2005

M. Deriu, Dizionario critico delle nuove guerre, con la collaborazione di Aloisi Tosolini e Daniele Barbieri, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2005, pp. 507, ISBN 88-307-1399-6

Che gli Stati Uniti coprano quasi la metà della spesa mondiale in armamenti è abbastanza noto. Ma forse non tutti sanno che l'Italia occupa il settimo posto nella classifica per la spesa militare complessiva, staccando di ben quattro lunghezze una superpotenza nucleare come la Russia. In termini relativi l'Italia si fa ancor più onore: 362 dollari per abitante (equivalenti 2000) sono molto meno dei 1419 degli USA o dei 1551 di Israele; ma sono superati solo dalla spesa pro-capite di Arabia Saudita, Regno Unito, Francia e Giappone. La spesa militare globale, che si era ridotta fra il 1987 e il 1998 ed era aumentata moderatamente fino al 2001, ha subito un'impennata - a partire dagli USA - dopo l'11 settembre. Peraltro, nell'ultimo decennio il numero di attentati terroristici internazionali è in diminuzione e la maggior parte degli attentati contro obiettivi USA non ha matrice islamica o mediorientale, ma avviene in America Latina. Tra le regioni italiane la Toscana ospita la maggioranza dei militari statunitensi stanziati in Italia: su 15.500 militari ben 11.000 si trovano a Camp Darby (Livorno). A tutti dovrebbe interessare sapere che la rete di sorveglianza Echelon può controllare l'intero flusso globale delle comunicazioni mobili, oltre ad intercettare le informazioni via satellite e attraverso i cavi sottomarini. E anche che, secondo alcune fonti, lo sfruttamento sessuale dei bambini rifugiati è una pratica abbastanza diffusa fra i Caschi blu e gli operatori umanitari delle Ong e delle Nazioni Unite.

Anche certe vicende storiche non sono così universalmente note. Ad esempio, forse non tutti sanno che la IBM dette un contributo essenziale alla 'soluzione finale' attraverso la fornitura di un nuovo sistema di schede perforate per la gestione della deportazione e della permanenza nei lager; il numero tatuato sul braccio non era altro che il numero della scheda IBM. Oppure che il campo di concentramento è stato inventato dagli spagnoli a Cuba nel 1896, e che i primi campi di quello che diventerà il Gulag sovietico sono stati istituiti da Trotzkij e da Lenin. Per venire a vicende più recenti, si può ricordare che lo stupro delle donne è stato praticato da entrambe le parti nel corso della seconda guerra mondiale (nel caso dei soldati USA e sovietici sia verso le popolazioni 'nemiche' che verso quelle alleate o compatriote). E si calcola che gli esperimenti nucleari nel Nevada, a partire dal progetto Manhattan, abbiano provocato 15.000 morti per cancro mentre in generale la corsa all'armamento atomico ha causato nel mondo circa mezzo milione di vittime.

Fornire una grande massa di informazioni come queste, non sempre facilmente reperibili è uno dei grandi meriti del volume di Deriu. Che comunque, a dispetto del titolo e dell'organizzazione in lemmi, non è un dizionario, se per dizionario si intende un'opera essenzialmente informativa, caratterizzata da un approccio che cerca di escludere, o di nascondere il più possibile, la valutazione ed il giudizio dell'autore. Al contrario, il volume è un tentativo di interpretare le vicende ed i processi della contemporanea società globale nella loro interconnessione con la guerra, restituendone la complessità e l'articolazione sulla base di un preciso inquadramento teorico, di determinati principi normativi e di una chiara istanza critica. Lo stesso Deriu presenta l'opera come "un ipertesto, in cui ogni voce rimanda ad altre in un intreccio di significati che può essere costruito da diversi punti di vista a seconda anche dell'interesse del lettore" (p. 9), come un lavoro "eminentemente 'sovversivo', perché intende minare nelle fondamenta la visione dominante, standard, delle relazioni internazionali" (p. 25).

Deriu, peraltro, muove da una tesi valutativa 'forte': la guerra rappresenta un 'fenomeno sociale totale', secondo la definizione di Marcel Mauss, e la sua logica ha "sempre più 'irretito' l'intera realtà sociale in tutte le sue dimensioni e articolazioni" (p. 14). In altri termini, la guerra non rappresenta un 'altro', un 'male assoluto', il demoniaco effetto dell'azione di una piccola minoranza di potenti. La nuova condizione di guerra endemica può essere piuttosto compresa radicalizzando il concetto arendtiano di 'banalità del male'. Di conseguenza nella società contemporanea non solo "tutto viene pian piano 'impregnato' e riplasmato attraverso le logiche della guerra", ma "non è possibile distinguere chiaramente la pace dalla guerra" (p. 16). Ne consegue che "Ognuno porta inconsapevolmente il suo piccolo contributo alla logica della guerra" (p. 24). La 'banalità economica del male' (p. 68) di cui parla Serge Latouche coinvolge le ONG assorbite nella logica perversa degli 'aiuti umanitari' così come il bambino che si diverte con i videogiochi, se è vero che per accaparrare il coltan utilizzato nei microcondensatori della sua Playstation si è scatenata la guerra del Congo. Dunque "la guerra è profondamente intrecciata con la nostra normalità e [...] senza rendercene conto la maggioranza di noi partecipa più o meno inconsapevolmente e più o meno indirettamente a questa realtà" (p. 23). Se la guerra contemporanea ha "diramazioni quasi in ogni elemento della società e del pianeta" (p. 455), il linguaggio e l'immaginario ne sono profondamente contaminati; di più: "la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell'immaginario" (p. 11). Non c'è scampo per nessuno: né per i teorici dell'"Occidente contro se stesso" e dell'"Occidente diviso" né per le figure più amate dal movimento pacifista, dai teorici dei diritti come Ferrajoli ai critici radicali della superpotenza come Chomsky e Pilger. La struttura ipertestuale del dizionario è dunque funzionale all'obiettivo di portare alla luce il gioco complesso di rimandi "tra i tanti aspetti del rapporto tra guerra, mondo contemporaneo e realtà in cui viviamo" (p. 17). E permette di tentare di colmare qualcosa del "grande vuoto delle scienze sociali nel dibattito sulla guerra" (p. 12). Di fronte alla colossale 'colonizzazione del linguaggio' solo l'elaborazione di un 'lessico critico' rende possibile cominciare a 'disarmare il linguaggio'.

Su questa via occorre in primo luogo aumentare "la consapevolezza degli angoli oscuri del proprio universo materiale e simbolico" (p. 19) che porta alla "rimozione del senso della 'differenza', ovvero della possibilità che gli altri possano vedere o desiderare le cose diversamente da noi" (p. 19). Alla radice della negazione dell'alterità c'è per Deriu un "vero e proprio fondamentalismo culturale e politico che fa a meno del confronto con l'altro e allo stesso tempo pretende di sapere in vece dell'altro cosa è meglio per tutti, e in nome di questa presunzione bandisce ogni espressione di una reale differenza. In altre parole, non si tratta tanto di accusare i governi o le potenze occidentali di nascondere interessi di potere dietro principi sacrosanti, ma al contrario di sottolineare la continuità tra assolutismo morale, etnocentrismo culturale e imperialismo politico-economico. Si tratta dunque di evidenziare il continuum che lega - anziché opporre - coloro che in totale buona fede difendono i 'sacrosanti principi occidentali' per via pacifica o antagonistica e coloro che in base a quegli stessi principi giustificano le guerre" (p. 19). È insomma la stessa affermazione di valori assoluti (giustizia 'infinita', diritti 'universali', democrazia) a finire per giustificare l'uso della forza per salvaguardarli o diffonderli.

Su questa linea sono particolarmente interessanti voci come "Aiuti umanitari", che segnala come essi siano di fatto gestiti dagli attori della guerra, fino a divenire l'interfaccia della guerra umanitaria o della guerra tout court ("la filosofia umanitaria ha prodotto una confusione e un cortocircuito logico tra tutela dei diritti umani, diritto di assistenza e soccorso, diritto di ingerenza umanitaria, dovere di intervento, guerra giusta. Nei fatti, dagli aiuti si è arrivati a giustificare la guerra umanitaria" [p. 32]). E si veda la voce "Diritti umani", incentrata sulla critica dell'universalismo e del conseguente fondamentalismo, alla luce del riconoscimento di come "nelle diverse tradizioni culturali ci siano differenti approcci nei confronti dei valori fondamentali" (p. 157). E dunque "anche laddove si scoprisse l'esistenza di un certo numero di intuizioni etiche in comune tra le diverse culture, quello che differenzia una tradizione dall'altra è la grammatica attraverso cui si mette insieme e fa parlare i singoli termini, secondo uno stile e un carattere espressivo che le è proprio" (p. 158). Ciò mette in questione il fondamento assoluto e universale dei diritti umani, ma va peraltro letto in relazione all'idea che "non ci sono confini culturali tracciati e netti, le configurazioni culturali cui ci riferiamo [...] vanno intese come rappresentazioni convenzionali e non come realtà concrete" (p. 346) espressa nella voce "Scontro di civiltà".

Deriu propone senza dubbio una chiave interpretativa originale e stimolante, che spinge a "continuare a pensare". Una sola notazione: se Michael Hardt e Antonio Negri sono stati accusati di leggere in ogni resistenza, in ogni conflitto, in ogni ribellione del pianeta la manifestazione della 'moltitudine', l'affermazione della potenza assoluta della democrazia, la costruzione del 'controImpero', a Deriu si potrebbe imputare l'atteggiamento opposto. Di fronte al rischio di cadere nell'impotenza della disperazione - Günther Anders è, significativamente, uno dei suoi autori - Deriu sembra oscillare fra una forma di paradossale illuminismo e un appello alla conversione etica. Da un lato la sua insistenza sulla dimensione simbolica della guerra e sulla necessità di una critica del linguaggio e dell'immaginario sembra affidare ogni speranza ad un processo intellettuale di rischiaramento, ad un processo - cognitivo - di 'disarmo del linguaggio'. Dall'altro lato Deriu auspica un disarmo 'economico', 'tecnico-scientifico', 'culturale', 'ecologico' che si fonda su una cambiamento delle dinamiche relazionali: occorre 'rinunciare al controllo', promuovere una conoscenza accurata di noi stessi e delle nostre alterità, ascoltare le esperienze dell'altro, praticare l'ospitalità. Nella scia della tradizione gandhiana, Deriu segnala la profondità delle radici antropologiche del fenomeno sociale della guerra e la profondità dei cambiamenti necessari per metterne in questione la logica. Ma c'è da chiedersi se non sia altrettanto urgente, nell'epoca della guerra globale e dell'affermazione globale della logica della guerra, l'analisi accurata di quei fenomeni economici, sociali e culturali, di quei conflitti, di quelle sotterranee linee di frattura, l'individuazione degli eventuali soggetti portatori di pratiche economiche, sociali e politiche alternative, da cui ci si può 'realisticamente' aspettare l'avvio di processi di cambiamento. Su tutto questo, davvero, le scienze sociali dimostrano ancora un vuoto di teoria.

Luca Baccelli