2005

R. Curcio, L'azienda totale. Dispositivi e risorse di sopravvivenza nelle grandi aziende della distribuzione, Sensibili alle foglie, Dogliani (CN) 2002, pp. 104, ISBN 88-86323-77-8

L'agile libro di R. Curcio cerca di mettere a fuoco i dispositivi relazionali entro cui si formano i lavoratori - postmoderni e "flessibili" - delle grandi catene di supermercati. L'analisi delle dinamiche identitarie che si svolgono in queste aziende emergono dalle testimonianze dirette di diversi lavoratori che hanno partecipato ad un cantiere di ricerca il cui scopo era di tratteggiare i modi di funzionamento di un'immaginaria azienda totale e i tentativi di resistenza che le soggettività in questione mettono in atto per rispondere alla spinta disumanizzante cui sono sottoposte.

Le analisi sui dispositivi totalizzanti che sono all'opera nelle istituzioni totali, fondendo in maniera stimolante strumenti metodologici offerti dall'opera di M. Foucault e di E. Goffmann, guidano la ricostruzione di importanti dinamiche relazionali che operano attualmente nel mondo del lavoro.

Le strategie di "reclutamento" di queste grandi aziende della distribuzione, prima di organizzare spazialmente gli elementi della produzione, si assicurano un regime di pratiche enunciative che codificano un ethos specifico dotato di un efficacia retorica tale da potere operare una rigorosa selezione del personale sulla base di parametri come la totale disponibilità all'obbedienza e al sacrificio o la capacità di rispondere alle richieste più diverse che sorgono in modo imprevedibile all'interno della situazione lavorativa. Questo ethos non è solo uno strumento di selezione o reclutamento, ma è il fine di un vero e proprio addestramento che non mira tanto al corpo quanto alle modalità attraverso cui una soggettività organizza la propria esperienza. Da questo ethos emergono delle gerarchie di valori che non influenzano solo l'esperienza professionale ma anche quella affettiva, familiare e sociale, tanto da incoraggiare delle forme di identificazione con l'azienda per cui quest'ultima diventa la vera famiglia del lavoratore. I meccanismi di interiorizzazione su cui si fondano queste pratiche fanno leva sul ricatto occupazionale e sulle relative procedure di mobbing che scattano quando ci si rifiuta di uniformarsi alle rigide prescrizioni di questo codice. Così se non è la deterrenza a forgiare i tratti comportamentali di cui l'azienda ha bisogno, avviene che lo stress ed un insostenibile logorìo, sia psichico che fisico, spingono l'inadatto lavoratore a rassegnare sua sponte le dimissioni.

Le procedure di sorveglianza e controllo sono allora determinate in primis a livello enunciativo e retorico prima ancora che a livello spaziale, come avveniva invece nel Panopticon benthamiano. Tuttavia tratti di quest'ultimo non vengono certo a mancare nel funzionamento dell'"azienda totale". Ci sono infatti alcuni "eventi", che l'a. chiama "analizzatori", che «si prestano meglio di altri [a] far emergere la costituzione più intima e complessa dei dispositivi relazionali ordinari» (p. 47).

Il primo dei due analizzatori che Curcio prende in esame è la cassa. Dietro di essa, oltre a risentire dello stress provocato dalla ripetizione meccanica e spasmodica degli stessi movimenti, si è sottoposti ad un doppio controllo disciplinare, da un lato quello del supervisore (o dirigente), che spesso è nella posizione benthamiana di sorveglianza, potendo vedere ma non essere visto, e dall'altro lato quello dei clienti che, talvolta fonti di richieste che non tengono conto delle necessità elementari di chi hanno di fronte, pretendono un'assoluta dedizione da parte del lavoratore, minacciando dei reclami che metterebbero seriamente a repentaglio la permanenza del lavoratore stesso nell'azienda. Alla cassa persino le necessità fisiologiche meno differibili devono passare attraverso quel dispositivo della "domandina" che «come altri dispositivi relazionali totalizzanti [ad esempio il carcere], colloca gli attori della relazione in un rapporto di potere che consente all'istituzione di assumere progressivamente il controllo sul comportamento del recluso e di infantilizzarlo. La fonte di autorizzazione dei comportamenti, che normalmente risiede all'interno della persona per questa via si sposta decisamente all'esterno, cancellando così ogni possibilità di autonomia decisionale» (p. 49).

Disposizione spaziale e dinamiche strutturanti di natura simbolica sono invece strettamente intrecciate nel secondo analizzatore preso brevemente in esame, cioè la mensa. Si tratta di «un luogo non dichiarato d'inclusione o esclusione. E poi è un teatro, un palcoscenico, che consente ad alcuni attori di mettere bene in mostra i simboli dell'appartenenza e i gradi già acquisiti in carriera. Già nella dislocazione dei posti questo appare evidente» (p. 51).

In quella prigione senza sbarre e pareti che è l'azienda totale i dispositivi relazionali atti a creare delle soggettività soggiogate ai piani aziendali organizzano la pressione del gruppo e il mobbing (che diviene strutturale e funzionale ad un tempo) per compiere un processo di "naturalizzazione della sofferenza". Questo dispositivo, che determina fenomenologicamente l'accettazione della situazione di sudditanza e controllo, «può essere riassunto in quattro passi essenziali: in primo luogo i messaggi di sofferenza relazionale subita o esercitata vengono dissociati dalla propria coscienza; il secondo passo consiste nel dissociarli anche dalla loro fonte; proprio in ragione di questa doppia dissociazione simultanea, essi possono così venir risignificati come "naturali"; in conseguenza di ciò, chi esercita la violenza che genera sofferenza verrà generosamente assolto e deresponsabilizzato per la sua azione, e chi la subisce potrà esimersi da ogni iniziativa per eliminare la sofferenza e la sua causa» (p. 67).

A livello fenomenologico la sofferenza è ben percepita, ma è dissociata dalla violenza e dall'intento disciplinare e burocraticamente produttivo che degrada persone a strumenti: «il problema non viene negato ma ricontestualizzato nel processo "naturale" di organizzazione del lavoro. E l'organizzazione del lavoro, così come si manifesta, viene percepita come un evento meteorologico. Piove, c'è il sole, tira vento. Nessuna intenzione la sottende, nessuna costrizione violenta. Di conseguenza la sofferenza della cassiera viene legittimata come una necessità ineluttabile: c'è una lista, c'è una fila, c'è un ordine che occorre rispettare. Se contesti quest'ordine ti trasformi immediatamente in un pericolo, un "corpo estraneo", un sabotatore» (p. 74).

Le ripercussioni di questo sistema di dispositivi sui lavoratori determina una forte torsione identitaria; le continue dinamiche dissociative, messe in atto come risposte adattative alla pressione disciplinare, spingono a "rendersi assenti" nel contesto lavoro, ci si concentra cioè solo sulla mansione e non si vede nient'altro, sofferenza altrui, rapporti sociali, ecc. In tal modo queste aziende, che appartengono come detto alla grande distribuzione, definite "non-luoghi", sulla scorta delle analisi di M. Augè, si arricchiscono e producono grazie a "non-persone". La desertificazione dell'intorno relazionale facilita, in alcuni casi, anche altre risposte adattative, come quella che l'a. chiama "mimesi proiettiva", secondo cui la figura del lavoratore si conforma così minuziosamente allo sfondo su cui si muove che, talvolta, vengono generate notevoli capacità simulative e dissimulative che possono diventare preziosi strumenti per alleggerire la pressione disciplinare del controllo.

Molto più spesso, però, si verifica quel fenomeno che Curcio chiama "conversione identitaria", «la conversione è una dinamica identitaria in seguito alla quale il soggetto, il lavoratore in questo caso, assume come proprio l'ethos, il codice scritto e non scritto, il mito e la cultura, oltre che gli atteggiamenti e le abitudini consuetudinarie che caratterizzano il contesto aziendale. S'identifica e si immedesima con essi» (p. 73).

Ciò nonostante esiste la possibilità di mettere in atto delle strategie di resistenza alla sofferenza prodotta dall'organizzazione del lavoro, anche se non sempre il contesto lavorativo lo permette. Rilevante però, a prescindere dall'attuazione efficace delle singole strategie, è il tentativo di maturare un nuovo atteggiamento di fronte all'istanza di "conversione" richiesta dall'azienda. Si tratta di creare un'"identità di resistenza" che sia la base di una continua germinazione di linee di soggettivazione che cerchino di sfuggire al controllo e alla sottomissione, esercitando delle strategie tanto duttili e sottili quanto sono quelle di una situazione lavorativa organizzata in modo totale. Con le parole dello stesso Curcio: «c'è un modo di adattarsi che consiste nel resistere, nel costruire un'identità conflittuale e tuttavia compatibile con il contesto aziendale. Potremmo dire che questa forma di adattamento s'ingegna di esplorare e di sfruttare tutti i possibili spazi che i dispositivi aziendali non sono in grado di neutralizzare. In qualche modo l'identità di resistenza cerca di tenere viva un'iniziativa istituente, di produrre un movimento trasformativo. Ma è costretta a farlo partendo da pratiche di autodifesa psicologica e di limitazione della sofferenza; da tentativi di riconnettere i vissuti di sofferenza dei lavoratori alle loro fonti di organizzazione del lavoro, alle macchine relazionali dispotiche, e agli attori che le gestiscono mediando i comandi del codice istituito» (p. 77).

Orazio Irrera