2008

M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, il Mulino, Bologna 2007, pp. 548

Il tema dei diritti fondamentali costituisce uno degli elementi, forse il più rilevante, della 'crisi del sapere giuridico', della difficoltà di interpretare l'evoluzione degli ordinamenti tramite gli strumenti della tradizione della scienza giuridica di ascendenza positivista. Fenomeni come il 'dialogo intergiudiziale' e la tutela 'multilivello' dei diritti, il rinvio di molte costituzioni a Convenzioni internazionali, in particolare la Convenzione europea dei diritti umani (Cedu), la possibilità di adire le Corti sovranazionali costituiscono una cartina di tornasole attraverso la quale valutare l'adeguatezza delle dottrine giuridiche. Ci si domanda, infatti, se la scienza giuridica ancora influenzata dal positivismo statualista riesca a dar conto del fenomeno della integrazione tra gli ordinamenti giuridici e della possibilità che giudici nazionali interpretino norme interne alla luce di trattati e convenzioni internazionali. Si parla a tal proposito di modificazioni delle dottrine giuridiche a causa dell'affermarsi di teorie 'neocostituzionali' del diritto che considerano i diritti umani, e in specie i diritti fondamentali, non solo un insieme di norme con una particolare posizione nell'ordinamento delle fonti, ma un sistema di principi che governano l'interpretazione e l'applicazione del diritto. Il riconoscimento di diritti fondamentali nelle carte costituzionali, nelle dichiarazioni dei diritti, nei trattati e nelle convenzioni internazionali modifica la stessa scienza giuridica che deve rivedere profondamente la sua 'cassetta degli attrezzi', gli strumenti di analisi e i presupposti valoriali utilizzati per descrivere i fenomeni giuridici. In questo quadro di profondo ripensamento delle categorie giuridiche tradizionali, in particolare delle nozioni di ordinamento giuridico e di interpretazione del diritto, diventa imprescindibile, a fronte della pratica diffusa di dialogo tra corti nazionali e corti sovranazionali, offrire un'analisi dell'evoluzione dei diritti c.d. 'fondamentali'. È, infatti, ormai riconosciuta l'efficacia di una tutela 'multilivello' di tali diritti, in quanto al cittadino di uno Stato firmatario della Convenzione o appartenente alla Unione Europea è data la possibilità, attraverso particolari procedure, di adire anche una giurisdizione sovranazionale. Il contributo fornito dal volume di Marta Cartabia offre una preziosa, e direi imprescindibile, analisi di questo fenomeno di 'dialogo intergiudiziale' tra corti costituzionali nazionali, Corte di Giustizia europea e Tribunale Europeo dei Diritti Umani, dialogo che ormai influenza la 'vita quotidiana' degli operatori giuridici e, in specie, degli studiosi di diritto.

Il testo si divide in quattro parti.

Nella prima si offrono gli strumenti generali, sempre tramite una dettagliata analisi della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo e della Corte di Strasburgo, per interpretare il fenomeno del dialogo intergiudiziale e soprattutto le conseguenze che tale dialogo produce a livello comunitario e nazionale.

Cartabia, sulla scorta di una riflessione ormai decennale sul tema, offre un affresco sul ruolo che i diritti fondamentali hanno giocato, e giocano, nell'evoluzione dell'ordinamento dell'Unione Europea, partendo dalla polemica circa la natura 'economicista' delle istituzioni comunitarie, che costituisce lo sfondo della contesa tra Corte di Lussemburgo e Corte costituzionale tedesca, fino all'attesa promulgazione della Carta di Nizza, documento che ancora non ha valore giuridico. In particolare l'autrice evidenzia il ruolo 'attivo' della Corte di giustizia, sia per quanto riguarda l'interpretazione del diritto comunitario a partire da principi generali e da tradizioni giuridiche comuni, sia per quanto riguarda una 'autocomprensione' della sua funzione come 'corte dei diritti'. Questa 'autocomprensione' rischia però, fa notare Cartabia, di produrre, alla luce di alcune pronunce, una sorta di 'colonialismo giurisdizionale' in cui la Corte di Lussemburgo diventerebbe il tribunale di ultima istanza nella tutela di diritti fondamentali, a danno delle corti nazionali ma anche della Corte di Strasburgo. Se anche si arrivasse ad un accordo tra le corti, nazionali e sovranazionali, rimarrebbe comunque frustrata una delle dimensioni dei diritti fondamentali: l'essere un insieme di pretese insieme universali e storiche, determinate all'interno di particolari ordinamenti statali. "Una volta che un diritto fondamentale entra nella sfera della giurisdizione della Corte di giustizia esso diviene un diritto fondamentale europeo, con grave difficoltà per gli Stati nazionali e per le Corti nazionali a svincolarsi dagli standard fissati dalla Corte di Giustizia" (p. 64). Al contrario la Corte di Strasburgo tiene conto della particolarità delle declinazioni nazionali dei diritti fondamentali, in quanto "si rivolge individualmente al singolo Stato ed eventualmente lo condanna in caso di violazione dei diritti fondamentali, non enuncia invece un principio direttamente applicabile anche negli altri ordinamenti del sistema Cedu" (63).

Il contributo di Diletta Tega si sofferma sul ruolo, e l'influenza, della Convenzione Europea sui diritti umani nell'ordinamento italiano. In primo luogo l'autrice espone le varie teorie circa il posto della Convenzione all'interno dell'ordinamento delle fonti nel nostro paese a partire dall'interpretazione dell'art. 10, ma anche della lettura del catalogo dei diritti previsti nell'art. 2. L'autrice, inoltre, mostra l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale, dalle pronunce dal 1960 al 1993 che vedono nella Cedu una norma pattizia che come tale non ha valore di norma costituzionale, fino alla sentenza 388/1999 che distingue tra norme pattizie, sottoposte alla costituzione, e diritti umani garantiti da convenzioni universali o regionali che trovano precisa garanzia costituzionale e costituiscono una risorsa per interpretare la stessa costituzione. Questa incorporazione della Cedu nel nostro ordinamento è visibile anche a livello legislativo e giurisdizionale. Il primo caso è dimostrato dalla vicenda della legge 89/2001 (sulla equa riparazione per la durata dei processi) e della legge 95/2004 (sul controllo della corrispondenza dei detenuti), in cui il legislatore italiano emana provvedimenti in seguito a condanne da parte della Corte di Strasburgo; il secondo caso è dato invece dalle sentenze della Cassazione a sezioni unite (26 gennaio 2004 nn. 1338-1341) che riconoscono la diretta applicabilità delle decisioni di Strasburgo per il risarcimento del danno per irragionevole durata dei processi.

Maria Elena Gennusa affronta il tema del rapporto tra ordinamento comunitario e Cedu, mettendo in luce l'evoluzione del dialogo tra Corte di Giustizia e Tribunale dei diritti umani. Si passa da una fase, quella degli anni sessanta, in cui gli ambiti di competenza rimangono separati, ad un'altra in cui, sin dalla sentenza Stauber, la Corte di Lussemburgo si assume il ruolo di garante dei diritti fondamentali in ambito comunitario, affermando che questi diritti formano parte dei principi generali dell'ordinamento. In questo modo, nota l'autrice, "è come se le strade delle due corti, prima rigorosamente separate e non comunicanti, iniziassero lentamente a convergere nel medesimo territorio" (95). L'autrice però mostra come questa convergenza non sia lineare e offre una spiegazione del perché sugli stessi casi, o su casi omologhi, le due corti siano arrivate ad esiti differenti (come nella vicenda del divieto delle autorità irlandesi a diffondere informazioni circa la possibilità di praticare l'aborto oltre confine). In primo luogo la Corte di Lussemburgo non riconosce come vincolante l'interpretazione della Convenzione propria della Corte di Strasburgo. Inoltre i diritti fondamentali contenuti nella Convenzione hanno rilevanza non in sé, ma solo nella misura in cui rientrano nei principi generali del diritto comunitario, così che "la Convenzione europea [...] non è applicata in quanto tale, ma viene «incorporata» nell'ordinamento comunitario ed è quindi dalla Corte di giustizia interpretata secondo il «filtro» delle esigenze di questo" (101). La stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo è segnata dal riconoscimento della incompetenza a sindacare gli atti comunitari, non avendo la Comunità europea mai sottoscritto la Convenzione. L'autrice ha cura di mostrare gli sviluppi della convergenza tra le giurisprudenze delle due corti attraverso una serie di casi che mostrano come "i rispettivi sistemi di tutela dei diritti dell'uomo [...] ben difficilmente possono ancora considerarsi separati e distinti [...] così da produrre un intreccio dove i singoli apporti [...] spesso si fondono a produrre un risultato unitario" (141). La ratio di questo riavvicinamento è data, secondo l'autrice, da una convergenza di interessi: la Corte di Lussemburgo vuole legittimare la propria giurisprudenza con un riferimento continuo a quella della Corte di Strasburgo; quest'ultima, dal canto suo, vuole porsi come 'giudice dei diritti' anche in ambito comunitario.

Come il Tribunale dei diritti umani applica la Convenzione? È chiaro, infatti, come una applicazione rigida di un simile documento potrebbe portare a quel colonialismo giurisdizionale paventato da Cartabia, alla riduzione dei diritti fondamentali alla dimensione della loro universalità a detrimento della loro realizzazione particolare, anche se bisogna tenere presente che le sentenze del Tribunale hanno valore soltanto per il caso concreto. Per tenere conto della dialettica tra universalità e particolarità della interpretazione dei diritti fondamentali si è elaborata la dottrina del margine di apprezzamento che, con le parole di Palmina Tanzarella (autrice dell'ultimo contributo della prima parte), può essere definito come "quel grado di deferenza o di errore concesso agli Stati prima che la Corte di Strasburgo sia pronta a dichiarare che il rimedio statale costituisce una violazione della Convenzione" (147). L'autrice mette in evidenza la natura 'particolaristica' di una simile modalità di applicazione della Convenzione e il rischio che ci si lasci condizionare dalle esigenze del caso concreto impedendo la possibilità che si stabilisca una giurisprudenza coerente. Tanzarella, tuttavia, offre una preziosa ricostruzione, sulla base di una serie di casi giurisprudenziali, del modus operandi del margine di apprezzamento, individuando tre test che le decisioni prese in base a tale dottrina devono superare. In primo luogo la Corte deve distinguere tra diritti che sono soggetti a margini di apprezzamento secondo la Convenzione (Artt. 8-11) e diritti che non possono essere soggetti a margini di apprezzamento (Artt. 2-4) poiché sono oggetto di tutela sulla base di consuetudini internazionali (come nel caso del divieto di tortura). Anche i diritti che possono essere compressi dai singoli paesi contraenti hanno una forma di tutela: non possono essere limitati sino ad essere inficiati nel loro contenuto essenziale. Se il primo test è stato superato si passa ad un secondo esame concernente il motivo della restrizione prevista dalla legislazione nazionale. La restrizione è giustificata nella misura in cui si tutela un interesse collettivo previsto da una norma giuridica (legislativa, amministrativa o giudiziale); tale interesse deve essere però necessario ad un sistema democratico e deve adempiere ad un bisogno sociale imperativo. La limitazione inoltre deve essere proporzionale rispetto al diritto da tutelare. Il bisogno sociale che giustifica la limitazione del diritto, infine, deve essere oggetto di un consenso tra i paesi del Consiglio d'Europa, consenso che però, ammette l'autrice, non costituisce un test affidabile, essendo il rinvenimento di tale common ground tra le legislazioni dei paesi aderenti alla Convenzione una valutazione discrezionale della corte. In generale, lamenta l'autrice, il Tribunale presenta ancora una giurisprudenza poco coerente. La dottrina del margine di apprezzamento rimane una tecnica a completa disposizione dei giudici che se ne servono partendo dalle esigenze del caso concreto (come dimostra l'andamento altalenante del Tribunale nell'applicazione di tale dottrina a seconda del paese responsabile dell'infrazione). In questo modo, però, non si indicano con maggiore precisione i principi che governano l'applicazione di tale dottrina in modo da predisporre dei precedenti vincolanti per casi simili, anche se, secondo l'autrice, si può individuare un minimo standard di protezione "rappresentato essenzialmente da due elementi principali: il nocciolo duro dei diritti e il rispetto dei valori democratici" (179).

La seconda e terza parte del volume costituiscono l'applicazione pratica degli strumenti approntati nella prima parte. Per questa ragione i saggi verranno presentati in questa sede in modo più rapido rispetto a quelli della prima parte, pur cercando di offrire una panoramica degli argomenti trattati dai singoli autori.

La seconda parte ha per oggetto questioni lato sensu 'eticamente sensibili' e come i soggetti nazionali (corti, Corti costituzionali e legislatori) affrontano tali questioni alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia e del Tribunale europeo dei diritti umani. Vengono così discussi diversi temi: 1) la regolazione dell'eutanasia e del suicidio assistito (con una analisi della Convenzione di Oviedo e della Carta di Nizza), 2) il diritto alla vita familiare degli stranieri, comunitari e non, con particolare riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia e alla sua ricezione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (questione che si riallaccia al tema della cittadinanza europea), 3) i diritti dei minori (a partire dalle sentenze di condanna del Tribunale europeo sul tema delle legislazioni discriminatorie nei confronti dei figli illegittimi), 4) il matrimonio tra persone dello stesso sesso, 5) il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali (con particolare enfasi al problema del bilanciamento tra privacy e sicurezza) e infine il riconoscimento dei diritti all'identità sessuale dei transessuali. Questa ultima vicenda ci sembra di particolare poiché su tali questioni la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è piuttosto efficace: da una parte costringe il legislatore inglese a modificare la legislazione al riguardo, dall'altra fornisce alla Corte di Lussemburgo gli argomenti che costituiranno la ratio nel decidere diversi casi di discriminazione fondata sul sesso.

La terza parte affronta una serie di questioni che rientrano nel tema, generalissimo, della tutela di identità culturali, politiche, religiose, di genere, attraverso il diritto. Le questioni trattate riguardano 1) la tutela dei diritti delle minoranze, 2) il pluralismo dei mezzi di informazione, 3) il rapporto tra diritti fondamentali e Islam, 4) la rappresentanza politica femminile. Anche se in questa parte del libro ci sembra di notare una certa discontinuità per quanto riguarda l'analisi 'multilivello' del discorso su tali questioni, riteniamo particolarmente felice il contributo di Bruno De Witte sulla tutela dei diritti delle minoranze, in quanto pone l'accento sull'intreccio tra argomentazioni giuridiche e argomentazioni 'politiche' (allorquando la tutela dei diritti delle minoranze diventa condizione per l'accesso alla Unione), mostrando come, anche in questo caso, non si possa sostenere l'insularità del discorso giuridico.

Chiude il libro una quarta parte sugli aspetti 'filosofici' della discussione sui diritti fondamentali. Due sono le questioni generali affrontate: da una parte la convivenza tra le culture, dall'altra il concetto, il significato da attribuire al termine 'diritti fondamentali'. Circa la prima questione l'autore (Carmine Di Martino) cerca di superare la dicotomia relativismo/etnocentrismo occidentale attraverso la "pratica" del riconoscimento delle alterità. Tale pratica parte da due presupposti: l'esistenza di una "umanità comune" e una morale basata sulla virtù del dialogo tra le tradizioni culturali. Il saggio di Maria Zanichelli mette in luce le varie giustificazioni dei diritti fondamentali, il loro ruolo di fondamento della validità giuridica e l'impossibilità di ridurli a pretese riconosciute dall'ordinamento. I diritti fondamentali, inoltre, non possono essere ridotti ad un'interpretazione individualistica del legame sociale, ma implicano un'assunzione comune di responsabilità al fine di tutelare la dignità umana.

Pur presentando contributi qualitativamente non omogenei, e non sempre centrati sulla prospettiva di analisi del dialogo tra le corti (come nel caso di alcuni saggi della seconda e terza parte), ci sembra che il testo si segnali come una lettura utilissima per un pubblico variegato di studiosi. Diversi campi delle scienze giuridiche si intersecano con una prospettiva di analisi, quella del dialogo intergiudiziale e della tutela multilivello dei diritti, che difficilmente trova spazio nell'immagine dell'ordinamento giuridico che la tradizione positivista ci ha consegnato, pur nella continua 'epifania' della crisi di tale modello segnalata da diversi filosofi del diritto. È allora sicuramente utile, diremmo necessario, fare i conti con questa 'crisi' a partire da uno dei suoi fenomeni più rilevanti. In questo caso filosofi del diritto, costituzionalisti, comunitaristi ed internazionalisti hanno certamente di che di discutere facendo tesoro degli strumenti che questo importante testo ci offre.

Francesco Biondo