2005

M. Davis, Magical urbanism, Verso, London, New York 2000, trad. it. I Latinos alla conquista degli Usa, Feltrinelli, Milano 2001, ISBN 88-07-10315-X

Se nei libri precedenti di Davis ha prevalso l'analisi del contesto urbano per spiegare le metamorfosi del sociale, in I Latinos alla conquista degli Usa, è lo spostamento delle popolazioni migranti dal Messico verso la potenza americana a costituire il fulcro concettuale in grado di narrare le trasformazioni urbane. Ma, oltre a costituire una prima novità da questo punto di vista, il testo è molto importante perché mette in rilievo un dato assolutamente innovativo ed in quanto tale problematico: se finora parte della letteratura sulla globalizzazione ha parlato di occidentalizzazione del mondo, adesso può essere altrettanto possibile parlare di latinizzazione del mondo e degli Usa in modo particolare. Tale assunto, tuttavia, non può essere preso alla lettera perché se nel primo caso si esplicitano forme di neocolonialismo, nel secondo caso si è dinanzi a migrazioni dal sapore amaro, a diaspore complesse, ad attraversamenti di frontiere della morte e a condizioni di vita sempre più precarie.

Il processo di messicanizzazione è minuziosamente documentato da Davis attraverso l'uso di alcuni dati empirici che, proiettati statisticamente e probabilisticamente ci dicono che, intorno al 2025, i latinos saranno in Usa il 17,6% della popolazione mentre i neri saranno il 13%, in California saranno il 43,1% della popolazione con i neri ridotti ad una minoranza del 5,5%, a New York il 21,7% con una percentuale del 15,5% di neri, mentre in Texas avremo il 37,6% di latinos ed il 12,8% di neri. L'uso di questi dati supporta la tesi secondo la quale negli Usa "i latinos sono destinati a scalzare i neri come principale minoranza". Un simile fatto risulta di grandissima importanza sotto il profilo socio-antropologico perché ridisegna radicalmente la geocultura delle città oltre che alcune cartografie concettuali di cui si sono finora nutrite le scienze sociali. Che cosa significa oggi, dal punto di vista epistemico, parlare di una società a "maggioranza di minoranza"?

Innanzitutto, come sostiene Federico Rahola nell'introduzione al testo, significa guardare ed interpretare gli Usa dall'otro lado, dal lato meno luminoso ed accecante della potenza dell'impero, da quel lato, cioè, in continua trasformazione perché perennemente attraversato da migranti in cerca di un destino migliore. Fatta questa premessa, in alcune società urbane come Los Angeles e Miami presso cui i latinos sono già la maggioranza assoluta della popolazione e presso cui si parla ormai quasi esclusivamente lo spagnolo o lo spanglish, si può parlare ancora di culture differenti, o tali spostamenti aprono ad una serie di declinazioni ermeneutiche un po' più complesse? L'ideologia della differenza, in effetti, viene subito scartata da Davis. Non ci troviamo di fronte a culture rigide e stantie che intendono restare tali, semmai i meccanismi differenzianti costituiscono la retorica di un multiculturalismo ipocrita e politicamente corretto che non conosce la portata drammatica dell'atto del migrare. Tale drammaticità, d'altro canto, può essere altrettanto relativizzata se si passa ad una interpretazione estetica ed estetizzante delle migrazioni secondo la quale l'elogio del displacement risulta essere proporzionale al neo-esotismo delle città al chili e ai ritmi dal sabor tropical che piacciono tanto agli "occidentali" contemporanei.

Niente di nuovo, potrebbero obiettare i lettori antropologi del libro di Davis. Da sempre, ogni qualvolta ci si trova dinanzi a fenomeni sociali in cui sono implicate le cosiddette "culture altre" si ricorre all'uso di due strumenti concettuali: o il relativismo culturale o l'etnocentrismo. Con il primo filtro concettuale si designa la totale differenza dell'Altro, al punto da non potergli concedere nessun tipo di processo di contaminazione con la cultura di maggioranza che lo osserva. Con il secondo strumento concettuale, invece, si tende a leggere l'altro a partire dalla propria cultura rendendolo irrimediabilmente un non-ancora della "cività occidentale" o, come accade con i programmi politicamente corretti del multiculturalismo (o melting pot) come una rivisitazione del mito del buon selvaggio da cui trarre significativi elementi etnicizzanti ed estetizzanti. Eppure, alcuni studi postcoloniali ci indicano una terza via interpretativa: l'elogio dell'ibridismo. L'esperienza diasporica dei latinos negli Usa è, in effetti, uno stare nel mezzo. Anche la stessa Frontera che separa per migliaia di chilometri il Messico dagli Usa è uno stare nel mezzo. Ma questa lettura postcolonial, oltre a costruire inedite forme di identità meticce consente effettivamente di dare voice ai migranti latini? Può essere sufficiente per spiegare la complessità ed il dolore della diaspora? Non sarebbe più giusto tener conto innanzitutto delle istanze materiali di coloro i quali sfidano la tolleranza zero del confine? Dei loro bisogni, dei loro desideri reali?

Le analisi di Davis, lucide e profondamente laiche, non esaltano nessun tipo di dottrina antropologica, non seguono nessun filone interpretativo se non quello della descrizione pedissequa delle problematizzazioni che i processi di latinizzazione portano con sé. La tensione critica del testo è semmai protesa verso il dare voice a chi deve faticare doppiamente per riuscire a conquistare un livello di vita materiale dignitosa. Lo dimostra il caso di Ana Alvarado che, pur essendo un'immigrata salvadoregna presente sul territorio di Los Angeles da circa trent'anni, si è vista recapitare una lettera di licenziamento solo per aver aderito ad un sindacato. Il razzismo, infatti, è un dato reale fors'anche più di qualsiasi tematizzazione postcoloniale. La materialità delle esistenze dei latino-americani dice, infatti, quanto sia difficile per un migrante, per quanto ormai maggioranza di minoranza, poter utilizzare gli stessi strumenti di lotta di uno statunitense. Il problema reale verso cui sembra condurci l'autore de I Latinos alla conquista degli Usa è dato da una verità di carattere socio-economico: c'è un abisso tra la condizione esistenziale di uno statunitense medio e la condizione di un messicano. E la Frontera tra i due mondi non è solo la rappresentazione simbolica di tale differenza economica, è molto di più. È luogo di morte e sparizione, è luogo di controllo e di attraversamento rischioso, è il primo banco di prova per chi sfida la sorte e le insidie del filo spinato per cercare una vita migliore.

Ma la frontiera, ci racconta Davis, non ha solo il valore dello stare tra due mondi. La frontiera può anche presentarsi all'interno del territorio statunitense. La conquista degli Usa da parte di un migrante latino deve anche e soprattutto cimentarsi con la "terza frontiera", quella dei suburb, dei ghetti, dei check-point. Non basta più, per un migrante, scavalcare la soglia della frontiera tra due stati. Deve superarne molte altre prima di diventare persona. La società che stanno conquistando i Latinos, infatti, non è altro che la punta più avanzata del modello globale della società del controllo.

Una società che ripristina il concetto di identità per avviare processi di "razzizzazione" culturale, non più in terra d'altri ma sulla propria e con tante sfumature.

Anna Simone