2008

A.A. Cassi, Ius comune tra vecchio e nuovo mondo. Mari, terre, oro nel diritto della conquista (1492-1680), Giuffrè, Milano 2004, pp. 496, ISBN 88-14-11031-X

Due recenti volumi di Aldo Andrea Cassi (quello qui recensito e il successivo Aldo A. Cassi. Ultramar. L'invenzione europea del Nuovo Mondo, Laterza, Roma-Bari 2007) sono il frutto di una lunga ricerca condotta sui documenti originali e sulle principali raccolte di leggi e di commenti della Conquista negli archivi spagnoli e ultramarini.

Il taglio è prettamente giuridico: si tratta di verificare come fu "applicato" e "proiettato" lo jus commune medievale e rinascimentale europeo "oltre le colonne d'Ercole". Un diritto antico per un mondo nuovo anche dal punto di vista giuridico, come riconosceva il cronista Jeronimo Mendieta nella sua História Eclesiástica Indiana del 1569: "Ni Justiniano hizo leyes ni Bartolo ni Baldo la expusieron para este nuevo Mundo y su gente". Un Nuovo Mondo che appariva agli europei come giuridicamente res nullius e che per questo richiese un enorme lavoro di giustificazione e di elaborazione dottrinaria e gurisprudenziale. L'obiettivo centrale di Cassi però non è quello di "tracciare un quadro storico del derecho indiano, della sua 'storia esterna' e del suo sistema di fonti, [...], quanto, piuttosto approntare un'esplorazione di quel 'retroterra giuridico', oscuro che costituì la premessa - assiologia e cronologica - di quel diritto" (p. 41). Per questo, afferma l'autore, "prima (un prius logico, oltre che temporale) di stabilire e di applicare alle Indie una disciplina normativa, dovette essere 'inventato', scoperto ed elaborato lo statuto giuridico di quel Nuovo Mondo e delle strabilianti 'cose' che esso offriva" (p. 41).

Su questa falsariga, il libro dedica una prima parte alla inventio, nel suo duplice significato di "scoperta" e di "creazione", dei nuovi mari-oceani, così diversi dal mare nostrum, e delle nuove terre, così diverse dal sistema feudale da cui i conquistadores provenivano. Cassi dedica un'ampia e documentata analisi alla vexata quaestio della encomienda indiana, un problema che considera ancora insoluto dalla storiografia giuridica. Come si sa, l'encomienda era un'istituzione giuridica in base alla quale un gruppo di indigeni era affidato (encomendado) ad uno spagnolo (civile o ecclesiastico) perché lavorasse al suo servizio nelle miniere, nei campi, nei mari e nei servizi domestici. In cambio di queste prestazioni, l'encomendero avrebbe dovuto compiere un duplice compito formativo: sradicare negli indigeni i loro costumi barbari e contro natura e condurli alla vera religione, il cristianesimo ovviamente. Le conclusioni, molto originali e acute, cui proviene Cassi sono che "è da escludere l'assimilazione della encomienda al diritto feudale, ed anche la sua genesi da esso" (p. 235). "L'encomienda" - sottolinea l'autore - "nacque in circostanze storiche uniche per rispondere ad esigenze altrettanto uniche, nelle quali si intersecavano aspetti quanto mai eterogenei, eppure tutti giuridicamente rilevanti: difesa militare, organizzazione territoriale, evangelizzazione di "nuovi" barbari, riscossione tributaria, sfruttamento economico delle risorse, etc."; per concludere con l'affermazione di che: "L'encomienda fu giuridicamente un istituto che non si era mai visto prima, un aliquid novum, e che rimase un unicum nella storia del diritto" (p. 241).

La seconda parte del volume è dedicata ad affrontare puntualmente alcune delle questioni fondamentali del dibattito, in primis quella dello "statuto ontologico" degli indios, ossia la questione della loro umanità e razionalità, come appare nelle "due interrogazioni retoriche che il padre Montesinos rivolse alla prima generazione di conquistadores nella famosa predica della domenica di avvento del 1511: Estos no son hombres? No tienen almas racionales?" (p. 246). La questione dell'umanità e razionalità degli indigeni, - peraltro mai messa seriamente in dubbio dai teologi, ma invece abilmente sollevata dai conquistadores e dai loro apologeti-, si intreccia con la questione giuridica del loro essere "veri proprietari e signori dal punto di vista del diritto pubblico e privato" (veri domini et publice et privatim sicut christiani), come affermava Francisco de Vitoria nella Relectio de Indis. Da questa definizione dipendeva infatti la libertà o la schiavitù-servitù degli indios e la legittimità dello sfruttamento del lavoro indigeno nelle miniere, nelle piantagioni e nei mari. Cassi mette in evidenza che "il percorso compiuto dallo status legale dell'indigeno, da schiavo a libero suddito, fu lungo e travagliato, anche perché vi era impresso il marchio della bestialità, o quanto meno della natura barbara e deficiens degli indios" (p. 280). E sottolinea le differenze fra le relazioni degli ispanici con i saraceni, con i quali i rapporti commerciali e culturali non vennero mai effettivamente recisi, e i nuovi popoli recenter inventi: "l'indio era per l'ispanico un uomo di un altro mondo" (p. 283).

L'autore si dedica, con molta perspicacia e competenza, ad una minuta analisi dei principali provvedimenti giuridici (Leyes e Ordenanzas) che la corona di Spagna aveva dedicato alla questione indigena e che si succedettero numerosi dalle Leyes de Burgos del 1512/13, passando per le Leyes Nuevas del 1543, fino alle Ordenanzas Generales di Filippo II del 1573 che chiudono di fatto e di diritto (de hecho y de derecho) il periodo più polemico ed effervescente della disputa. L'analisi di Cassi si estende però oltre questo periodo fino alla Recopilaciones de Indias del 1680.

Meno attenzione, a causa del taglio giuridico dell'opera, è dedicata al parallelo dibattito teologico-político che accompagna questi provvedimenti e che si svolge nelle aule dell'Università di Salamanca e Alcalá e nelle juntas dei teologi e giuristi convocati dall'Imperatore. Cassi si occupa soprattutto del domenicano Francisco de Vitoria, contrastando il profilo di un Vitoria difensore dei diritti indigeni, e mettendo in evidenza le ambiguità del pensiero del maestro di Salamanca. Non riceve invece l'attenzione che merita il Procurador de los Indios, il frate domenicano Bartolomé de Las Casas, figura allo stesso tempo centrale ed eccentrica rispetto al dibattito, anche nei suoi aspetti specificamente giuridici.

Al tema delbellum justum adversus insulanos¸ ovvero alla legittimità della guerra verso gli indigeni, è dedicato un interessante capitolo ("La chiave del forziere") dove sono analizzate le cause di guerra giusta. Anche qui il nostro autore dedica la sua attenzione soprattutto a Vitoria, letto in una chiave meno pacifista e moderna di quanto normalmente faccia la storiografia (o forse sarebbe meglio dire l'agiografia) di un Vitoria padre del moderno diritto internazionale e dei diritti umani. Ancora una volta però, sul decisivo tema della guerra, l'autore non cita se non marginalmente il pensiero di Las Casas, l'unico non solo a condannare senza esitazioni come ingiusta la guerra contro gli indios, ma anche a rivendicare il titolo di justum bellum alla resistenza armata degli indigeni contro i conquistadores.

Le conclusioni dell'ampio volume sono dedicate al "viaggio di ritorno", ovvero alle ricadute del dibattito sul diritto europeo. Una delle tesi più interessanti è dedicata alla relazione fra jus commune e jus naturale. Per Cassi quest'ultimo "sembrava prestarsi all'uopo [ad operar da interfaccia fra due Mondi] più efficacemente di quanto potesse fare lo jus commune". Ma, il bilancio dell'ampio ricorso da parte dei teologi e dei giuristi al diritto naturale si risolse, per Cassi, "con un fallimento e, al tempo stesso, con un successo" (p. 421).

Un fallimento, perché la teoria dell'uomo come "essere razionale, che passò da Aristotele a Tommaso fino alla Seconda Scolastica, e, attraverso di essa, a tutto il giusnaturalismo moderno, era pur sempre una teoria eurocentrica della razionalità europea, "il cui modello si configurerà poi come uno degli elementi caratterizzanti la modernità" (p. 421). Si potrebbe obiettare che tale fallimento si deve non solo a questi motivi, ma anche a ciò che Anthony Padgen ha definito come la "caduta dell'uomo naturale" (The fall of natural man), ossia la caduta dell'immagine e della idea tipica del diritto naturale stoico e poi cristiano-medievale di che Dio avesse impresso nel cuore di tutti gli uomini, anche i più distanti dal suo messaggio cristiano, i principi fondamentali del diritto naturale. I "peccati contro natura" degli indios, ovvero i sacrifici umani praticati in massa, il cannibalismo permesso e promosso ritualmente e collettivamente (ma anche in subordine la permissione della "sodomia"), erano forti motivi di guerra giusta, non a caso messi in evidenza da Sepúlveda e da Gonzalo Fernandes de Oviedo (oltre che da Hernán Cortez che ne era la fonte testimoniale principale). Anche per i teologi più profondi e raffinati come Vitoria o per i difensori più intransigenti dei costumi indigeni come Las Casas, questo aspetto rimaneva come in un cono d'ombra che non poteva essere razionalmente spiegato e che si rimetteva agli imperscrutabili disegni della provvidenza divina. Moriva quindi una certa concezione del diritto naturale antico e medievale, quella del diritto divino, e nasceva, con l'Apologia di Las Casas (dove il frate domenicano giustificava in modo molto raffinato tali costumi) l'antropologia comparata moderna, con tutti i suoi aspetti relativisti e prospettivisti messi in evidenza da Pagden e soprattutto da Todorov.

Il successo del diritto naturale può essere invece riscontrato "nell'apporto dello jus naturale all'acquisizione alla civiltà giuridica di principi e istituti (dalla libertà dei mari a quella degli uomini; dal diritto di commercio e di transito a quello di sfruttamento economico) destinati ad una lunga vita nel mondo del diritto" (p. 421). Cassi si sofferma, ancora una volta, soprattutto su Vitoria e sul nuovo diritto internazionale che il maestro di Salamanca aveva abbozzato nelle mirabili pagine della terza parte della De Indis, mettendone in evidenza le luci e ombre. Le conclusioni sono lapidarie e vanno contro la vulgata di un Vitoria pacifista, internazionalista, difensore ante litteram dei diritti umani e della "democrazia": "Se la dottrina di Vitoria prefigurò davvero un principio jusinternazionalistico dell'era contemporanea, questo non mi sembra essere quello della "democrazia degli Stati", quanto piuttosto il protettorato coloniale in voga fino alla metà del XX secolo" (p. 425).

Nella chiosa finale, Cassi si chiede fino a che punto questo dibattito abbia a che vedere con i moderni e contemporanei diritti umani, dei quali l'antecessore e il "tedoforo sarebbe quasi che unanimemente indicato in Francisco de Vitoria" (p. 429). Qui giustamente Cassi si sofferma sull'intrinseca asimmetricità dell'uguaglianza dell'esercizio effettivo dei diritti fra spagnoli e indigeni (già per altro segnalata da Luigi Ferrajoli come ricorda il nostro autore), concludendo: "Se, nel rapporto tra indios e spagnoli la taratura dei "diritti naturali", riconosciuti da Vitoria era tale che soltanto i secondi potevano empiricamente esercitarli [...] anche in quello fra i castigliani e le altre nationes europee tali diritti inderogabili subivano deroghe, limitazioni, e compromessi a senso unico. Diritti "naturali" sì, "umani" forse, sicuramente molto castigliani" (p. 434).

Su questo aspetto, ci si potrebbe chiedere se l'autore abbia sufficientemente valutato quel passaggio dal diritto naturale oggettivo antico e medievale al diritto naturale soggettivo moderno che, proprio nel dibattito sulla Conquista, e nei suoi principali protagonisti, - fra cui certamente va annoverato Vitoria, ma in misura anche più pregnante Las Casas, - trova una delle sue origini, come ha brillantemente dimostrato Brian Tierney in The Idea of Natural Rigths.

Giuseppe Tosi