2005

M. Deaglio, Postglobal, Laterza, Roma-Bari 2004, ISBN 88-420-7168-4

Postglobal è un libro scritto per sostenere questa tesi: l'era della globalizzazione è ormai tramontata. Mario Deaglio la esplicita già nelle prime righe dell'introduzione, dichiarando storicamente superata la discussione ancora in corso sui vantaggi e sugli svantaggi della globalizzazione. Il libro si propone dunque non di analizzare la globalizzazione nei suoi aspetti economici e sociali, come ancora continuano a fare molti dei contributi in materia, ma di 'dimostrare' che la globalizzazione è ormai finita e di delineare i principali caratteri della fase storica che si sta aprendo, fase che Deaglio definisce appunto "Postglobal".

L'autore contesta l'interpretazione della globalizzazione prevalente in letteratura e nel dibattito politico contemporaneo secondo la quale essa sarebbe un processo irreversibile, un 'fatto' a partire dal quale immaginare ogni scenario futuro. Secondo Deaglio la globalizzazione è piuttosto un progetto politico elaborato nei paesi capitalisti occidentali all'inizio degli anni Ottanta e attuato nel corso del decennio successivo. Questo progetto politico di matrice liberale avrebbe avuto l'intento di diffondere a livello mondiale un benessere analogo a quello di cui godevano i cittadini delle democrazie occidentali, attraverso l'espansione su scala globale dell'economia di mercato, secondo il modello liberista. Esso avrebbe suscitato entusiasmi sinceri in molti attori economici e politici di tutto il mondo.

Questo sogno liberale, già minato dalle crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni Novanta, sarebbe tuttavia naufragato definitivamente l'11 settembre 2001, per lasciare il posto a una nuova era contraddistinta da processi di de-globalizzazione. Gli anni Duemila sarebbero dunque caratterizzati da un'inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti, inversione che condurrebbe alla "disintegrazione" economica e sociale di sistemi economici e politici che la globalizzazione aveva invece integrato. Alla base del fallimento del progetto globalista vi sarebbero per l'autore una serie di fattori imprevisti, emersi a fare da contrappunto al trionfo della globalizzazione. Deaglio definisce questi fattori "diseconomie esterne globali", fra queste egli annovera: le grandi epidemie degli ultimi anni, come la Sars, l'aumento dell'invecchiamento complessivo della popolazione mondiale, la crescita dei divari di reddito. A problemi di carattere demografico, sociale e culturale si sarebbero inoltre affiancate, secondo Deaglio, vere e proprie disfunzioni del mercato, dovute sia all'instabilità crescente, sia alla diffusione della corruzione nel mondo finanziario.

A quanti sostengono l'irreversibilità dei processi di globalizzazione Deaglio fa notare che la storia mondiale aveva già conosciuto una fase di intensa globalizzazione, iniziata intorno al 1840 e bruscamente terminata con la Prima Guerra Mondiale. Si tratta di quella che l'autore chiama "la globalizzazione lunga": il primo progetto di un mercato globale messo in atto dalla borghesia liberale agli albori del capitalismo contemporaneo. Questa prima globalizzazione avrebbe molti caratteri in comune con la successiva: alla fine dell'Ottocento esistevano già un mercato finanziario globale; una forte interdipendenza fra le economie dei paesi europei e le colonie dell'Asia, dell'Oceania, dell'America e dell'Africa; un sistema di comunicazioni su scala mondiale realizzatosi con la diffusione del telegrafo; un sistema globale del commercio marittimo; un tasso di migrazione dall'Europa verso le Americhe e fra le colonie e i paesi europei analogo a quello che si registra oggi dai paesi orientali e dall'Africa verso l'Europa e gli Stati Uniti. A questa globalizzazione economica e finanziaria si affiancava, secondo Deaglio, anche una globalizzazione culturale, frutto di un processo di uniformazione degli stili di vita dovuto al diffondersi degli stessi beni di consumo a livello mondiale. Deaglio rileva come la globalizzazione contemporanea, che a molti analisti è apparsa come un fenomeno del tutto nuovo, abbia superato solo alla fine degli anni Settanta i livelli d'integrazione commerciale e finanziaria degli anni immediatamente precedenti allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

L'autore sostiene che come la "globalizzazione lunga", giunta al suo apice nella Belle époque, è rapidamente tramontata con lo scoppio del primo conflitto mondiale (la cui estensione mondiale è appunto da mettere in relazione con il sistema globale consolidatosi nel settantennio precedente), così la globalizzazione contemporanea è bruscamente terminata con l'attacco del terrorismo islamico alle Torri gemelle di Manhattan. Si tratta di una tesi suggestiva, anche perché l'analogia storica costruita da Deaglio contribuisce a conferire alla sua analisi una profondità che sembra mancare al dibattito sulla globalizzazione, per lo più incapace di affrontare il tema tenendo conto del più generale sviluppo storico. Tuttavia, procedendo nella lettura del libro e affrontando la disamina del periodo "postglobal" che Deaglio compie negli ultimi capitoli, la tesi del tramonto della globalizzazione perde l'iniziale radicalità per trasformarsi nella più condivisibile, ma forse più banale, affermazione che la "globalizzazione trionfante" è ormai un ricordo del passato: la globalizzazione di cui Deaglio dichiara il tramonto è dunque non la globalizzazione intesa à la Giddens come "interconnectedness", come sistema mondiale di reti di relazioni e di scambi, ma il progetto globalista, l'utopia di una Cosmopolis globale organizzata secondo le regole del liberismo economico e del liberalismo politico di matrice anglo-americana.

Il "Postglobal" di Deaglio non è dunque così nuovo: indica principalmente il fatto che l'emergere del terrorismo islamico sulla scena globale ha rappresentato una cesura nella storia contemporanea, mettendo fine alle speranze suscitate nelle società occidentali dalla conclusione della Guerra Fredda e dalla diffusione delle nuove tecnologie. Sono del resto molte le parole coniate negli ultimi anni con il suffisso "post", suffisso che indica il superamento di una fase precedente e la difficoltà di elaborare una teoria in grado di cogliere i tratti specifici della nuova era. Deaglio tuttavia tenta di individuare i caratteri salienti dell'epoca attuale, mettendo l'accento sulla diffusione della povertà a livello globale (in modo per altro non dissimile a quanto sostenuto da Luciano Gallino nel suo Globalizzazione e disuguaglianze), sui processi di invecchiamento della popolazione che investono anche le società dei paesi emergenti compromettendone lo sviluppo, sull'inquinamento che ha raggiunto dimensioni drammatiche. L'autore ipotizza anche gli esiti ai quali possono condurre le dinamiche in corso, disegnando tre scenari alternativi: quello del mondo unificato sotto il potere militare economico e culturale degli Stati Uniti d'America, quello dell'integrazione fra sistemi regionali che tuttavia mantengono la propria autonomia economica, politica e culturale e quello, tragico, dello scontro di civiltà immaginato da Samuel Huntington. Fra i tre esiti possibili della "post-globalizzazione" Deaglio mostra di prediligere il secondo, che egli definisce come scenario della "globalizzazione-arcipelago". Come alcuni critici della globalizzazione l'autore delinea così un modello multicentrico, nel quale in luogo di una integrazione omogeneizzante a livello globale si assiste al formarsi di isole politiche e culturali integrate in base alla loro prossimità geografica o a particolari vincoli storici e culturali.

Le conclusioni cui Deaglio giunge consentono di salvare la sua tesi dalle obiezioni più facili che le sarebbero state mosse qualora essa avesse svolto fino in fondo le premesse iniziali che apparivano assai più radicali. È evidente che l'autore non intende sostenere che ci troviamo all'alba di un nuovo Medio Evo, al tramonto della civiltà contemporanea. Egli sembra piuttosto parlare a coloro che ancora insistono nell'attuazione del progetto liberista e accogliere le tesi da tempo sostenute dai critici della globalizzazione, dai quali pure l'autore si dichiara distante. La tesi di Deaglio sembra dunque in conclusione meno nuova di quanto poteva apparire all'inizio del libro. In quest'ottica inoltre manca all'argomentazione di Deaglio un'analisi più accurata del progetto globalista, presentato un po' frettolosamente come un progetto fallito in corso d'opera, le cui premesse utopistiche erano tuttavia benevole e 'umanitarie'. Troppo poco spazio è dedicato alle guerre che hanno insanguinato la «globalizzazione breve», al costituirsi di un nuovo ordine mondiale fondato sul ricorso continuo alle armi, e al carattere drammatico dei fenomeni migratori contemporanei, liquidati come una riedizione delle migrazioni ottocentesche. Si può davvero affermare che il progetto globalista sorto alla fine del Novecento fosse basato «sull'assenza di un preciso predominio politico a livello internazionale» e che l'idea della globalizzazione come «un grande gioco a somma positiva» sia stata il principale motore ideologico delle dinamiche prodottesi nel corso degli anni Novanta? Non mancano certo nella letteratura economica e politologica esempi di 'Western Utopians' che hanno pensato al globo avvolto nella tela del mercato come a un mondo prospero e pacificato, tuttavia il progetto politico neoliberale ha fin dal suo esordio mostrato i suoi lati oscuri: la globalizzazione della povertà, lo sradicamento delle culture, la diffusione a livello mondiale di vasti processi di carcerizzazione, la promozione della guerra come strumento primario di risoluzione delle controversie internazionali.

Lucia Re