2006

S. Benhabib, The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Press Syndacate, Cambridge 2004, trad. it. I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina, Milano 2006, ISBN 88-6030-024-X, IBAN 9 788860 300249

Il testo è composto da una serie di saggi che costituiscono una rivisitazione delle John Robert Seeley Lectures tenute dall'autrice presso l'università di Cambridge.

La problematica alla quale ognuno di questi saggi è in più modi dedicato è il concetto di appartenenza politica, intendendo con questo termine: "i principi e le pratiche volte a integrare stranieri e forestieri, immigranti e nuovi arrivati, rifugiati e richiedenti asilo, nei sistemi politici esistenti" (pg.1).

Questo concetto, e con esso le realtà politica a cui questo concetto rimanda, è sottoposto a tensioni e mutamenti. Il principio di territorialità, vero punto d'Archimede delle teorie politiche moderne è, per diverse ragioni, entrato in crisi. Di contro a questa crisi si è diffuso, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, un immaginario, ed un regime internazionale dei diritti umani che ha introdotto nel nostro lessico politico concetti come: crimine contro l'umanità, intervento umanitario, migrazioni internazionali. Questi concetti, pur restando secondo l'autrice molto controversi, soprattutto per ciò che concerne il passaggio dalla loro elaborazione teorica alla loro giustificazione coerente e al loro impiego empirico, rappresentano una limitazione del "potere dello Stato di disporre della vita, della libertà e della proprietà dei propri cittadini" (p. 8) su cui la modernità politica si è costituita.

Le analisi di Benhabib si concentrano sulla terza di queste macro aree, le migrazioni internazionali, mettendo in luce come già dalla Dichiarazione Universale si enunci un diritto universale all'attraversamento dei confini senza postulare però alcun obbligo universale di ospitalità da parte degli stati. La situazione non cambia nella Convenzione di Ginevra dove il riconoscimento dei diritti agli stranieri è sottoposto soltanto agli stati firmatari e, sovente, ignorato anche da questi.

A partire da questa fondamentale e dirimente aporia si apre la riflessione dell'autrice ed il suo tentativo di rivisitare le categorie con cui la libera mobilità e l'appartenenza sono state pensate in età moderna.

La teoria habermasiana dell'etica del discorso fornisce la base teorica su cui Benhabib costruisce le proprie analisi; in particolare l'assunto secondo il quale: "a essere valide sono soltanto quelle norme e quegli ordinamenti istituzionali normativi che possono essere accettati da tutti gli interessati in particolari situazioni argomentative dette discorsi" (p. 10). Questo presuppone logicamente che gli attori siano capaci di azioni in grado di mutare l'estensione normativa delle leggi. Di contro le concezioni dell'appartenenza politica fortemente legate al principio di territorialità presuppongono che i soggetti esclusi dalla cittadinanza non possono intervenire come attori coinvolti nella deliberazione delle norme di esclusione e di inclusione. La chance che l'etica del discorso sembra quindi fornire al ragionamento è quella di porre la riflessione su basi più universaliste rispetto a quelle fornite da una concezione classica dell'appartenenza.

Partendo da questi presupposti, nei primi due saggi che compongono il libro, Benhabib mostra lo stato di questa aporia dell'appartenenza politica prendendo le mosse da due degli autori che nella modernità hanno spinto maggiormente ai margini il principio di territorialità: Immanuel Kant e Hannah Arendt.

A Kant viene riconosciuto il merito di aver distinto il "diritto di ospitalità" (Gastrecht) dal "diritto di visita" (Besuchsrecht) suggerendo così la possibilità di un'erogazione di diritti a chi, pur non appartenendo ad un territorio, decide di assumervi temporaneamente la residenza. Pur essendo quella kantiana un posizione avanzata rispetto alle concezione contrattualiste moderne, lo status di questo "diritto di visita" resta per Benhabib fondamentalmente ambiguo. Esso non riesce, infatti, a distinguere tra un diritto fondato su forme di erogazione straordinaria dello stato ed un mero "appello morale al riconoscimento dei diritti di umanità nella persona dell'altro" (p. 24) che si risolverebbe, giocoforza, in una mera dichiarazione di intenti fondata su presupposti metafisici e non operativi. Esso risulterebbe, cioè, sprovvisto di una reale effettività giuridica non basandosi su un potere coercitivo esistente, ma sulla "sola" appartenenza ad una comune dimora terrestre incapace di fungere da vera e propria premessa giustificatoria. Ma quello di Kant rappresenta più di un esempio; esso è per Benhabib un vero e proprio paradigma del paradosso di legittimazione democratica a cui le comunità politiche sono esposte e ci permette di "cogliere le contraddizioni strutturali tra ideali universalistici e repubblicani di sovranità nel periodo rivoluzionario moderno" (p. 34).

Di Arendt viene invece sottolineata l'importanza a partire dalle riflessioni da questa svolte nel testo Le origini del totalitarismo. L'analisi si concentra sull'espressione arendtiana: "diritto ad aver diritti": come intendere questo diritto assolutamente inalienabile di azione e di opinione che in un ordinamento democratico dovrebbe, a qualsiasi condizione, garantire la libera partecipazione? Anche in questo caso si può interpretare questa espressione a partire da un'ingiunzione morale al riconoscimento dell'altro o nella sua accezione giuridica.. La lettura di Arendt sembra orientarsi verso la prima di queste soluzioni. Pur andando in questa direzione sembra però restia alla concezione di un governo mondiale capace di garantire l'effettività giuridica a questo universale presupposto morale. Il paradosso kantiano sembra riproporsi qui sotto altre spoglie.

La parte, per così dire, decostruttiva del libro di Benhabib si conclude con un lunga analisi del testo di John Rawls: Il diritto dei popoli. La domanda sollevata è la seguente: che capacità di tutela giuridica degli individui, e del loro diritto alla mobilità, può avere una teoria della giustizia internazionale sviluppata a partire dalla nozione dei popoli e non da quella di individuo?

La soluzione adottata da Rawls in merito alla definizione di popolo, nel tentativo di non identificare il concetto di popolo con quello di stato, secondo l'approccio delle teorie realiste, rischia di confondere attributi di carattere etico con attributi di carattere sociologico. In altri termini la deriva olistica che porta a considerare i popoli come unità in sé conchiuse è già presente nei presupposti teorici adottati da Rawls: "il popolo - afferma di contro Benhabib - è un aspirazione non un dato di fatto" (p. 66). L'obiezione a questo assunto rawlsiano porta ad una visione più estesa della complessità interna di ogni singolo popolo e della complessità globale che lega i popoli tra di loro. A questo proposito Benhabib si fa portavoce di una prospettiva federalista cosmopolitica che possa rendere conto dei problemi distributivi globali compatibilmente ai principi di autogoverno democratico di ogni singolo popolo.

Veniamo così introdotti nella parte più empirica del testo dedicata alle trasformazioni attuali della cittadinanza ed ai suggerimenti offerti dal paradigma europeo. A questo proposito le ambiguità rintracciate nelle riflessioni di Kant e Arendt sembrano riproporsi con forza. Pur ripartendo dai presupposti universalisti forniti dall'etica del discorso come non ritenere dirimente che il diritto di appartenenza discenda direttamente da un posizionamento etico discorsivo all'interno di una determinata comunità politica? Se su questo piano lo sforzo teorico di Benhabib si rende più decifrabile, cercando di coniugare la teoria politica normativa con la sociologia dello stato e delle istituzioni, esso mostra egualmente le proprie debolezze. Essa passa, da un lato, in rassegna quelli che ritiene gli aspetti teorici più rilevanti della nuova cittadinanza europea, e dall'altro, a partire da questi, suggerisce degli elementi per una teoria democratica che possa, alla luce di un etica del discorso, fondare la cittadinanza su condizioni di accesso più estensive e negoziabili.

Su queste basi viene enunciato il concetto di iterazioni democratiche. La frammentazione della cittadinanza descritta a partire dal modello europeo suggerisce, proprio in virtù della fase teorica embrionale che sta attraversando, una condizione di maggiore fluidità per cui i principi di inclusione vengono continuamente ridiscussi. Questo non può certamente emanciparci dal "paradosso in base al quale gli esclusi non possono partecipare alla decisione in merito alle regole di esclusione e inclusione" (p. 142), ma può consentire, attraverso una concezione giusgenerativa dei diritti, delle forme di iterazione democratica che rendano le norme di inclusione aperte a continui processi di rifondazione riflessiva. Questo aspetto mostra però la grande difficoltà della proposta di Benhabib Se infatti una concezione giusgenerativa dei diritti apre, potenzialmente, degli spazi di maggiore negoziabilità dei diritti, non può essere taciuto il fatto che una concezione realmente giusgenerativa del diritto, dovrebbe comprendere uno spazio di conflittualità non soltanto discorsiva tra soggetti e norme. In altri termini il diritto può divenire costitutivo di diritti se gli attori coinvolti sono, seppur esclusi da determinati diritti, riconoscibili pubblicamente come soggetti giuridici e quindi come attori di potenziali conflitti giusgenerativi. Senza questo presupposto sembra che il rischio di queste iterazioni democratiche possa essere quello di un mero paternalismo illuminato da parte degli inclusi verso gli esclusi.

Come per il "diritto di visita" kantiano e il "diritto ad aver diritti" arendtiano, per ammissione della stessa Benhabib, il paradosso non è sorpassato. Se questo testo ha sicuramente il merito di aver messo il dito in uno dei paradossi fondanti la concezione moderna dell'appartanenza politica; d'altro lato rischia di non vedere come l'etica del discorso possa farci confondere i confini mutevoli e negoziabili dei nostri discorsi con quelli difficilmente valicabili delle nostre comunità politiche.

Nicola Marcucci