2005

H. Arendt, Verità e politica, seguito da: La conquista dello spazio e la statura dell'uomo, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 99, ISBN 88-339-1556-5

I due saggi facevano parte della seconda edizione (1968) di Tra passato e futuro, ma non vennero accolti nella traduzione italiana del 1970, che era basata sulla prima edizione del 1961. Come sottolinea il curatore Vincenzo Sorrentino, lo sfondo teorico dei due interventi è Vita activa. La condizione umana, uscito negli Stati Uniti nel 1958; tuttavia, il pungolo per una riflessione sul rapporto tra verità e politica furono le conseguenze delle posizioni assunte dalla Arendt durante il famoso processo ad Adolf Eichmann, criminale nazista giustiziato in Israele negli anni Sessanta.

L'autrice seguì il processo per "The New Yorker", e scrisse poi La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Oltre a soffermarsi sulla mediocrità del carnefice, la Arendt svolse alcune considerazioni sulle responsabilità nello sterminio da parte dei Consigli ebraici d'Europa, che le attirarono dure critiche.

La vicenda non è esplicitamente citata in Verità e politica, ma sono anche queste le "verità di fatto" che vengono richiamate quando in gioco è il complesso rapporto tra la sfera della politica e la ricerca del vero. Per questa strada, la pensatrice di origine ebraica incontra infine un altro dei grandi temi della sua riflessione: il totalitarismo, vale a dire la menzogna organizzata dal potere politico.

Hannah Arendt distingue "verità di fatto" e "verità razionale" anche per accentuare la politicità della prima (tale perché se ne discute, e perché concerne molti), a fronte dell'impolicità della seconda, che è la verità perseguita dai filosofi nella solitudine della riflessione.

Ora, caratteristico di ogni tipo di verità è l'elemento coercitivo contenuto nella sua asserzione di validità (pp. 46-7), che intende sottrarsi al variare dell'opinione, cosa che la rende ostile a ogni detentore del potere, tirannico o democratico che sia. La verità di fatto è non a caso opaca, mentre il pensiero politico è più trasparente perché rappresentativo, nel senso che tiene presente le idee degli assenti, e rende le proprie visibili da ogni lato.

Tipico della verità di fatto è però di informare l'ambito politico senza disporre di un apparato metafisico dietro di sé, ciò che la rende più vulnerabile. Inoltre, la verità di fatto è fragile ma irreversibile, ostinata, resistente agli urti (p. 71). Come disse Clemenceau, la storia è certamente interpretabile, ma nessuno potrà dire che nel 1914 sia stato il Belgio a invadere la Germania.

Contrario della verità di fatto non è l'errore, ma la menzogna, e la menzogna dispone di una grande vantaggio nella sfera politica: è filosoficamente affine all'agire, e si sa come l'azione sia un concetto cruciale della teoria politica arendtiana, perché qualifica l'uomo al di fuori della sfera privata, e lo inserisce in quella più elevata della politica. Anche la bugia mostra la libertà dell'uomo, che sa trascendere la necessità e si dimostra capace di cambiare il mondo.

Quel che la menzogna fa, è l'abusare della libertà di non dire la verità, e da qui alla costituzione dei regimi totalitari, dove tutti mentono o devono mentire sistematicamente, il passo è breve. Caratteristiche della menzogna organizzata sono la violenza e l'autoinganno del quale si nutrono i potenti per ingannare i dominati (mentre in regime di arcana imperii il governante era segretamente consapevole di mentire).

Qui, tuttavia, si produce un paradossale rovesciamento: «Dove tutti mentono riguardo a ogni cosa importante, colui che dice la verità, lo sappia o no, ha iniziato ad agire» (p. 61), nel senso che ha fatto un primo passo nel cambiare il mondo, preservando appunto la verità dei fatti. Mentre con la menzogna totale è la realtà stessa che si dissolve, con la difesa della verità di fatto si difendono le condizioni in cui si può esprimere la grandezza della politica.

Salvare la verità non è però ancora salvare la realtà comune agli uomini: affinché ciò avvenga è richiesto qualcosa di diverso dalla puntualità dei singoli fatti, vale a dire una storia, una narrazione. Anche per questo il saggio si chiude con un rinvio a Omero ed Erodoto: nel primo si coglie la capacità di «considerare alla stessa stregua amico e nemico», con imparzialità; nel secondo, «la radice della cosiddetta oggettività, questa curiosa passione, sconosciuta al di fuori della civiltà occidentale» (p. 76).

Il secondo, più breve saggio, si interroga sulle conseguenze per la visione che l'uomo ha di se stesso con la conquista dello spazio e con i mutamenti che le scoperte della fisica novecentesca hanno introdotto nella rappresentazione della realtà. Ormai lo scienziato può fare molto più di quello che è in grado di comprendere, dotandosi di un apparato concettuale che ha perso ogni legame con l'esperienza sensibile. Il fisico, in particolare, ha perso fiducia nell'apparenza (e si sa quanto la Arendt sia sostenitrice dell'apparenza fenomenica), andando in cerca della "vera realtà" (p. 89). Il contatto tra il mondo dei sensi e la scienza è stato intanto ristabilito dalle applicazioni tecniche (dagli "idraulici", come l'autrice chiama i tecnici).

Riprendendo le idee di Heisenberg, la Arendt nota però come l'uomo "nel suo andare a caccia della realtà oggettiva ha improvvisamente scoperto di essere sempre soltanto di fronte a se stesso" (p. 95). L'astronauta è diventato il simbolo di questa condizione umana, che desidera eliminare l'antropocentrismo ma non riesce a incontrare qualcosa di diverso da se stesso. Ne deriva l'incapacità di conquistare il punto di Archimede. Con il rischio non soltanto di abbassare la 'statura' dell'uomo, ma addirittura di distruggerla.

Le maggiori implicazioni politiche si trovano nel primo dei due saggi. Vi si ritrova una Hannah Arendt paradossale, che per difendere la debole ma cocciuta 'verità dei fatti' è costretta ad attaccare, per contrappunto, proprio l'ambito di azione che più riteneva degno per l'uomo: quello della politica.

Nicola Casanova