivismo, à la Hart, e si pone in posizione critica nei confronti sia del positivismo esclusivo, che dell'interpretazione non-positivistica del diritto proposta da Dworkin (G. Coleman, The Practice of Principle: In Defense of a Pragmatist Approach to Legal Theory, Oxford University Press, Oxford, 2001).

Nell'VIII capitolo, I concetti di diritto (pp. 243-261) l'unico saggio inedito della presente raccolta, il filosofo americano analizza la "fallacia di Dworkin" individuata da Michael Stephen Green, secondo il quale essa consiste nell'usare la teoria interpretativa del significato per giustificare una teoria interpretativa del diritto. Green distingue tra due concezioni relative ai concetti di oro, acqua e tigre: a) una concezione, definita tradizionalista, che tratta questi concetti come criteriali b) una concezione realista, che tratta questi concetti come concetti di tipo naturale. Green sostiene che Dworkin adotti una concezione realista, e quindi accolga una concezione del concetto dottrinale di diritto di tipo naturale. In realtà Dworkin rifiuta sia una concezione criteriale sia una naturale del concetto dottrinale di diritto (p. 247).

Infine, nel IX capitolo, Rawls e il diritto (pp. 262-283), Dworkin si sofferma sul pensiero filosofico-giuridico di John Ralws, e in particolare sulla dottrina della ragione pubblica, riguardante gli argomenti che i funzionari pubblici, e in particolar modo i giudici, possono usare in modo appropriato per giustificare le loro decisioni (p. 264). Tale dottrina si rifà all'idea di reciprocità, nel senso che permette soltanto quelle giustificazioni che tutti i membri ragionevoli della comunità politica possono accettare in modo ragionevole. Pertanto, la ragion pubblica richiede ai funzionari di offrire giustificazioni che sono basate sui valori politici della comunità e non su dottrine comprensive religiose, morali o filosofiche (p. 274). Particolarmente interessante è la confessione di Dworkin, circa una certa congruenza tra le sue posizioni e quelle sostenute da Rawls nella sua teoria giuridica. Si pensi alla teoria dworkiniana della giustizia distributiva, che rappresenta un chiaro tentativo di rimuovere alcune delle insufficienze della teoria di Rawls, e di cui il filosofo americano ha ampiamente discusso nell'opera, precedente alla presente, Sovereign Virtue: The Theory and Practice of Equality (Virtù sovrana. Teoria dell'uguaglianza, Feltrinelli, Milano, 2002), ma evidentemente non a sufficienza, in quanto è lo stesso Dworkin ad affermare, alla fine del presente saggio che [...] Dopo tutti i libri, tutte le note a piè pagina, tutte le meravigliose discussioni, stiamo solo cominciando a capire quanto dobbiamo imparare da quell'uomo. (p. 283).

Alessandra Callegari