2005

G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Habermas e Derrida, Laterza, Bari 2003, pp. 220, ISBN 88-420-6831-4

Il testo raccoglie due dialoghi dell'autrice con due dei maggiori filosofi contemporanei, Habermas e Derrida, sul tema del terrorismo e dell'eredità dell'Illuminismo dopo l'evento dell'11 settembre 2001. La possibilità di un confronto tra le letture di Habermas e Derrida appare stimolante, perché consente di valutare questioni politiche attuali, attraverso le teorie di due intellettuali in cui è centrale il ruolo del linguaggio e della comunicazione, sebbene in modi estremamente differenti. Rigoroso, puntualmente argomentativo Habermas; simbolico, a volte tortuoso, seppur fascinosamente, Derrida. Nel discorso di Habermas le parole-concetti si snodano criticamente e fenomenologicamente rispetto alla realtà che vogliono interpretare, in quello di Derrida ogni parola-concetto è come una fonte da cui sgorgano significati etimologici tramite cui poi si scorge l'ambivalenza di ciò che si credeva indiscutibilmente categorizzato.

In sede introduttiva Borradori evidenzia come Habermas e Derrida siano allineati su un'interpretazione della responsabilità filosofica come critica sociale, riconducendosi al modello di partecipazione pubblica del filosofo rappresentato da Hannah Arendt. Entrambi si pongono in continuità fondamentale rispetto all'Illuminismo. Per Habermas il cui legame con l'Illuminismo è noto, la condizione attuale è definibile come "il progetto incompiuto della modernità" e tale progetto richiede l'assenso a principi la cui validità è universale, poichè non dipende da alcun contesto storico e culturale. Più ambigua la relazione di Derrida con l'Illuminismo; sebbene nel corso degli anni Ottanta egli sia stato definito postmoderno e, di conseguenza, ritenuto, nei dibattiti dell'epoca, in contrasto con l'Illuminismo, l'approccio di Derrida all'etica e alla politica implica la messa in discussione dei contenuti di questo ideale. "Per Derrida, giustizia e libertà richiedono un senso di responsabilità incondizionata davanti all'altro e alla sua differenza[...].Nella sua interpretazione, questa accezione di responsabilità prosegue chiaramente la ricerca di universalità propria dell'Illuminismo" (p. 18).

Borradori fa ruotare il dialogo con Habermas attorno ad alcune domande sul terrorismo: esso è un difetto della comunicazione? Come si verifica? Chi ne è responsabile? Habermas argomenta che la minaccia del terrorismo globale ha accelerato la necessità del passaggio su scala mondiale dal diritto internazionale classico a un nuovo ordine cosmopolita. L'autrice ricostruisce, nel capitolo di commento, accuratamente e rapidamente i passaggi fondamentali della filosofia politica habermasiana, dall'enfasi sulla sfera pubblica all'azione comunicativa al rilancio dell'universalismo e delle categorie della modernità. Dal dialogo emerge l'idea che "il terrorismo è una patologia comunicativa che si nutre del suo stesso nucleo distruttivo" (p. 71). La globalizzazione in quest'ottica può essere interpretata come una patologia comunicativa. Borradori discute l'interpretazione della modernità in Habermas, per comprendere la sua visione del fondamentalismo religioso e del terrorismo globale, attraverso l'analisi che Habermas (come Derrida) fa di un altro filosofo, Benjamin. Innanzitutto si nota che per Habermas "ogni religione comporta un fondamento dogmatico di fede, e questa è la ragione per cui ogni religione ha bisogno di un'autorità" (p. 79). La modernità confina la religione all'interno della dimensione spirituale della vita, allontanandola dal controllo politico della sfera pubblica, ma pretende che essa accetti a livello conoscitivo, la sua posizione in una società pluralistica. Ne deriva che la tolleranza esiste come condizione dell'universalismo rigoroso preteso dalle società pluraliste moderne. Ora, mentre Derrida rifiuta il concetto di tolleranza per il suo carattere paternalistico, per Habermas invece la tolleranza è giustificabile solo se viene praticata nel contesto di una società democratica. Il fondamentalismo, quindi, appare per il filosofo tedesco come una reazione violenta al progetto della modernità. L'intenso coinvolgimento di Habermas nel tema della modernità deriva, peraltro, dal suo timore che l'orientamento postmoderno favorisca l'irresponsabilità politica. Habermas vede appunto Benjamin come diretto antecedente di Derrida, "a causa del senso messianico che attribuisce al periodo moderno" (p. 86). Benjamin "pensa al passato come un insieme di aspettative inappagate per il quale il soggetto moderno si dovrebbe ancora sentire responsabile perché è solo in base a questa invocazione proveniente dal passato che il futuro può essere affrontato come totalmente nuovo" (p. 88-89). Ed è proprio questa idea che, secondo Borradori, Habermas ritiene pericolosa, poiché costruisce il futuro come risposta all'invocazione quasi messianica del passato.

Il dialogo con Derrida, invece, si delinea attorno al tema del perdono che non emerge esplicitamente, ma che viene discusso dall'autrice nel capitolo di commento. Derrida, nella sua prospettiva decostruzionista, ricerca nel significato di perdono la radice abramica che lega il perdono con la possibilità dell'espiazione, opponendosi sia alla simmetria tra punire e perdonare sia all'opposizione concettuale binaria che la struttura. All'inizio del dialogo Derrida, cerca di analizzare il senso dell'11 settembre e ritiene che esso non possa essere definito come un "major event", un evento di portata storica. Piuttosto la categoria concettuale che lo descrive al meglio è quella di impressione: e proprio l'insieme di impressioni inautentiche proposte di media "ha dato luogo alla convinzione, piuttosto che alla vera e propria idea, che l'11 settembre fosse un evento mondiale di considerevole importanza" (p. 160). Derrida considera l'11 settembre come il sintomo di una crisi autoimmunitaria in corso all'interno del sistema che avrebbe dovuto prevederla. In pratica il mondo Occidentale stesso ha prodotto la forma di terrorismo che si è concretizzata nell'11 settembre. E qui il discorso non è solo simbolico: in effetti l'evento dell'11 settembre si è realizzato attraverso la formazione e l'acquisizione di tecniche e conoscenze occidentali da parte dei terroristi.

Il filosofo della grammatologia nota che non è più possibile distinguere tra le categorie di guerra e terrorismo e tra le varie forme del terrorismo (nazionale, internazionale, di Stato, ecc.). Nel corso del dialogo vengono affrontati come temi principali, i concetti di religione, tolleranza, violenza e giustizia, sovranità. Derrida individua due elementi contenuti nell'esperienza religiosa occidentale: la sacralità e il debito. "Con l'espansione della cristianità, la religione si è focalizzata sempre di più sul debito e sull'obbligo, distanziandosi progressivamente dal senso di sacralità" (p. 167). L'esperienza della religione allora, per il suo nucleo abramico, non consente un'autentica apertura verso l'altro. Solo decostruendo la religione com'è ora concepita si può prenderne parte raggiungendo l'altro e rompendo il circolo dell'obbligo. Questa nozione di apertura verso l'altro si lega al perdono incondizionato. Tuttavia, per Derrida tale discorso non implica la dimensione della tolleranza espressa da Kant; il filosofo francese preferisce invece introdurre l'idea dell'ospitalità: "Il vantaggio dell'ospitalità rispetto alla tolleranza è che si presta come il perdono ad essere pensata nel doppio registro, condizionato e incondizionato. Infatti, per Derrida la tolleranza altro non è se non l'ospitalità incondizionata" (p. 174). Ora, chiaramente, l'ordine internazionale moderno e contemporaneo si fonda sull'idea dell'ospitalità condizionata o della tolleranza; tuttavia, per il filosofo francese, la giustizia è situata al di là della legge. La legge è il prodotto delle dinamiche storiche, sociali e politiche, mentre la giustizia trascende queste dimensioni ed è assoluta. Ora, secondo la lettura che Derrida da di ciò che Benjamin chiama "violenza fondatrice del diritto", "la fondazione del diritto eccede i confini della legalità" (p. 178). Questo passaggio è importante perché indurrebbe, riguardo la questione del terrorismo, a pensar che esso sia l'espressione della "violenza fondatrice". Ma, il terrorismo dell'11 settembre manca dell'elemento della proiezione verso il futuro e dell'interesse per la perfettibilità del presente che si identifica con la domanda di giustizia. Di qui la sua ingiustificabilità. Si manifesta una particolare e complessa, certamente aporetica, concezione della giustizia in Derrida: affinchè una decisione sia giusta è necessario che essa contemporaneamente conservi la legge e la distrugga o la sospenda a sufficienza, per dovere ogni volta rigiustificarla e reinventarla. In quest'ottica si esplica anche la necessità espressa dal filosofo francese di "tenersi dalla parte dei diritti umani" (p. 142). L'ultimo tema che viene sviluppato riguarda l'idea di sovranità e la difficoltà correlata di stabilire un diritto internazionale senza un governo mondiale. Diventa importante il ruolo dell'Europa, che, tuttavia, per Derrida, non è da intendersi, istituzionalmente, come Comunità europea, quanto piuttosto come dimensione culturale, quasi simbolica. Europa è "il nome della testata della cultura, l'intestazione esemplare di tutte le culture" (p. 184).

Sebbene i discorsi dei due filosofi siano sovente criticabili per eccessi idealistici (come per Habermas) o simbolico-culturali (come per Derrida), non per questo essi possono essere ritenuti inadeguati per spiegare gli eventi socio-politici contemporanei. Perché, in fondo, la sfera politica resta incomprensibile autenticamente, senza considerarne coscienziosamente i suoi elementi ideali e simbolici: davvero ingenuo sarebbe credere che possa essere ridotta a dimensioni esclusivamente (o elusivamente?) procedurali o istituzionali.

Francesco Giacomantonio