2005

S. Amin, Il capitalismo del nuovo millennio. L'economia politica dello sviluppo dal XX al XXI secolo, Edizioni Punto Rosso, Milano 2001, pp. 142, ISBN 88-8351-018-6

Presidente del Forum Mondiale delle Alternative e direttore del Forum du Tiers Monde, Samir Amin ha insegnato in varie università ed è stato consigliere economico di diversi paesi africani.

Il presente scritto si inserisce all'interno di quella corrente che si interroga criticamente sulla globalizzazione.

L'analisi, sorretta da un breve excursus storico, si regge su assiomi esposti più o meno esplicitamente lungo tutto il testo ed è orientata dalla questione fondamentale su come sia possibile conciliare sviluppo, benessere universale e democrazia. Tali termini si implicano vicendevolmente in un rapporto gerarchico che vede la democrazia come "una delle condizioni assolute dello sviluppo" (p. 50) e questo come l'elemento indispensabile per raggiungere quel benessere universale che assume il carattere di idea limite.

Analizziamo brevemente l'utilizzo fatto da Amin di questi tre concetti.

L'attenzione di Amin si concentra particolarmente sugli aspetti di macroeconomia politica e, quindi, sul problema dello sviluppo a partire da un'analisi del capitalismo. Anzitutto, questo si distingue dal modo di produzione capitalistico il quale è - per l'a. - solo uno strumento (come mostra il saggio finale sulla Cina, dove pianificazione e modello produttivo capitalistico sono alternativamente fatti giocare per la determinazione socio-politica migliore). La sfida consiste nel far sì che il modo di produzione capitalistico non sia più in mano al capitalismo, come invece è stato finora. Ma cosa intende l'Autore per "capitalismo"? Il capitalismo è una configurazione socio-politica mondiale che determina un'allocazione sperequante dei beni prodotti attraverso forme diverse e metamorfiche di dominio, poiché a muoverlo non è altro che il principio di accumulazione del capitale. Esso viene storicamente identificato in una triade composta da Europa, Giappone e al cui vertice si trovano gli USA. Le "periferie" create da tale equilibrio di potere subiscono il dominio esterno in modo attivo, essendo costrette a partecipare alla sua piena realizzazione dalle forme positive di istituzioni internazionali e dai modelli economici vigenti. Partendo da tali presupposti analitici Amin si interroga su come sia possibile liberare le popolazioni soggiogate da tali modelli istituzionali ed economici dominanti, su quali siano i mezzi più idonei, sottintendendo, d'altro canto, che chi debba agire siano i governi. L'a. giunge così alla conclusione che, trattandosi di dominio incontrastato, solo il riconoscimento dell'impossibilità di proseguire su questa strada da parte delle stesse nazioni dominanti garantirebbe una piena modificazione della situazione attuale. Implicitamente, dunque, l'analisi di Amin è tesa a convincere proprio le nazioni dominanti, anche se, giungendo dall'altra parte della "barricata", si può dubitare di un suo successo. Il futuro risulta quindi dipendere dal rapporto di forze che si instaurerà nel medio termine. Il carattere di crisi, intrinseco nel binomio capitalisti - modo di produzione capitalistico, porta Amin a pensare che un consolidamento dell'ordine mondiale presente non porterà che un'accentuazione della frattura e, quindi, della violenza momentaneamente inesplosa. Solo la scelta "inevitabile" di una configurazione differente tra i centri di forza monadici presenti porterà allo sviluppo armonico.

In questa visione, il benessere universale, conformemente ai suoi caratteri di idea kantiana, si connota come mezzo salvifico dell'umanità, mostrando così il tratto escatologico di questo testo. Il benessere è l'utopos cui deve tendere ogni azione di economia internazionale. Perché si regga all'interno della struttura argomentativa tale idea ha però bisogno dell'introduzione del concetto "settecentesco" di popolo che, proprio per la sua mancanza di individuazione effettuale (cioè, al di là del livello discorsivo), risente a sua volta di tale grado utopico. Il popolo entra nella scena discorsiva come un'unità ermetica ed imprescindibile: o le istanze delle popolazioni impoverite e sfruttate verranno riconosciute o la triade dominante sarà capace di annullarle (ma Amin ritiene ciò impossibile per due ragioni: la prima discende dalla configurazione triadica del dominio, per cui la collaborazione dei diversi nuclei è fondata sulla convergenza di una parte soltanto dei loro interessi; la seconda deriva dalla affermata immanenza della presenza di popoli sottomessi al modello di dominio in analisi, per cui senza la presenza di tali popoli il modello non può sopravvivere), o si giungerà all'autodistruzione dell'umanità.

La democrazia, infine, la forma di governo per eccellenza, viene lasciata sostanzialmente in margine dall'analisi, concentrata come abbiamo visto sull'economia-politica umanitaria. Per quel che ne dice, assume un aspetto paradossale, anche se questo non è colto dall'autore. Da un lato, infatti, la democrazia è già solidamente presente nei paesi industrializzati, dato che in essi il popolo usufruisce di una libertà e di una autonomia che gli consentono di esprimersi al meglio e, dunque, di tendere inevitabilmente verso il modello di governo migliore. Dall'altro, essa è assente nelle "periferie" dove si trovano governi dispotici che fondano il loro potere su interessi eteronomi: gli interessi delle potenze internazionali e delle multinazionali, gli interessi delle personalità influenti in accordo con i paesi della triade per fini egoistici, quelli contrastanti delle fazioni interne, ecc. Ma ci si può chiedere dove trovino la loro origine ed il loro luogo di manifestazione sia il dominio degli uni sugli altri sia i contrasti faziosi. Il problema non trova qui una soluzione proprio perché Amin ricorre al suddetto concetto di popolo. La democrazia è espressione di una determinata situazione micropolitica del popolo. Ma nel momento in cui l'analisi si volge al piano macropolitico quale diventa il soggetto delle azioni internazionali? Nell'analisi di Amin sembrerebbe rimanere il popolo attraverso le sue rappresentanze democraticamente elette. Ma così il popolo risulterebbe avere un comportamento schizofrenico: all'interno orientato in maniera naturalmente corretta; all'esterno rinnegatore dei propri principi e fautore del dominio sugli altri. L'empasse in cui il nostro si trova non consente di rispondere alla questione su come potrebbe non mantenersi lo stesso modello anche nel momento in cui nuovi paesi emergano dalla massa dei paria.

Si è parlato inizialmente di una gerarchia dei tre concetti. Tale è il modo in cui Amin li propone esplicitamente. Ma sembra piuttosto che ognuno di questi elementi - la democrazia, il benessere universale, lo sviluppo - venga posto, presupponendo già la presenza degli altri due. È dunque un circolo teorico che per mettersi in moto richiede già la presenza dei tre termini, ma nel momento in cui questi sono presenti esso è già realizzato. Complessivamente, l'analisi è a volte lacunosa e debole, mancando proprio una precisa teorizzazione dei concetti. Il rinvio frequente alla tradizione non fa che renderli più sfuggenti.

Ciò nonostante questo volume è una lettura stimolante poiché consente di confrontarsi con un indirizzo di pensiero ampiamente diffuso negli ambiti non filogovernativi, riccamente influenzato da tradizioni anti-neoliberiste e che può fornire utili spunti di riflessione.

Didier Contadini