2005

A. Badiou, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2001, pp. 169

Non è facile per un filosofo della politica motivare il proprio essere contro la filosofia politica: è questo ciò che si propone di fare Alain Badiou. Assumendo il pensiero politico come dato oggettivo, tale disciplina si propone di consegnarlo al registro della filosofia. Ad essere così eliminato è, secondo l'a., il reale soggettivo dei processi organizzati e militanti, mentre la politica viene ridotta «all'esercizio del "libero giudizio" in uno spazio pubblico in cui non contano, in definitiva, che le opinioni» (pp. 27-28). Uno degli obiettivi critici di questa impostazione è Hannah Arendt. Propugnando una dottrina del consenso, che rifiuta il tema della verità e dell'identificazione militante della politica, il soggetto della Arendt finisce infatti per essere uno spettatore del mondo. Privandosi delle armi della parzialità militante, secondo Badiou, si intraprende un percorso che porta irrimediabilmente alla subordinazione alla politica esistente e, più nello specifico, alla ratifica ideologica del regime parlamentare o del «capital-parlamentarismo [ossia] la figura statale che regola il suo rapporto soggettivo con lo Stato attraverso tre norme: l'economia, il nazionale, il democratico» (p. 99). Badiou ipotizza l'invenzione di un aristocratismo proletario, capace di svincolarsi definitivamente dalle strette maglie della Storia, di sottrarsi allo Stato e di portare a fondo la critica alla democrazia. Non è questo ciò che fa Rancière, la cui antifilosofia resta democratica ed evita di fare i conti con la parola Stato, preferendogli più comodi sostituti quali società o polizia.

L'essenza della politica, quindi, non consiste nella pluralità di opinioni, ma nella prescrizione della possibilità di una rottura con ciò che c'è, nella singolarità di un evento che, per la sua stessa natura di decisione di parte, non è mai condiviso, anche quando inferisce un elemento di verità universale. La verità può solo essere letta retroattivamente, mai nel fuoco della rottura evenemenziale. È su queste basi che Badiou elabora la categoria di metapolitica, che nasce quindi da un nuovo e differente rapporto tra filosofia e politica: essa non è né un oggetto né ciò di cui bisogna realizzare pensiero e definizioni, «ma soltanto una contemporaneità che produce degli effetti filosofici» (p. 71).

In questa prospettiva le categorie di eguaglianza e giustizia assumono nuova sostanza, nell'emergere della verità politica, nel disordine della contingenza e nella rottura dell'ordine statale. «L'eguaglianza politica non è ciò che si vuole o si progetta, è ciò che si dichiara nel fuoco dell'evento, qui e ora, come ciò che è, e non come ciò che deve essere. Allo stesso modo, per la filosofia, "giustizia" non potrebbe essere un programma di Stato. "Giustizia" è la qualificazione di una politica egualitaria in atto» (p. 114).

Interessante è il confronto con Althusser il cui progetto, secondo l'a., consiste nel tentativo di pensare le caratteristiche della politica dopo Stalin, nell'elemento di una rottura filosofica. Elaborare dunque una politica come processo senza oggetto; una politica non sottoposta alla norma dell'oggettività. Senza soggetto, inoltre, perché questo è per Althusser una funzione dello Stato. O meglio, un soggettivo senza soggetto, ossia un processo di pensiero omogeneo che si esprime nella figura materiale militante senza essere prigioniero né dell'oggettività scientifica ed economica, né dell'effetto ideologico del soggetto statale.

Tuttavia, sostiene Badiou, Althusser si è fermato alle soglie di un procedimento fondativo capace di abbandonare le pastoie del modo filosofico: sarebbe proprio questo che Sylvain Lazarus sta tentando di fare oggi, nella fondazione di una nuova disciplina, l'antropologia del nome. Il nome, sostiene Lazarus, altro non è che il reale, il ché ne rende impossibile ogni definizione. Conseguentemente, nel suo metodo di inchiesta, il nome ('operaio', 'politica rivoluzionaria' ecc.) non va oggettivato, strappato alla sua irruzione soggettiva mediante il quale apre il pensiero. In altre parole, bisogna evitare di nominare il nome, inserendolo così in una totalità: esso preserva la singolarità: «Il nome è sempre l'indice di uno sbilanciamento di ciò che c'è verso ciò che può esserci, o dal conosciuto verso lo sconosciuto» (p. 48). L'antropologia del nome congiunge un possibile e una prescrizione, la sua natura non è descrittiva bensì prescrittiva. Nelle intenzioni di Lazarus, questa disciplina rappresenta un nuovo razionalismo antidialettico, che si pone in rottura con un razionalismo filosofico incapace di un rapporto con il reale. Mentre la filosofia continua a definire la politica, in modo rinnovato o riferendosi esplicitamente alle politiche esistenti, condizione sine qua non dell'antropologia del nome è che la politica resti innominabile, indefinibile.

Il rischio di una simile impostazione è evidente: guardare al nome come elemento in sé, separato e privo di relazioni con l'ordine del discorso in cui è inserito. Nell'apprezzabile sforzo di identificare una politica rivoluzionaria senza cadere in un modello universale desingolarizzato, l'a. sembra talvolta recidere le radici materiali dentro cui quella stessa politica rivoluzionaria può dispiegare la sua irriducibile singolarità. Risulta così giustificata la critica rivolta a più riprese a Badiou e Lazarus da Slavoj Žižek che qualifica come "pura politica" i loro dispositivi teorici, riconducibili in questo senso più a Saint-Just che a Marx.

Anche il movimento di massa, secondo l'a., non è in sé un fenomeno politico: «In quanto tale, il movimento di massa è un fenomeno storico e può essere un evento per la politica. Ma ciò che è per la politica non è ancora politicamente qualificabile. [...] Il movimento di massa è un modo specifico della "consistenza inconsistente" del multiplo nella presentazione storica. È un multiplo sul bordo del vuoto, un sito evenemenziale storico» (p. 87). Elemento fondante del movimento di massa è il legame; al contrario, l'attività politica accede all'evento nella rottura del legame, nello slegamento. La politica di massa non si qualifica dunque in quanto soddisfa gli interessi della maggioranza, ma perché rompe il legame che impone la schiavitù e l'accettazione delle singolarità.

Dalla casistica che l'a. individua nella designazione della politica finiscono per essere esclusi i comportamenti singolari, diffusi e molecolari, che non necessariamente si aggregano in dimensioni collettive, ma che pure hanno una propria intrinseca politicità nel mutamento del quadro costituito. Ciò non sfuggiva ad uno dei maggiori teorici del politico del '900, Carl Schmitt, il quale appuntava la propria ambivalente attenzione - oscillante tra l'ossessiva preoccupazione e il fascino vitale - sul potere costituente del popolo, inteso non tanto come un soggetto quanto piuttosto come un'idea-forza. Il potere costituente è energia che "sfonda" l'istituzione, è l'emergere deflagrante di un'eccezione che non viene messa in forma da un partito o dallo Stato, è la potenza di uno scarto irriducibile.

Si potrebbe quindi indirizzare a Badiou l'osservazione critica che lui stesso rivolge a Rancière, di confrontare cioè delle masse fantasma con uno Stato innominato. In altri termini, Badiou sembra talvolta privare i propri discorsi della "carne" dei soggetti reali e della situabilità in un tempo storico preciso e irripetibile. Nondimeno, Badiou individua con chiarezza la peculiarità del politico in generale, il suo essere azione nell'imprevedibilità, contingenza dell'evento, e per ciò stesso non aderente ai criteri della scienza moderna: «l'attributo reale del partito per Marx o per Lenin, su questo punto in continuità, non è la sua compattezza, ma al contrario la sua porosità all'evento, la sua flessibilità dispersiva nel fuoco dell'imprevedibile» (p. 89). Al contempo, indica efficacemente l'altezza della scommessa con cui un agire rivolto alla trasformazione deve fare i conti: «la questione all'ordine del giorno è quella di una politica senza partito. Il che non vuol dire affatto non organizzata, ma organizzata a partire dalla disciplina di pensiero dei processi politici, e non secondo una forma correlata a quella dello Stato» (p. 139). Da questo punto di vista, anche la parola democrazia può per trovare una diversa collocazione: non in quanto organizzatrice del consenso, ma come verifica, sempre singolare, dell'eguaglianza e della libertà, ossia nella messa a distanza dello Stato.

Gigi Roggero