2007

L. Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano 2007, p. 104, ISBN 978-88-04-56321-1

Proseguendo il suo sconfinamento nel territorio della storia contemporanea, e segnatamente dell'attualità politica - sconfinamento che da eccezione sembra essere diventato una consuetudine del suo percorso intellettuale - lo storico dell'antichità Luciano Canfora coniuga, anche in questo breve pamphlet, analisi storiche e considerazioni sul presente. Riflesso della straordinaria erudizione del suo autore, questo libello, per quanto conciso, affianca ad una disamina storica acuta e documentata, una serie d'aneddoti e di fatti paradigmatici e difficilmente reperibili altrove. Tra i tanti, si distingue la riesumazione dell'«affaire Bustani» - direttore generale dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche - astutamente eclissato dai governi occidentali coinvolti nella guerra d'occupazione iraquena, e presentato da Canfora come "la prova esplicita del carattere premeditato, oltre che ingiustificato dell'aggressione anglo-americana all'Iraq" (pp.65-66).

Nel libro si narra la storia fallimentare dell'esportazione imperiale della libertà attraverso quattro vicende emblematiche: la politica di potenza di Atene e di Sparta, la campagna napoleonica, la parabola dell'URSS e, last but not least, il «fondamentalismo umanitario» made in Usa.

L'operazione di demistificazione sottesa a tutto il volume non viene tenuta celata: "le vicende raccontate in questi capitoli mettono in luce come il programma di esportazione di idealità e di modelli politici (libertà, democrazia, socialismo ecc...) «copra» sempre in realtà esigenze di potenza" (p.74).

Attraverso ricostruzioni storiche avvincenti e parallelismi vertiginosi il lettore è condotto a prendere atto di come i programmi protesi alla «esportazione della libertà», siano soggetti, per dirla con Edgar Morin, al "principio di entropia dell'azione", che tende a degradare il senso originario dell'azione fino a dissolverlo e a dissolvere l'azione stessa nel gioco delle inter-retroazioni che essa suscita e che finiscono per sommergerla.

Così Atene dopo essere stata la protagonista della «liberazione» dei greci dallo spettro dei persiani, diventò loro oppressore, e "l'alleanza sorta sull'onda della vittoria sulla Persia per portare la libertà (l'indipendenza) ai greci d'Asia si venne trasformando in ferreo meccanismo imperiale di repressione dei greci già «liberati»" (pp. 8-9).

Una medesima "torsione" e un analogo fallimento dell'«esportazione della libertà» si è verificato, in epoca moderna, nel trapasso dalla rivoluzione interna alla guerra esterna per mano di "Bonaparte Liberatore": "la guerra che «portava libertà» e democrazia al resto d'Europa si trasformò in guerra di conquista ammantata da un sempre meno credibile paravento ideologico" (p. 23).

L'a. prosegue la sua breve fenomenologia dell'esportazione entropica della libertà, attraverso la dissoluzione dell'URSS presentata come "storia della gestione, crisi e dissoluzione del capitale di prestigio conseguito per aver «portato la libertà» all'Europa" (p.35). Per narrare questa vicenda, viene scelto il caso dell'annessione dell'Ungheria entro l'orbita sovietica. Il caso ungherese serve all'a. per mettere in evidenza come "le procedure di esportazione militare manu militari di un modello politico-sociale (considerato irrinunciabile e perciò meritevole persino di un disastroso crollo d'immagine) non si possono ripetere più volte" (p.45). La «normalizzazione» imposta alla ribelle Ungheria nel 1956 ebbe successo dal punto di vista sovietico, ma, dieci anni più tardi, l'abbattimento armato di Dubcek non riuscì a produrre un esito analogo.

Per la comprensione dell'intreccio tra «esportazione di libertà» e «politica di potenza», non vi è tuttavia vicenda più esplicativa di quella afghana. Dopo essere stato al centro per quasi un secolo del "grande gioco" tra Russia Cina e Inghilterra, l'Afghanistan è divenuto il destinatario privilegiato dell'«esportazione della libertà» e della democrazia da parte di diversi soggetti imperiali. Come ricostruito puntualmente da Canfora, sullo sfondo di un intricato quadro geopolitico furono dapprima i sovietici ad intraprendere l'azzardata iniziativa di «liberare» l'Afghanistan dalla dittatura filocinese, per insediare una fazione filosovietica (Parcham) protesa a realizzare un programma di laicizzazione graduale, alfabetizzazione di massa e liberazione delle donne dall'oppressione fondamentalista islamica" (p.55). In seguito agli attentati del 2001, l'Afghanistan è divenuto oggetto delle mire dell'impero statunitense, che ha trasformato nella retorica pubblica i suoi vecchi alleati in chiave antisovietica nel nemico primario al vertice dell'«Asse del Male». Sebbene gli afgani continuino ad essere stretti tra lotte intestine, per l'ennesima volta - riconosce Canfora con un certo sarcasmo - la «libertà» è stata instaurata in quel martoriato paese.

Infine, e non poteva essere diversamente, viene menzionato l'Iraq. Anche in questo caso, dopo il bluff delle armi di distruzione di massa, e vista l'impossibilità di presentare i diritti calpestati della minoranza curda come justa causa belli, per il comportamento altrettanto delittuoso adottato nei loro confronti dalla Turchia, stretto alleato degli Usa, la «coalizione dei volenterosi» ha fatto ricorso all'argomento dell'«esportazione della libertà».

La lunga e "sciagurata" storia dell'esportazione della libertà da parte degli Stati Uniti viene bene, se pur brevemente, abbozzata da Canfora, il quale ricorda alcune tappe significative di questo percorso: dal golpe dei generali cileni contro Allende in Cile, al reiterato appoggio statunitense ai «Khmer rossi» affinché mantenessero, benché sconfitti, il seggio della Cambogia all'Onu fino al 1993.

Opportunamente l'a. ricorda come negli ultimi anni gli Stati Uniti abbiano impresso due svolte significative all'«esportazione della libertà»: la caduta dell'Unione Sovietica ha consentito all'impero di Washington di intervenire non più indirettamente, ma direttamente in tutte le aeree di interesse attraverso la trovata dell'«intervento umanitario»; in secondo luogo, l'inattuabilità oggettiva del progetto di esportazione globale della libertà ha spinto l'amministrazione statunitense ad una sua rimodellazione logico-retorica: non potendo intervenire in tutti i luoghi in cui l'assenza di libertà lo richiederebbe, occorre concentrarsi solo sugli «Stati canaglia», vale a dire quegli Stati che oltre ad essere macchiati dal moderno peccato originale della «non-libertà», sono responsabili di turbare la pace del «mondo libero» attraverso l'arma del «terrorismo» (pp.74-75).

Non mancando di riconoscere giustamente come certe aeree del medio-oriente corrispondano effettivamente al profilo della retorica della libertà, Canfora ascrive agli Stati Uniti, attraverso un'argomentazione inusuale ai nostri giorni, la responsabilità dell'attuale deriva verso la possibilità della "barbarie" globale a causa dell'ascesa incontrollata ed incontrollabile del fanatismo islamico.

Così scrive: "Se oggi esso è, al di là degli eccessi retorici con cui se ne parla, il principale «pericolo» per la pax americana, ciò dipende dalla scelta di far fallire comunque la diffusione del modello sovietico nel mondo arabo-islamico oltre i confini dell'ormai laicizzata «Asia sovietica»" (p. 77).

Così dicendo, la «coesistenza pacifica» che caratterizzava lo scorso «ordine mondiale» sembra venire presentata nostalgicamente come una declinazione del «male minore» in confronto allo scenario oscuro di un «nuovo disordine mondiale» incentrato sulla «Guerra globale contro il Terrorismo».

In conclusione, come tutti i pamphlet, anche questo intende rivolgersi tanto ai governanti quanto al 'popolo', oggi trasformato in opinione pubblica. Ai primi sembra suggerire di non "ripetere l'errore", ricordando con le parole di Robespierre che "l'idea più stravagante che possa nascere nella testa di un politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici".(p.21) Mentre all'opinione pubblica questa demistificazione della retorica della libertà e dei diritti umani dovrebbe insegnare ad evitare di cadere in un ingenuo idealismo umanitario che pretenderebbe - come nel caso citato di Bernard-Henry Lèvy che rivendicava un intervento immediato dell'Occidente in Darfur - che le strumentali maîtres mots del nostro tempo trovassero sempre applicazione nella realtà.

Alessandro Calbucci