2005

J. Habermas, Die Postnationale Konstellation, Suhrkamp, Frankfurt 1996; trad. it. La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 135, ISBN 88-07-10277-3

In questo testo sono contenuti tre saggi in cui Habermas discute la possibilità di riorganizzare i rapporti fra stati secondo una prospettiva cosmopolitica. Il filosofo, innanzitutto, si sofferma a ripensare all'evoluzione storica del XX secolo, appena trascorso, notando come le teorie che lo hanno interpretato assimilano in un unico segmento temporale sia il periodo delle due guerre mondiali sia quello della guerra fredda. Secondo Habermas, invece, questa lettura non coglie il momento di cesura determinato da alcuni avvenimenti successivi al 1945: la guerra fredda, la decolonizzazione, la costruzione dello stato sociale in Europa. E dal 1989 il mondo è cambiato ancora. Lo stato sociale è andato in crisi e, per Habermas, questo venir meno della solidarietà sociale finisce per distruggere quella cultura politica liberale dalla cui autocomprensione universalistica dipendono le società costituite democraticamente. I processi di globalizzazione disgregano l'idea dello stato regolatore e con esso lo stato sociale. Contro questa evoluzione Habermas vuole riaffermare rinate competenze politico-normative, anche perché la stessa dimensione globale rende sempre più controproducente rovesciare costi e rischi sugli altri, siano essi settori sociali, regioni lontane, culture estranee, generazioni future.

L'idea centrale di Habermas, espressa nel secondo saggio, è capire se, di fronte all'apertura economica, è possibile una nuova chiusura politica e come attuarla. Egli, allora, esamina i presupposti dello stato nazione e illustra i processi della globalizzazione. Lo stato si configura come amministrativo e fiscale, territorio dotato di sovranità, e solo come stato nazionale esso ha potuto svilupparsi, diventando stato democratico di diritto e stato sociale. La globalizzazione influenza tutti questi aspetti.

Habermas argomenta che, dal punto di vista amministrativo, la globalizzazione non ha intaccato significativamente l'efficienza dello stato, mentre più rilevante è l'impatto sulla sua dimensione fiscale, poiché l'accelerata mobilità dei capitali impedisce allo stato di intercettare guadagni e ricchezze monetarie. E' indubbia, tuttavia, una esautorazione dello stato nazionale in seguito alla trasmissione di alcune competenze su piani sopranazionali, che è causa di vuoti di legittimità. Anche la dimensione tradizionalmente democratica dello stato risente dell'evoluzione in corso: l'integrazione politica di società geograficamente molto estese mostra infatti delle crepe. Qui il filosofo tedesco non si riferisce a conflitti di nazionalità o etno-nazionalistici quali rispettivamente quelli in Irlanda o Jugoslavia; egli piuttosto parla di reazioni etnocentriche della popolazione indigena verso tutto ciò che è diverso. Si distinguono in proposito due aspetti; da una parte egli ritiene che quando la cultura politica generale riesce con successo a staccarsi dalla cultura di maggioranza, allora la solidarietà dei cittadini si riconverte sulla base più astratta di ciò che egli definisce patriottismo costituzionale. Quando, invece, questo processo fallisce, allora, la comunità si frantuma in subculture che si chiudono l'una contro l'altra. Si individua qui una dimensione di dissonanze cognitive nello scontrarsi delle differenti forme culturali di vita.

L'altro ambito riguarda i processi di omogeneizzazione culturale e sociale dettati dall'economia dei consumi e il loro effetto sull'individualizzazione dei soggetti e la progettazione di identità cosmopolitiche.

Infine, per quanto riguarda l'effetto della globalizzazione sullo stato sociale, il discorso è immediato: sono le borse internazionali che detengono il giudizio sulle varie politiche economiche degli stati. Il mercato sopravanza la politica e allo stato nazionale viene meno la capacità politica di proteggere la sua base di legittimità rastrellando risorse fiscali e stimolando la crescita economica. Richiamandosi alla connotazione etica del suo pensiero, Habermas non può fare a meno di costatare come il punto di vista normativo, nella politica contemporanea sia sconfessato e sostituito da un adattamento a imperativi sistemici (parsonsianamente? luhmannianamente?) del mercato mondiale.

Chiariti questi punti, resta da capire come affrontare tali questioni. Non si tratta di riaffermare dimensioni politiche o economiche fondate sul protezionismo, né di esaltare indiscriminatamente il momento del mercato. Il filosofo tedesco si sofferma piuttosto sull'osservazione di come interagiscano tra loro due modalità di coordinamento dell'agire sociale: quella delle reti e quella (di riflesso fenomenologico) del mondo-di-vita. La prima garantisce una integrazione funzionale dei rapporti sociali, la seconda determina una integrazione sociale che passa attraverso l'intesa, norme condivise e valori comuni. Ora, a ogni nuova ondata di modernizzazione, i mondi della vita intersoggettivamente condivisi si aprono, per poi di nuovo organizzarsi e richiudersi. Questa è certamente una spinta emancipativa che Habermas ricorda essere stata continuamente affrontata dalla sociologia classica; ma, per evitare che tale spinta determini patologia sociale e anomia è necessario che il mondo della vita si organizzi attraverso le dimensioni dell'autocoscienza e dell'autodeterminazione, che hanno caratterizzato l'autocomprensione della modernità. In tal senso viene introdotta l'idea della necessità di una chiusura politica; non si tratta, sia chiaro, di una chiusura intesa come rude opposizione a una modernità vista come travolgente. Piuttosto si intende una nuova forma di autogoverno democratico della società. Il riferimento diventa, quindi, l'Unione europea e una politica democratica che vada al di là dello stato nazione. Ora, però, l'analisi di questa dimensione politica europea va considerata tenendo presenti alcune questioni fondamentali che riguardano la tesi della fine della società del lavoro, il rapporto tra giustizia sociale e efficienza del mercato, la capacità dell'unione europea di bilanciare la perdita delle competenze nazionali, la possibilità che le comunità politiche siano in grado di sviluppare una loro identità collettiva che vada al di là dei confini nazionali. L'idea di Habermas è quella di una costruzione politica europea in cui si determini la chiusura politica accennata sopra contro il dilagare del mercato. Sulla scia della sua filosofia spesso caratterizzata da notevole, ma teoreticamente argomentato, ottimismo, Habermas, pensa che la formazione di una identità collettiva europea che sarebbe alla base dell'unione, sia realizzabile tramite una spinta astrattiva che già in passato ha trasformato la coscienza locale e dinastica in coscienza nazionale. Ripercorrendo eventi sociologicamente rilevanti della storia europea (rivalità tra poteri ecclesiastici e secolari, contrasto città-campagna, tra fede e scienza, competizione tra potenze, ecc.) si nota, infatti, come questi conflitti hanno sempre portato a superare il particolarismo attraverso forme tolleranti di convivenza e una istituzionalizzazione degli antagonismi.

Concretamente si tratta di capire come dovrebbe funzionare questa democrazia cosmopolitica, che non si deve immaginare come uno stato mondiale: Habermas ritiene, infatti, possibile allargare la solidarietà nazionale e la politica di welfare alle dimensioni di uno stato federale postnazionale, ma non che la cultura politica della società mondiale abbia una dimensione etico-politica comune che sarebbe necessaria a una globale socializzazione identificante. La democrazia cosmopolitica deve realizzarsi piuttosto nelle forme organizzative non statali dei sistemi internazionali di negoziato già esistenti per altri settori della politica. Ma ciò richiede due elementi: uno normativo, l'altro empirico. Quello normativo è individuato nella possibilità di accedere a un processo dibattimentale costruito in modo da giustificare l'aspettativa di risultati razionalmente accettabili: in tal modo, che è sostanzialmente l'applicazione della teoria dell'agire comunicativo habermasiana alla politica, l'attenzione passa dal concreto personificarsi della volontà sovrana in individui e deliberazioni concrete alle pretese procedurali. L'elemento empirico si configura, invece, nel passaggio dalle relazioni internazionali a una vera politica mondiale interna.

Nel terzo saggio, che è il testo di una conferenza preparata per il Goethe Institut di Palermo poi pubblicata nell'aprile 1999 sulla rivista «Blätter fur deutsche und internationale Politik», l'autore si sofferma ad analizzare lo stato europeo sotto il peso della globalizzazione. Vengono così sottolineati tre aspetti dell'esautoramento dello stato nazionale: la perdita delle capacità statali di controllo, i crescenti deficit di legittimazione del processo decisionale, la crescente incapacità di prestazioni di organizzazione, efficaci sul piano della legittimità. Si considerano così le diverse posizioni teoriche rispetto alla globalizzazione. Da una parte i favorevoli, dall'altro gli oppositori. E, infine, gli esponenti di una terza via che si biforca in una interpretazione di difesa e una di attacco. Secondo la variante difensiva, se non è più possibile invertire la subordinazione della politica alla società del mercato, tuttavia lo stato deve impegnarsi nel riqualificare i membri della società addestrandoli alla concorrenza. La variante di attacco invece si lascia guidare dalla priorità della politica rispetto alla logica di mercato. E ancora qui si ribadisce la centralità della dimensione europea attraverso l'intreccio delle varie sfere pubbliche nazionali.

I tre saggi mostrano che la democrazia può essere interpretata come processo di apprendimento orientato al futuro e che, per Habermas, il cosmopolitismo, che può concretizzarsi in una dimensione di federazione transnazionale, non può prescindere da una connotazione normativa.

Al di là delle critiche che si possono fare a questa interpretazione (si possono ricordare posizioni discordi come quelle di Huntington e Zolo, che rimarcano, rispettivamente, le dimensioni dello scontro culturale e del realismo politico), resta l'ipotesi che la globalizzazione possa avere, tra l'altro, anche l'effetto di una ristrutturazione universalistica sulla coscienza politica e sulle identità collettive delle nazioni democraticamente progredite. Se esse sono davvero progredite.

Francesco Giacomantonio