2005

A. d'Orsi, Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Carocci, Roma 2003, pp. 300, ISBN 88-430-2555-4

Di fronte ad un oggetto la cui comprensibilità risulta ancora ostacolata da categorie ormai divenute classiche, il libro curato da d'Orsi tenta correttamente un approccio multidisciplinare. Storici, politologi, economisti, giuristi, sociologi, specialisti di comunicazione ed esperti di tecnologia affrontano dalle loro specifiche angolature e con prospettive diverse il fenomeno delle guerre contemporanee. Poiché, ovviamente, nello spazio di una recensione non è possibile dare conto di tutti i contributi, ci limiteremo a seguire il file rouge sotteso alla novità, terminologica e concettuale, delle "nuove guerre".

Il volume, che raccoglie i diversi contributi presentati in un seminario dell'Associazione Historia Magistra tenutosi nel 2002, ruota attorno alla domanda: «Le guerre del XXI secolo sono 'nuove'?» (p. 11). E, come accennavamo, è proprio questo contenuto di novità l'elemento più difficilmente afferrabile, tanto da rendere nient'affatto pleonastica quella domanda. È abbastanza facile una determinazione ex negativo delle nuove guerre a partire dalla crisi delle distinzioni classiche del diritto internazionale: civili/militari, interno/esterno, guerra/pace. Alla crisi di queste coppie concettuali possiamo aggiungere la commistione di fattispecie giuridiche diverse, che porta ad una criminalizzazione del nemico, il quale da un lato cessa di poter essere considerato justus hostis, e dall'altro, come conseguenza, opera una trasformazione della guerra, che apparentemente acquista i caratteri del bellum justum, configurandosi come operazione di polizia internazionale. Sembra quindi che la crisi della sovranità statuale stia trascinando con sé l'intero orizzonte della concettualità politica moderna, rendendo arduo ogni lavoro teorico di ricognizione e, al tempo stesso, aprendo scenari nei quali tutto sembra essere divenuto possibile. Non solo le categorie di cui disponiamo sembrano non fare presa sul nuovo oggetto concettuale - generando una proliferazione di denominazioni: «guerra della terza ondata», «della quarta epoca», «della sesta generazione», «postmoderna» o anche cyberwar, netwar, softwar, CNN-war (p. 65) -, ma, nella misura in cui quelle categorie orientano anche il nostro agire, l'odierna prassi bellica pare dar luogo a conseguenze totalmente impreviste e, quindi, all'ulteriore aggravamento di quella crisi.

Luigi Bonanate ben sottolinea l'inconsistenza tecnica della formula «guerra globale al terrorismo» (p. 23), mettendo in evidenza l'incommensurabilità logica tra guerra e terrorismo. Quest'ultimo sfugge infatti alle caratteristiche essenziali della guerra: se la guerra richiede un nemico preciso e identificabile, il terrorismo è non solo non-identificabile e imprevedibile, ma lo sono anche i suoi obiettivi; se la guerra necessita di una base tellurica o quanto meno di uno spazio determinabile, il terrorismo agisce in una dimensione essenzialmente de-territorializzata; se la guerra ha un suo punto finale, «la vittoria o la sconfitta dichiarati sul territorio o di fronte al tavolo della pace», il terrorismo lascia indeterminato il termine, dal momento che nessuno può sapere se e quando esso colpirà (pp. 23-4). Ripercorrendo l'analisi di Bonanate emerge che una risposta vecchia - la guerra - a una sfida nuova - il terrorismo internazionale - dà luogo a «reazioni incoerenti, come la guerra contro l'Afghanistan, rafforzando l'impressione che in gioco sia la sopravvivenza di questa o quella civiltà, la cui dinamica storica tuttavia non obbedisce alle leggi della guerra ma a quelle del suo radicamento» (p. 30). Aggiunge inoltre Bonanate che «è francamente ridicolo il progetto di eliminare la civiltà occidentale con una serie di attentati, tanto quanto lo è il disegno di una "guerra (difensiva) di civiltà" che ricacci l'Islam nell'oscurantismo» (p. 31). Per non dare luogo a «reazioni incoerenti», che rischiano tra l'altro di attivare proprio ciò contro cui intendono combattere, si deve, come suggerisce ancora Bonanate, abbandonare «un modo vecchio di concepire la politica (specie quella internazionale), costruita non soltanto sul riduttivo schematismo "amico-nemico", ma anche sui principi della politica di potenza, [...] ora inattuale e inattualizzabile perché comunque le sedi della politica non sono più le esclusive e misteriose Cancellerie di questa o quella grande potenza» (p. 31).

A questa altezza ritorna il problema di come definire, terminologicamente e concettualmente, il nuovo tipo di conflittualità che oggi esplode a livello globale. Queste guerre di «terzo genere», come le definisce Holsti (The State, War and the State of War, Cambridge, 1996) riprendendo un'espressione coniata da Edward Rice che così le definisce in quanto «successive alle guerre limitate dell'ancien régime e alle guerre totali dell'età contemporanea» (p. 58), hanno certamente a che fare con un indebolimento della sovranità statuale. È però chiaro che oggi è assolutamente inattuale voltarsi verso il passato e rimpiangere romanticamente lo scenario westfaliano. Come ricorda Valter Coralluzzo nella sua rassegna Nuovi nomi per nuove guerre, è definitivamente venuta meno l'idea della guerra combattuta in modo diviso per aree territoriali poste sotto l'autorità di governi che detengono il monopolio della forza. Inoltre la facilità di accedere a conoscenze, tecnologie e risorse finanziarie ha abbassato «la soglia d'accesso all'universo della guerra [...] fino a farvi rientrare gruppi privati, "signori della guerra", bande criminali, organizzazioni non governative e networks transnazionali (come Al-Qaeda), specializzati nell'uso della violenza e annidati là dove il sistema internazionale sprigiona le più forti tensioni politiche, economiche, sociali, culturali, etniche, religiose e demografiche» (p. 57). L'accesso al mercato delle armi e della tecnologia bellica, che i vari warlords possono procacciarsi con relativa facilità nei supermercati bellici dell'odierno traffico internazionale di armi, dà insomma luogo ad una privatizzazione della guerra, che erode il monopolio statale della forza.

Massimiliano Tomba