2005

M. Baghramian, A. Ingram (eds), Pluralism: The Philosophy and Politics of Diversity, Routledge, London 2000, pp. 267, ISBN 0-415-22714-3

Pluralism ha il merito non indifferente di essere la prima raccolta di saggi in cui si cerca di coniugare l'approccio filosofico e quello più strettamente socio-politico nell'affrontare uno dei temi di più scottante attualità nel dibattito contemporaneo. Il volume è diviso in tre parti, ciascuna delle quali approfondisce la questione del pluralismo in una particolare ottica disciplinare. Nella prima parte sono ripercorsi origini e problemi nell'analisi filosofica del pluralismo. I saggi contenuti nella seconda parte discutono la dimensione politica del pluralismo e i suoi rapporti con il liberalismo. Nella terza parte, infine, si considerano le implicazioni pratiche del pluralismo in relazione alle diversità culturali.

Il saggio che apre il volume, ad opera di James O'Shea ha un intento prevalentemente storico. L'autore, esaminando l'opera di William James, intende dimostrare come il dibattito attuale intorno al pluralismo sia stato largamente anticipato dal filosofo pragmatista americano. O'Shea ritrova nell'elaborazione di James i principali snodi problematici ancora in discussione. In particolare, in James è presente la prima consapevole elaborazione dell'idea di schema concettuale. Secondo James possiamo infatti considerare il pluralismo come questione di differenze a livello di schemi concettuali: culture diverse, tradizioni diverse, teorie diverse si distinguono tra loro per il fatto di adottare schemi concettuali differenti, ovvero modi diversi di descrivere e valutare la stessa realtà. Questi schemi, inoltre, secondo James, riflettono nella loro origine le divergenze di bisogni e di interessi dei diversi soggetti. Ovviamente, l'idea di una pluralità di schemi concettuali non è andata esente da critiche. Nel secondo saggio Maria Baghramian presenta l'argomento antirelativistico più noto e più citato nella letteratura contemporanea. Si tratta dell'argomento di Donald Davidson contro l'idea stessa di schema concettuale. Il senso generale della critica di Davidson può essere riassunto dicendo che l'idea di una pluralità di schemi concettuali è auto-contraddittoria. Infatti per rendere ragione di una reale pluralità di schemi concettuali dovremmo disporre di un punto di vista superiore ai singoli schemi e non pregiudicato da essi; proprio quanto il teorico degli schemi concettuali nega. Baghramian riassume efficacemente il contenuto dell'argomento di Davidson ma sostiene, sulla scorta di alcune recenti elaborazioni prodotte da John McDowell, che la critica di Davidson è superabile e quindi che l'idea di schema concettuale non è del tutto priva di capacità esplicative. Nel terzo saggio Philip Pettit espone la propria ipotesi per un «prospettivismo ragionevole». Pettit esordisce notando come una certa ammissione di pluralismo sia inevitabile: è la nostra stessa incapacità a ricostruire un significato obbiettivo e invariabile per le parole che utilizziamo a costringerci ad ammettere una certa variabilità nei modi di descrivere le cose. Ciò non significa, tuttavia, che non sia possibile stabilire rapporti tra i diversi modi in cui le cose vengono descritte. Secondo Pettit i diversi modi di descrivere le stesse cose possono essere assimilati a prospettive diverse sulla stessa veduta: nello stesso modo in cui un punto di vista ne può ricomprendere un altro senza surrogarlo del tutto, così vi sono modi di descrivere certi fenomeni più comprensivi di altri, anche se questa caratteristica non fa venire meno la necessità euristica di conservare entrambe le descrizioni.

Nel saggio che apre la seconda parte John Gray affronta direttamente la questione centrale del rapporto tra liberalismo pluralismo. Secondo Gray l'argomento tradizionale che sostiene la compatibilità tra pluralismo e liberalismo e, anzi, raccomanda il liberalismo come unica risorsa politica di controllo del conflitto nelle società pluralistiche è fallace. Infatti, un pluralismo «forte» - ovvero un pluralismo caratterizzato dalle seguente tre assunzioni: 1) antiriduzionismo riguardo ai valori: i valori della vita sono molti e non possono essere ridotti gli uni agli altri; 2) disarmonia tra valori: i valori della vita sono spesso incompatibili e talvolta contrastanti; 3) incommensurabilità dei valori: i valori non possono essere organizzati in gerarchie accettabili a tutti gli individui - non è compatibile con il liberalismo. Se il pluralismo forte è il vero pluralismo, allora il pluralismo è incompatibile con i principi politici liberali. Infatti, la dottrina liberale presuppone che i principi liberali non interferiscano con il pluralismo dei valori e con la possibilità da parte di ciascun individuo di perseguire gli obbiettivi che gli stanno a cuore. Ma se il pluralismo forte è vero gli stessi principi liberali possono entrare nel conflitto tra valori contrapposti: il modo in cui i principi liberali risolvono tali conflitti non può essere ritenuto automaticamente corretto. In altre parole, se accettiamo un pluralismo radicale non possiamo ritenere che i principi dello stato liberale possiedano quel carattere sovraordinato che sarebbe necessario per legittimare il modo in cui risolvono il conflitto fra le diverse visioni del bene. Strettamente correlato è il secondo saggio, ad opera di Susan Mendus. Mendus argomenta persuasivamente che il pluralismo nell'età del disincanto non può essere fondato sull'accettazione del pluralismo dei valori e sullo scetticismo morale. Nell'età del disincanto, nella quale viene mancare la disponibilità di un'autorità morale e, come conseguenza, non si può più sperare di risolvere i conflitti tra visioni contrastanti su basi razionali, si manifesta la tendenza a fondare la neutralità liberale sul fatto del pluralismo, sostenendo che un atteggiamento neutrale verso le varie concezioni del mondo è l'unico compatibile con l'esistenza di un'irriducibile pluralità di concezioni del bene. Questa strategia sembra fondarsi alternativamente o sul riconoscimento di un valore intrinseco della natura plurale dei beni, oppure su una professione di scetticismo intorno alle capacità di risoluzione razionale dei conflitti tra valori. Tuttavia, sostiene Mendus, questo genere di fondazione confonde in maniera inopportuna il piano della giustificazione interna delle diverse opzioni morali con il diverso piano della giustificazione pubblica dei principi politici. Nel saggio seguente Jonathan Riley affronta lo stesso tema del nesso fra pluralismo e liberalismo attraverso una ricostruzione della dottrina liberale di Isaiah Berlin. Nell'interpretazione datane da John Gray, Berlin sembra difendere un liberalismo «agonistico»: ovvero sembra sostenere la tesi secondo la quale, data la drammatica evidenza del pluralismo dei valori, la superiorità dei principi politici liberali non è razionalmente argomentabile. In questa mancanza di risorse razionali per difendere i principi liberali si situa la dimensione tragica del liberalismo di Berlin. Riley, tuttavia, ritiene questa ricostruzione complessiva poco persuasiva. Nella sua interpretazione Berlin emerge come un liberale «razionalista» più che «agonista». Secondo Riley in Berlin convivono due anime: da una parte, un'anima «romantica» che riconosce i limiti della ragione e l'incapacità di risolvere razionalmente alcuni conflitti tra valori. Dall'altra, un'anima «illuminista» che si manifesta nella ferma convinzione che almeno una certa classe di conflitti tra valori, e più precisamente quei conflitti che contrappongono i valori liberali ai valori illiberali, possono - e devono - essere risolti razionalmente a favore dei primi. Naturalmente questa interpretazione, conclude Riley, lascia aperti alcuni interrogativi: soprattutto solleva inevitabilmente il sospetto che la distinzione di Berlin tra conflitti razionalmente risolubili e conflitti non razionalmente risolubili sia fatta coincidere ad hoc con quella tra i conflitti che contrappongono valori liberali a valori non liberali. Nell'ultimo saggio della seconda parte Iseult Honohan contrappone al liberalismo la teoria politica repubblicana, sostenendo che quest'ultima affronta più efficacemente le sfide poste dal pluralismo. Honohan riconduce l'opposizione tra liberalismo e repubblicanesimo ai diversi modi di tematizzare la distinzione tra pubblico e privato. Mentre i teorici liberali pongono l'accento sull'aspetto del controllo - pubblico è lo spazio soggetto al controllo dello stato mentre la sfera del privato è quella sottratta a tale controllo - i sostenitori della teoria politica repubblicana enfatizzano la dimensione dell'interesse - la distinzione principale tra sfera privata e sfera pubblica passa attraverso la diversa natura degli interessi in gioco: ciò che è pubblico concerne gli interessi di tutti. Ne segue che i teorici repubblicani si dimostrano maggiormente aperti al pluralismo: in quanto concepiscono la sfera pubblica in termini di interessi, i sostenitori della prospettiva repubblicana sono portati a enfatizzare la dimensione del confronto fra i portatori di valori e di punti di vista distinti. Allo stesso tempo, viene sottolineata la capacità del processo deliberativo di agire come filtro e di operare in favore di un rimodellamento e un adeguamento dei diversi punti di vista che vengono messi in gioco.

Il saggio di Jonathan Wolff - un testo sicuramente eccentrico rispetto alle tematiche complessive del volume e, peraltro, non particolarmente originale - affronta il tema dell'obbligazione politica. Secondo Wolf le diverse teorie dell'obbligazione politica possono essere distinte in relazione al fondamento cui riconducono il sorgere dell'obbligazione: la razionalità - l'obbligazione politica è fondata sull'interesse egoistico, ad es. teorie contrattualistiche - la reciprocità - si tratta di teorie che pongono a fondamento dell'obbligazione politica la proporzionalità tra ciò che si riceve e ciò che si dà, ad es. teorie dell'equità - o la ragionevolezza - sono teorie incentrate su un principio astratto di giustizia, ad es. teorie utilitaristiche. Ora, è abbastanza ragionevole supporre che ciascuna di queste teorie contenga una parte di verità: da questa premessa Wolff deriva l'opzione a favore di una teoria pluralistica, in cui il rapporto di obbligazione dei cittadini verso le strutture statuali è molteplice e attinge a fonti e principi diversi. Il saggio seguente di Martha Nussbaum riassume il contenuto del secondo capitolo dell'ultimo libro del filosofo americano, Diventare persone. Vi viene esposta la teoria delle capacità fondamentali, secondo la quale a tutti gli individui deve essere garantita la possibilità di esercitare un nucleo di capacità fondamentali - tra le quali Nussbaum elenca vita, salute e integrità fisica, sensi, immaginazione e pensiero, sentimenti, ragion pratica, appartenenza, interesse per l'ambiente, gioco, partecipazione politica e diritti al possesso - essenziali affinché una vita possa essere considerata propriamente umana. L'obbiettivo della teoria è quello di elaborare un insieme di principi universali - e tuttavia sensibili al pluralismo delle culture - sulla base dei quali commisurare i diritti garantiti agli individui nelle diverse regioni del mondo e la qualità della vita che possono condurre. L'ultimo saggio, scritto da Will Kymlicka e Raphael Cohen-Almagor, si inserisce nel filone recente della cosiddetta letteratura sul «multiculturalismo». I due autori affrontano alcune questioni centrali in un'ottica multiculturalista: in primis, quella dei diritti collettivi e della loro relazione con i principi liberali. Secondo Kymlicka e Cohen-Almagor bisogna distinguere tra diritti volti alla salvaguardia dei gruppi dalle minacce esterne e diritti che limitano la libertà dei membri del gruppo stesso. Mentre i primi sono in generale ammissibili, i secondi no. Le altre questioni riguardano la tollerabilità di gruppi fondati su principi contrastanti con i principi liberali - ad es. gruppi organizzati al loro interno secondo un struttura teocratica. In questi casi, come si deve regolare uno stato liberale? Deve autorizzare l'esercizio delle norme tradizionali in nome del principio di tolleranza - sempre che queste non contrastino per altri aspetti con l'ordinamento - oppure deve mirare a tutelare, anche negli aderenti ai gruppi tradizionali, il principio liberale dell'autonomia personale? Kymlicka e Cohen-Almagor riconoscono che non esiste una risposta corretta in tutti i casi e tuttavia ciò non impedisce di discriminare, quando ci si confronta con il caso concreto, tra soluzioni migliori e peggiori.

Leonardo Marchettoni