2007

G. Del Grande, Mamadou va a morire. La strage di clandestini nel Mediterraneo, Infinito edizioni, Roma 2007, ISBN 978-88-89602-14-0

Negli ultimi dieci anni, anche per l'avvio della partnership euromediterranea, le scienze sociali europee - dalla sociologia, all'antropologia, alla scienza politica - hanno riscoperto il Mediterraneo come oggetto privilegiato di studio, dando vita a un'interessante riflessione sul ruolo che la regione potrebbe svolgere nell'era della globalizzazione. Al confine fra Occidente e Oriente, essa è teatro di conflitti sanguinari ma è anche un importante crocevia di popoli e culture. Secondo alcuni, il Mediterraneo potrebbe persino divenire un laboratorio per la costruzione di un'alternativa geopolitica all'unilateralismo statunitense (Cfr. F. Cassano, D. Zolo, a cura di, L'alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano 2007).

Negli stessi anni in cui si è sviluppata questa riflessione, il mare nostrum si è però progressivamente trasformato da mare di confine in vera e propria frontiera militarizzata che separa la "fortezza Europa" dai paesi balcanici e africani. Migliaia di persone sono morte tentando di valicarla in direzione Nord e Ovest. Molti sono morti in mare, dopo essersi affidati a vecchi pescherecci e a gommoni improvvisati; altri sono morti tentando di raggiungere queste precarie imbarcazioni o aspettando il proprio turno per salirci sopra. Le vittime dei naufragi avvenuti nel tratto di mare che separa l'Europa dall'Africa del Nord sono migliaia. A queste si devono aggiungere le persone morte nel deserto del Sahara o sulle montagne del Marocco, nei campi e nelle carceri improvvisate in tutto il Maghreb, o nei commissariati di frontiera. Di molte di queste non abbiamo alcuna notizia. Le informazioni di cui disponiamo consentono però di stimare che siano più di 11.000 le vittime delle "migrazioni mediterranee" negli ultimi venti anni.

Dalla fine degli anni Ottanta a oggi almeno 7.519 persone sono annegate nel Mediterraneo e nel tratto dell'Oceano Atlantico che separa le Canarie dalla costa africana. Molte salme non sono mai state recuperate e queste cifre, che è lecito considerare sottostimate, sono calcolate sulla base dei naufragi censiti dalla stampa. Gabriele Del Grande sul sito Fortress Europe ha deciso di tenere il conto delle vittime, compiendo una rassegna delle notizie sulle tragedie dell'immigrazione verso l'Europa che sono state pubblicate da agenzie di stampa e da media di ogni genere dal 1988 a oggi. Si tratta di un archivio prezioso che ci consente ad esempio di sapere che nella sola giornata di ieri, 28 ottobre 2007, a Siracusa è affondato un gommone che trasportava migranti, mentre a Rocella Ionica una nave di venti metri con centocinquanta migranti a bordo si è spezzata in tre arenandosi a duecento metri dalla costa. Nove cadaveri sono stati trovati in mare dopo il naufragio di Siracusa, mentre otto persone risultano disperse. A Rocella Ionica per ora sono solo sette i cadaveri recuperati. Gli oscuri trafiletti che ogni giorno compaiono in fondo alle pagine di alcuni giornali e di alcuni portali internet sono così allineati in una rassegna che restituisce le dimensioni della tragedia in atto nel Mediterraneo.

Del Grande non si è però fermato alla fredda realtà delle cifre. Ha deciso di compiere un viaggio, andando a conoscere i migranti nei luoghi da cui partono le barche verso l'Europa e lo ha documentato in un piccolo prezioso libro, Mamadou va a morire (Infinito, Roma, 2007). Un libro essenziale, nel quale l'autore, senza indulgere a sentimentalismi, dà voce a chi non è riuscito a partire, a chi è partito e tornato più di una volta, a chi ha perso un figlio o un fratello, a chi ha deciso di restare e di convincere altri a non emigrare.

L'autore non compie un'indagine etnografica: si fa coinvolgere dagli incontri con i giovani che cercano di emigrare e interpreta i loro racconti con la sua sensibilità. Mamadou va a morire non è neppure un reportage giornalistico, come quello realizzato recentemente da Fabrizio Gatti che è riuscito a ripercorrere le rotte dell'immigrazione verso l'Italia infiltrandosi fra i migranti in viaggio (Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovo schiavi, Rizzoli, Milano 2007). Qualche notizia in più sui luoghi e sulle persone intervistate da Del Grande sarebbe forse servita a dare più solidità alla sua narrazione. Eppure, è proprio questa semplicità del resoconto ad avvicinarci ai protagonisti. Del Grande raccoglie testimonianze immediate, prive di retorica, quasi sempre ottenute di nascosto, come se la clandestinità fosse una condizione esistenziale che i futuri migranti conoscono già nei loro paesi.

In Senegal, in Marocco, in Tunisia, in Libia, emigrazione è una parola tabù e i passeurs tessono una trama fitta di rapporti illegali. Sono relazioni asimmetriche: i candidati alla emigrazione sono braccati dalla polizia, mentre i passeurs gestiscono i loro traffici indisturbati. Al massimo, le autorità chiedono loro ogni tanto di consegnare alla polizia i loro "clienti", preparando un'imboscata. A Dakar, Casablanca, Melilla, Bamako o Tripoli lo scenario non cambia molto. Mutano le angherie subite dai migranti e le strategie che essi adottano per sopravvivere, ma ovunque si presentano le stesse relazioni di dominio e ovunque i migranti oppongono alle difficoltà la stessa tenacia e la stessa volontà di resistenza.

Le parole che Del Grande raccoglie e i ritratti che disegna dei ragazzi e delle ragazze che tentano di emigrare consentono di avvicinare un'intera generazione di giovani africani disposti a tutto pur di lasciare il proprio paese. L'autore ha venticinque anni e il suo incontro con i coetanei africani demolisce in poche righe la retorica diffusa sullo scontro delle civiltà. I protagonisti sono ventenni immersi nella globalizzazione contemporanea che condividono un ethos individualista, l'idea di doversi affermare, l'aspirazione a rompere la campana di vetro sotto la quale i regimi e le società patriarcali e conservatrici mediterranee e africane tengono le popolazioni. A questi giovani la disoccupazione, la corruzione e l'immobilismo sociale fanno paura più della morte. Scegliendo di emigrare, essi sanno di rischiare la vita. Spesso hanno visto affondare le barche poco dopo la partenza o hanno avuto notizia del naufragio di amici e parenti. Ciononostante, l'Europa è per loro un'attrazione irresistibile, non tanto perché lavorare in Europa consente di arricchirsi, quanto perché emigrare significa scegliere il proprio destino, progettare una vita libera dai vincoli sociali e politici che attanagliano le società africane, essere protagonisti di un cambiamento, lasciare un'esistenza che si considera priva di senso.

Del Grande non trascura le differenze che intercorrono fra le varie realtà africane: le differenti motivazioni che spingono a emigrare gli attivisti politici saharawi e i giovani tunisini e marocchini; il diverso destino che attende i migranti che tentano di colmare una distanza di poche miglia di mare dalla costa europea e quelli che devono prima attraversare il Sahara. Tuttavia, egli tende a mettere in luce alcuni tratti comuni a queste esperienze: la giovane età dei migranti, la loro appartenenza alle classi popolari meno marginali, la voglia di partire che vince ogni paura. Soprattutto, a emergere chiaramente dal racconto di Del Grande sono l'autoritarismo e la violenza dei regimi nordafricani, il disprezzo per i diritti umani, il cinismo feroce dei paesi europei (a proposito dei quali Fortress Europe ha preparato un'altra importante pubblicazione scaricabile dal sito: Fuga da Tripoli. Rapporto sulle condizioni dei migranti di transito in Libia).

I governi europei e la stessa Unione mostrano una indifferenza assoluta nei confronti delle continue tragedie dell'immigrazione. "Il nostro tenore di vita non è negoziabile" ha detto George W. Bush, giustificando la politica statunitense su ambiente e gestione delle risorse energetiche. Anche il tenore di vita europeo non è negoziabile e le migliaia di vittime della "guerra all'immigrazione clandestina" lo testimoniano. Per costruire il nostro benessere servono lavoratori precari che offrano manodopera a basso costo, e non cittadini che rivendicano diritti civili e sociali. La durezza dei percorsi migratori favorisce la selezione di una classe di lavoratori disposti ad accettare qualsiasi condizione. Di fronte a questo brutale sfruttamento poche voci si levano nelle nostre società civili, spaventate dagli "invasori stranieri". Mamadou viene a morire e noi continuiamo a non accorgercene.

Il racconto di Del Grande è asciutto e non ha certo ambizioni letterarie, ma a tratti, leggendo questo libro, ne affiorano alla coscienza altri che hanno segnato la letteratura del Novecento, come Il diario di Anna Frank o il Racconto di Peuw, bambina cambogiana di Molyda Szymusiak. Non intendo paragonare Mamadou va a morire a questi grandi libri, l'analogia sarebbe certamente fuori luogo. E tuttavia, il richiamo inconsapevole a questo tipo di narrazioni sorge nel lettore, perché Del Grande trasmette la sensazione netta di essere di fronte a un genocidio raccontato dalle vittime, un genocidio lento, apparentemente meno cruento di quelli fino a oggi conosciuti, che però, questa volta, si sta innegabilmente compiendo sotto i nostri occhi. Viene da pensare che Mamadou va a morire sia un libro che ogni giovane europeo dovrebbe leggere a scuola, non però fra vent'anni, ma oggi, mentre i fatti si stanno svolgendo e solo pochi denunciano quello che accade. Le persone cui Del Grande dà voce nel libro oggi forse sono morte, o stanno rischiando la vita nel Sahara, oppure vivono accanto a noi, nelle nostre città, tentando di dimenticare ogni giorno le violenze subite per arrivare fino a qui.

Lucia Re