2005

J. Habermas, L'Occidente diviso, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 214, ISBN 88-420-7495-0

Dopo la riconferma di Bush jr. a presidente degli Stati Uniti e, soprattutto, dopo il suo viaggio europeo di riconciliazione, gli ultimi scritti di Jürgen Habermas potrebbero sembrare superati dagli eventi. Pervaso dall'auspicio (disatteso) di un nuovo governo alla Casa Bianca e incentrato sul dissenso (diplomaticamente sepolto) tra Stati Uniti e 'Vecchia Europa' in merito alla guerra in Iraq, l'Occidente diviso non è per questo meno attuale, al contrario. Il perdurante conflitto nel paese dei due fiumi è solo la manifestazione più drammatica di contraddizioni ancora da sciogliere, le cui radici affondano in gran parte nell'attacco preventivo al regime di Saddam Hussein e nella crisi di civiltà che esso rappresenta. A queste contraddizioni deve pensare l'autore quando, contro la "virtù normativa del fattuale" (p. 6) o l'invito ad "adattare il diritto internazionale a nuovi rischi" (p. 145), sollecita un'aperta controversia sul futuro del diritto internazionale e sul suo nucleo centrale: il divieto assoluto di minaccia o uso della forza previsto dalla Carta delle Nazioni Unite.

Non è la prima volta che il filosofo tedesco affronta questi temi: dalla prima alla seconda guerra del Golfo, passando per il Kosovo e l'Afghanistan, la sua è stata tra le voci più ascoltate (e criticate) nei dibattiti su pace e guerra nel mondo unipolare. Ci sono però buone ragioni per leggere l'Occidente diviso come un punto di discontinuità nella riflessione fin qui svolta da Habermas: il suo approccio non è più in linea con l'idea di un ritorno della guerra, dopo il 1989, in nome di una politica dei diritti umani da condurre oltre e persino contro gli stati. Com'è noto, in tale politica il filosofo vedeva concretizzarsi l'intuizione kantiana di un 'diritto dei cittadini del mondo' ovvero di un 'diritto cosmopolitico'. Tale svolta interesserebbe una ristretta cerchia di studiosi se non costituisse, al tempo stesso, la comprensibile reazione teorica al rivoluzionamento in corso nelle relazioni internazionali e non conducesse all'(auto)critica del pacifismo giuridico, cui lo stesso Habermas si è sempre allineato.

Scritti tra l'aprile 2003 e il settembre 2004, i sette testi di cui si compone l'edizione italiana differiscono molto per forma, lunghezza, livello dell'analisi, temi di volta in volta in primo piano. Mentre i primi sei affrontano singoli aspetti dell'attuale situazione a partire da altrettanti eventi emblematici (l'ingresso delle truppe statunitensi a Baghdad, la manifestazione per la pace del 15 febbraio 2004, la firma della Trattato costituzionale europeo), l'ultimo si sforza di delineare un quadro concettuale complessivo. Dalla loro lettura è possibile estrarre tre tesi fondamentali, liberamente riformulabili come segue:

  1. il progetto kantiano di una "giuridificazione delle relazioni internazionali" (p. 108), avviato con la rinuncia degli stati allo jus ad bellum, il potenziamento delle Nazioni Unite e la positivizzazione dei diritti umani, è messo in crisi dalla "pretesa imperiale" (p. 15) dell'amministrazione statunitense;
  2. innescando la crisi del pacifismo giuridico, tale pretesa ha potuto dividere l'Occidente anche perché la via della pace attraverso il diritto non è univoca o lineare ma ambivalente, e come tale bisognosa di (auto)critica;
  3. il progetto cosmopolitico avrà una seconda opportunità solo sotto forma di una costituzionalizzazione liberale e pluralistica del diritto internazionale, di cui l'Europa si faccia carico anche "contro progetti concorrenti" (p. 24) di ordine mondiale.

Al termine di questa ricostruzione, che deve molto ai dibattiti sulla Costituzione e sull'identità politica europea, la posizione di Habermas non sembra più riconducibile tout court al pacifismo giuridico dei Western globalists e di quanti rileggono Kant attraverso Kelsen. Le tesi contenute ne l'Occidente diviso appaiono piuttosto come una variante critica di questo modello, maturata alla luce delle "nuove guerre" e della spirale in cui la guerra preventiva s'intreccia al terrorismo globale. Su questo terreno l'autore abbozza anche una meta-critica delle visioni alternative in tema di ordine mondiale. Confidando nelle resistenze diffuse ad un potere di sfruttamento decentrato e onnipresente molto più che nella "caparbietà normativa dello strumento giuridico" (p. 190) e nel suo potenziale critico, la visione post-marxista (o negriana) di Impero è letta da Habermas come pendant capovolto della visione neo-liberale di una società-mercato, in cui le libertà negative sostituiscono senza residui e dunque in modo contraddittorio l'autonomia dei cittadini rispetto alle regole del gioco. Distinta da entrambe queste visioni, la prospettiva neo-schmittiana non crede alla possibilità di un cosmopolitismo critico: restando scettica sulla "possibilità di un'intesa interculturale circa interpretazioni dei diritti umani e della democrazia capaci di adesione universale" (p. 197), essa individua piuttosto in un ordinamento per "grandi spazi" l'unico antidoto alla "moralizzazione della guerra" promossa dalla potenza imperiale.

Obiettivo polemico del volume resta comunque la dottrina rivoluzionaria promossa dall'amministrazione Bush nel clima di terrore suscitato dall'11 settembre. L'auto-investitura morale di una super-potenza che identifica la sicurezza, sua e del mondo, con l'affermazione dei propri valori mette in crisi il progetto kantiano almeno sotto due aspetti. Innanzitutto a livello di principi, perché nella visione di una pax americana il diritto non funge più da "potere morbido di civilizzazione" (p. 98), ma rischia piuttosto di essere sostituito con un'etica nazionale universalmente valida, come tale esentata dal giustificare il ricorso preventivo alle armi (per difendersi da attacchi futuri o abbattere 'regimi tirannici') o dal sottomettersi ai trattati internazionali (dal Protocollo di Kyoto al Trattato ABM, dalle Convenzioni di Ginevra allo statuto della Corte Penale Internazionale). In secondo luogo perché, con la vicinanza letterale di certi argomenti, il "falso universalismo" (p. 94) dell'ethos americano getta discredito sull'autocomprensione universalistica dei diritti umani propria del cosmopolitismo, così come sulla desiderabilità (ma non la meccanica esportabilità) di una cultura politica liberal-democratica anche in contesti non occidentali.

Habermas, che nel suo saggio del 1995 sulla Pace perpetua aveva assunto le tradizionali argomentazioni del cosmopolitismo, è costretto adesso ad affrontarne le aporie. In primo luogo la domestic analogy, che identifica la pace con la costituzione di una repubblica mondiale cui gli stati cederebbero il diritto all'uso della forza, così come gli individui lo cedono agli organi dello stato. La vicinanza tra quest'esito e la strategia degli Stati Uniti suggerisce piuttosto al filosofo l'idea di "una politica interna del mondo senza governo mondiale" (p. 131), incentrata sull'auto-limitazione degli stati nell'uso della forza esterna. Indotta dall'immagine liberale di sé fatta propria dagli stati dopo il 1945, oltre che dalla pressione di sfere pubbliche contrarie alla guerra, tale "costituzionalizzazione del diritto internazionale" (p. 137) non richiede uno stato mondiale in cui le nazioni annullino la loro sovranità. Il fatto di includere tra i propri soggetti anche gli individui oltre agli stati consente, invece, al diritto cosmopolitico di garantire la pace dissolvendo ex parte populi il diritto sovrano di muovere guerra. Il ripudio della forza aggressiva entra così a pieno titolo nel patto civile che gli stati costituzionali stipulano con i loro cittadini, e indirettamente con gli altri stati. Allo stesso modo, le vicende degli anni Novanta e del nuovo secolo costringono l'autore a ridimensionare le tendenze storiche favorevoli all'affermazione del diritto cosmopolitico, già indicate da Kant: occorre fare i conti col fatto che le democrazie non sono affatto pacifiche, che lo sviluppo globale dei mercati non elimina i conflitti ma può alimentarli e che la sfera pubblica mondiale, se esiste, è assai manipolabile.

Su questa base Habermas corregge, almeno in parte, il suo precedente pacifismo giuridico o, come suggerisce maliziosamente un intervistatore, il suo "umanesimo militare" (p. 96). L'idea di un governo mondiale accentrato lascia il posto ad una struttura decentrata e multilivello: più i poteri si allontanano dal livello nazionale, fonte insostituibile di legittimazione e controllo democratico, più devono essere limitati e ben definiti nei loro compiti. Il livello sopranazionale di governo, ad esempio, deve avere come unica competenza la tutela della pace e dei diritti umani: esso può contare al massimo su una legittimazione debole fondata su "doveri negativi" (p. 139), come quello di desistere da guerre d'aggressione e da crimini contro l'umanità. La riaffermazione di questo nucleo di norme offre all'Unione Europea un'eccellente occasione per parlare con una sola voce in politica estera. Tale riaffermazione tuttavia non può avvenire contro, ma con il ritrovato consenso degli Stati Uniti: in una situazione in cui altre potenze regionali (come la Cina, l'India o lo stesso mondo arabo) si affacciano sulla scena internazionale, Habermas giudica l'adesione a queste regole una scelta razionale proprio per Washington, almeno quanto la dottrina della guerra preventiva ha offerto, viceversa, "un micidiale precedente alle superpotenze future" (p. 8). Come di fatto sarà possibile riguadagnare gli Stati Uniti all'internazionalismo, l'autore non lo dice: il complesso economico-militare e strategico con cui la super-potenza cerca di gestire la globalizzazione neo-liberista e le sue crisi, andrebbe forse decostruito con strumenti più specificamente politici rispetto a quelli scelti da Habermas.

Il piano scelto dal filosofo per le sue proposte d'azione resta quello istituzionale. Senza una riforma del Consiglio di Sicurezza, che ne accresca la rappresentatività continentale e l'autonoma capacità d'azione, il richiamo alle Nazioni Unite suonerà sempre più vuoto: occorrerà dunque rivedere composizione e procedure decisionali del massimo organo, sottomettendo i suoi interventi a regole obbligatorie che evitino la selettività e sostenendo le sue risoluzioni con contingenti messi a disposizione dagli stati. Analogamente, la contiguità tra guerre legali ed azioni penali dovrà evitare i cortocircuiti tra la criminalizzazione dei nemici esterni e la militarizzazione della vita interna, introducendo nuove regole di diritto umanitario analoghe a quelle che nel diritto interno limitano l'azione delle polizie: l'idea della guerra come sanzione collettiva sembra con ciò rifiutata, a vantaggio di una globalizzazione della rule of law più che di un globalismo giudiziario vendicativo.

Ma la sola riforma delle Nazioni Unite non è sufficiente. Il livello sopranazionale dovrà essere accompagnato da un livello intermedio di governo costituito da regimi continentali cui, sul modello dell'Unione Europea, gli stati nazionali attribuiscono competenze nei campi dell'economia, della finanza o della tutela dell'ambientale, sempre meno gestibili senza coordinamento transnazionale. Stupisce però che tra gli esempi di questo livello intermedio, per Habermas "vero elemento utopico di una condizione cosmopolitica" (p. 101), venga menzionata senza ulteriori commenti l'Organizzazione Mondiale del Commercio, che nella sua breve storia non si è certo distinta per trasparenza decisionale, autentico mutlilateralismo e promozione dei diritti umani. Così come sorprende che l'Unione Europea sia assunta senz'altro a modello di governance continentale, quando la sua posizione in materia di pace e di guerra resta incerta e le sue politiche di sviluppo fanno fatica a conciliare il riconoscimento dei diritti sociali con una doxa neo-liberista dedita a privatizzare i servizi collettivi, a ridurre il costo del lavoro, a controllare la spesa sociale. Anche se l'autore si schernisce, confessando i limiti della sua competenza in questi campi, simili 'omissioni' rischiano di indebolire un'argomentazione per il resto molto serrata.

Federico Oliveri