2005

J. Bhagwati, In Defense of Globalization, Oxford University Press, Oxford 2004, trad. it. Elogio della globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. X-418, ISBN 88-420-7398-9

L'economista indiano Bhagwati insegna alla Columbia University, è consigliere dell'ONU e del WTO e viene da molti considerato il più illustre alfiere odierno della causa liberoscambista. Il suo In Defense of Globalization, apparso nel 2004 e adesso tradotto in italiano, racchiude il distillato di una riflessione pluridecennale. Si tratta di una lettura istruttiva, specialmente perché contribuisce a dissipare alcuni diffusi stereotipi sui liberoscambisti. Secondo questi luoghi comuni, saremmo davanti a esaltatori fanatici delle sacre virtù del mercato, evocate prescindendo dai fattori politici e culturali dei vari contesti istituzionali. L'operazione ideologica condotta da Bhagwati consiste invece, in primo luogo, nell'elogiare la globalizzazione dell'economia, distinguendo però tra la liberalizzazione del commercio, quasi sempre 'buona', e quella del conto capitale (ossia dei movimenti di capitale), spesse volte troppo repentina, speculativa e destabilizzante. In secondo luogo, egli riconosce l'esigenza di un 'volto umano' della globalizzazione, ma sostiene che esso tende già a realizzarsi, sia mediante gli afflati umanitari di individui ed organizzazioni, sia indebolendo, in nome dell'interesse collettivo, le ambizioni eccessive di lobby politiche ed economiche soprattutto americane: le due grandi forze del XXI secolo sono infatti, a suo avviso, la globalizzazione economica e la crescita della società civile in molti paesi, ed esse si imbrigliano a vicenda ottenendo un esito bilanciato (p.304. Il messaggio complessivo appare rassicurante: vi è un modo per salvaguardare i mercati sani da quelli selvaggi, così come vi è un modo per autoriformare le maggiori arene istituzionali; gli estremismi dei no-global sono insensati, poggiando su fraintendimenti o su falsi ragionamenti.

Questo schema ideologico viene articolato lungo 400 pagine. La riduzione degli ostacoli al flusso degli scambi e degli investimenti a livello mondiale non viene presentata come un processo naturale di successo della Mano Invisibile, bensì come il frutto di precisi illuminati interventi governativi (p.17): è quindi la politica che consente ai mercati di liberarsi; non è l'economia a reggere le opportunità della politica, come avrebbe affermato un liberoscambista fino agli anni Trenta. Ma non qualsiasi liberismo va bene. Esistono molteplici forme di integrazione economica: il commercio estero, l'investimento diretto estero da parte delle multinazionali, i flussi di portafoglio a breve termine, la diffusione della tecnologia e la migrazione internazionale. Lo snodo problematico riguarda il nesso causale che corre tra tali forme. Bhagwati sostiene che «il commercio fa aumentare la crescita, e la crescita riduce la povertà» (p.74) -, mentre i movimenti di capitale spesso spingono verso un "capitalismo finanziario d'assalto" (p. 272). È questa una tesi che fa tornare in mente alcuni incisivi brani critici di Marx, nei quali si ironizza su coloro che vogliono la merce ma non il capitale, come se l'una non dovesse necessariamente convertirsi nell'altro. Si tratta peraltro di una posizione che oggi accomuna il liberoscambista Bhagwati ai liberal Joseph Stiglitz e Paul Krugman o a neo-socialdemocratici come David Held (cfr. Governare la globalizzazione).

Passando al 'volto umano' della globalizzazione, esso viene creato in alcuni casi, sottolinea l'autore, direttamente dai mercati, come quando "sono le stesse imprese a imporsi standard più elevati per la produzione destinata al mercato interno, in modo che la concorrenza straniera sia costretta ad adeguarvisi o a perdere la propria fetta di mercato" (p. 205). In altri casi abbiamo quello ch'egli chiama un 'effetto Dracula': "si espone il male alla luce del sole e questo si ridurrà fino a sparire" (p. 340), poiché "l'imbarazzo, e ancora di più la vergogna e il senso di colpa, sono strumenti con cui si può esercitare una pressione tremenda" (p. 330). Le volte in cui ciò non succede, "l'unica possibilità è controbilanciare il disinteresse privato convogliando [sui paesi in via di sviluppo] l'aiuto pubblico, l'assistenza tecnica e l'altruismo delle corporations" (p. 223). Infine, "per mitigare il lato oscuro che la globalizzazione mostra ogni tanto, [può rivelarsi] opportuno un cambiamento istituzionale a livello internazionale" (p. 46). Al riguardo Bhagwati svolge - nelle pagine migliori del volume - acute analisi delle incoerenze d'azione e della subalternità a interessi particolaristici di Banca mondiale e FMI (pp. 349-356) e del WTO (pp. 114, 142-144, 250-255). Nondimeno l'a. si mantiene ottimista, ritenendo che "man mano che l'integrazione dei mercati mondiali dei capitali diventa più marcata, [essa] viene controbilanciata da una serie di istituzioni forti, che comprende anche i sindacati e i partiti socialdemocratici" (p. 138); oppure che "lo sviluppo di innovazioni tecnologiche più rispettose dell'ambiente viene sollecitato dalle norme anti-inquinamento [...] perché vi è una maggiore consapevolezza dei problemi ambientali, [e di ciò] va riconosciuto il giusto merito alle organizzazioni ambientaliste" (p. 197). Insomma è la società civile mondiale a rimediare alle (poche, ma non lievi) pecche dei mercati. Quella di Bhagwati è una posizione che finisce per convergere con quella, pur meno iperottimistica, dei riformisti di sinistra: i mercati non si autoregolano sempre e comunque; la politica e l'etica soccorrono, senza intralciarlo, il loro appropriato funzionamento.

In chiusura, è gustoso menzionare le battute polemiche che l'autore dissemina contro un altro famoso economista indiano, Amartya Sen: il modello tanto decantato da Sen dello stato indiano del Kerala, che poneva enfasi su salute e istruzione e scarsa attenzione alla crescita, è in crisi (p. 20); la nota tesi di Sen secondo cui la democrazia evita le carestie è falsa come apparve quando, nell'India del 1967, "fu proprio la democrazia a rendere più difficile la lotta contro la fame [...] L'India è una democrazia federale e ciascuno stato gestisce autonomamente le aree dedicate alla produzione alimentare. Gli stati che avevano surplus di scorte non ne permettevano l'invio a Bihar" (p. 137). meno gustose sono invece le tante battute di Bhagwati sui problemi enfatizzati dai no-global. Qualche esempio. Coloro che nutrono i più virulenti sentimenti anticapitalistici, vengono allevati nelle "facoltà di letteratura inglese, letterature comparate e sociologia" (p. 22), sotto l'influenza di Derrida e Foucault, "un doppio influsso malefico, di cui dobbiamo essere grati a Parigi" (p. 23). "La Nike e la Gap, due ottime multinazionali, sono tenute d'occhio da una organizzazione permanente di critici, con siti web e newsletters in tutto il mondo. Dal momento che la Nike e la Gap operano oltremare in numerose località, non è possibile che riescano ad evitare tutte le scorrettezze e certi comportamenti che potremmo definire non troppo ortodossi" (p. 33). Ci si lamenta che la disuguaglianza è in aumento? Ebbene, ciò "potrebbe addirittura portare a conseguenze vantaggiose [...]. Bill Gates non sarà in grado di spendere il suo miliardo di dollari neanche se volesse comprarsi un castello al giorno in Europa, e la sua inconcepibile ricchezza lo spingerebbe, come è accaduto, a spendere gran parte di quei soldi in beneficenza. Alla fine verrebbe fuori che la disuguaglianza più totale potrebbe essere migliore di una situazione di disuguaglianza meno acuta" (p. 93). Vi sono i poveri? Ma spesso essi rimangono tali perché spendono male i propri soldi, acquistando fronzoli anziché beni prioritari; vi è pertanto "grande virtù nelle pressioni quasi paternalistiche per indurre i poveri - con forniture e misure studiate per far mutare i loro gusti - ad assumere cibi più nutrienti, e a fare maggiore uso di acqua potabile, tra le altre cose" (p. 83). "In diversi paesi la prostituzione minorile è molto aumentata, con fanciulle fatte espatriare e vendute ai bordelli. Queste situazioni sono un prodotto della globalizzazione solo nel senso che c'è chi trae profitto [ma vi è un "altro" senso, per un economista liberista, che non sia il "trarre profitto"?] dalla maggiore libertà di movimento attraverso le frontiere" (p.100, parentesi quadra nostra). Si sostiene che i lavoratori delle multinazionali sono sfruttati? "Supponiamo che in un certo posto vi sia lo schiavismo e che i lavoratori vengano frustati tutti i giorni [...]. I critici non demorderebbero nemmeno se le multinazionali frustassero i propri lavoratori soltanto un giorno sì e uno no" (pp. 235-236). Gli ambientalisti sono quasi tutti - sostiene l'a. - o molto giovani o molto vecchi. Questi ultimi, "dopo le tensioni e gli stress di una vita, quando si ritirano a Sanibel Island in Florida o in qualche altro posto al sole abbastanza indulgente con la loro artrite, sono quasi sull'orlo della fossa. E si vedono innumerevoli vecchietti che si dedicano alla protezione delle tartarughe e delle egrette, e finanziano i gruppi ambientalisti" (p. 195). Si contesta il riscaldamento globale del pianeta? Ma esso non è legato alla globalizzazione, in quanto "viene intensificato dall'anidride carbonica emessa dalle vacche indiane con le loro flatulenze" (pp. 217-218). Si prova tristezza nel vedere la 'regina delle scienze sociali' - che può, per fortuna, contare ancora su teorici seri e intellettualmente impegnati - piegata con tale irridente cinica supponenza a fini ideologici.

Nicolò Bellanca