2014

Akbar Ahmed, The Thistle and the Drone. How America’s War on Terror Became a Global War on Tribal Islam, Washington DC, Brookings Institution Press, 2013

Recensione di Giulio Itzcovich


L’immagine del cardo (thistle) evocata nel titolo è ripresa dal romanzo breve diTolstoj Chadži-Murat. Come il guerriero ceceno di cui Tolstoj racconta la vicenda, il cardo – che non a caso i russi chiamano il “tartaro” e che è anche il simbolo nazionale scozzese – non cede facilmente a chi lo vuole raccogliere, non si lascia manovrare e disporre, conserva una identità irriducibile, e si presta perciò a rappresentare le qualità specifiche delle società tribali che sono l’oggetto del libro di Ahmed: “Amore per la libertà, egualitarismo, un sistema di lignaggio tribale definito da un capostipite e clan comuni, una tradizione marziale, un codice dell’onore molto sviluppato (…) e una chiara correlazione fra la loro spinosità e durezza e il livello di forza usato da chi le vuole sottomettere” (p. 5). Come racconta Tolstoj, il cardo resta in piedi anche quando è travolto dalle ruote livellatrici di un carro, simbolo dell’imperialismo e della modernizzazione. È resistente e spinoso, strapparlo dal suolo è difficile, impossibile racchiuderlo in un mazzetto – non importa se un mazzetto panrusso e zarista, o capitalista e liberaldemocratico.

Akbar Ahmed è titolare della cattedra “Ibn Khaldun” di studi islamici della American University di Washington ed è professore di relazioni internazionali, ma è anche un antropologo con una lunga carriera politica e diplomatica alle spalle: dal 1966 al 2001 è stato un funzionario dell’amministrazione civile del Pakistan, prestando servizio, fra l’altro, come “agente politico” (commissario governativo) nelle regioni tribali del Waziristan e del Baluchistan, nonché come ambasciatore nel Regno Unito. Con questo libro Ahmed mette a frutto le sue esperienze sul campo per scrivere il terzo volume di una tetralogia sulle relazioni fra Occidente e mondo islamico dopo l’11 settembre. I due precedenti volumi avevano riguardato le società musulmane nel mondo islamico e la loro percezione negli Stati Uniti e nei paesi alleati (Journey into Islam: The Crisis of Globalization, Brookings Institution Press, 2007) e le comunità musulmane negli Stati Uniti e le opinioni degli americani sull’Islam (Journey into America: The Challenge of Islam, Brookings Institution Press, 2010). Questi libri erano basati sul metodo dei questionari e dell’osservazione partecipante: 120 interviste in nove paesi del Medio Oriente, dell’Asia meridionale e dell’Estremo Oriente nel caso di Journey into Islam, duemila questionari e l’osservazione partecipante in più di cento moschee nel caso di Journey into America. Anche il prossimo libro – Journey into Europe: Islam, Immigration, and Empire – seguirà lo stesso metodo. Invece The Thistle and the Drone, pur essendo anch’esso basato su un lavoro di gruppo di ricerca diretto da Ahmed, sostituisce il metodo dell’osservazione partecipante con la comparazione fra una quarantina di case studies relativi alle relazioni fra società periferiche (principalmente tribali) e governi centrali nel mondo islamico. La comparazione mediante case studies è inoltre arricchita dal frequente riferimento alle esperienze personali dell’autore negli anni ’70 e ’80 del Novecento nella gestione dei conflitti fra autorità pakistane e tribù pashtun.

Ovviamente l’utilità di una comparazione del genere dipende dalla relativa omogeneità delle società oggetto di analisi, e a questo proposito Ahmed rivendica la perdurante utilizzabilità ai fini della ricerca etnografica del concetto, formulato da Durkheim e sviluppato da Evans-Pritchard, di “società segmentaria”, cioè di società caratterizzata dalla prevalenza del principio della discendenza sul principio territoriale e dalla tendenziale eguaglianza sociale e omogeneità culturale dei vari lignaggi e clan che compongono la tribù. “Ai fini di questo studio, definiscono un sistema di lignaggio segmentario come idealmente caratterizzato da (a) segmenti di carattere genealogico fortemente egalitari, al cui interno segmenti via via più piccoli rivendicano la discendenza da un antenato comune che sovente è un eponimo; (b) rivalità fra i cugini maschi e un consiglio degli anziani per mediare i conflitti; (c) riconoscimento di diritti sul territorio che corrispondono ai segmenti come accolti dalla tradizione; e (d) un insieme di consuetudini normativamente accettato che include un codice di onore e un linguaggio caratteristico” (p. 19). Nonostante le tendenze più recenti dell’etnografia e dell’antropologia culturale preferiscano concetti più flessibili e astratti (come i “sistemi di simboli” di Geertz) e dubitino della capacità caratterizzante di concetti dotati di una forte pretesa di validità teorico-generale, Ahmed ritiene che la nozione di società a lignaggio segmentario sia essenziale per cogliere l’identità dei processi di trasformazione che investono le società tribali del mondo islamico e la relativa somiglianza nelle reazioni suscitate da tali processi. Privarsi di tale nozione in ossequio alle mode culturali “postmoderne” e a un eccesso di sensibilità nei confronti del “politicamente corretto”, sarebbe un errore: “lungi dall’essere un’obsoleta e oscura ancella del colonialismo, come molti credono dentro e fuori della disciplina, l’antropologia può essere all’avanguardia nella riflessione contemporanea su società, la politica, la religione e gli affari internazionali. Ma può esserlo solo a patto di superare le sua confusione e incertezza interna” (p. 322), fra cui rientrano la subalternità al discorso filosofico e un doveroso ma bloccante senso di colpa per l’eredità del colonialismo e le semplificazioni dello sguardo occidentale.

Ahmed, comunque, raffina la griglia analitica della ricerca e, per interpretare il nesso fra terrorismo e conflitto centro-periferia nel modo islamico sviluppa una tipologia di Stati musulmani distinti in base ai rapporti con le società segmentarie (p. 179). Si tratta di cinque modelli di stato caratterizzati da (1) un forte centro formato da un gruppo etnico dominante in conflitto con società a lignaggio segmentario alla periferia (il Pakistan, la Turchia e la sua periferia curda, i curdi in Iran, Iraq e Siria, i berberi cabili in Algeria, i Nuba del Sudan, i Tuareg del Sahara, i Beduini del Sinai, l’Aceh in Indonesia, ecc.); (2) monarchie tribali con i membri di un clan o lignaggio religioso al centro (Afghanistan, Albania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Marocco); (3) più gruppi etnici, inclusi sistemi di lignaggio segmentario, in competizione per il controllo del centro (Libia, Nigeria, Cameron, Costa d’Avorio, Gambia); (4) un sistema di lignaggio segmentario che controlla il centro (Somalia, Yemen, Turkmenistan); (5) stati con centri non-musulmani e periferie a lignaggio segmentario musulmane (gli uiguri in Cina, gli oromo in Etiopia, i somali in Kenya, le regioni caucasiche in Russia, i beduini del Negev e dei territori palestinesi, i vari clan palestinesi, gli albanesi in Kosovo e Macedonia) o periferie musulmane a lignaggio non-segmentario (Filippine, Tailandia, Cambogia, Birmania).

Analizzando la storia e la cultura delle società tribali nel mondo islamico contemporaneo e le relazioni fra tali società e il governo centrale, The Thistle and the Drone formula una tesi sulle origini del terrorismo internazionale di matrice islamica e sul suo rapporto con la guerra al terrorismo post-11 settembre – una tesi enunciata nel sottotitolo del libro, “Come la guerra al terrore dell’America divenne una guerra globale all’Islam tribale”. Secondo Ahmed, i processi politici e sociali che alimentano il terrorismo internazionale non possono essere interpretati nei termini di uno “scontro di civiltà”, almeno non nel senso di uno scontro fra civiltà basate su una identità culturale e religiosa quale quella espressa dall’opposizione Occidente/mondo islamico; essi vanno invece interpretati nei termini di uno scontro fra centro e periferia. La matrice del terrorismo internazionale non ha natura religiosa, ma politica, e va collocata all’interno della dinamica sempre più conflittuale che, a seguito dei processi di colonizzazione, decolonizzazione e infine globalizzazione, ha prodotto la crisi delle società tribali periferiche.

Nell’analisi di Ahmed, la crisi delle società tribali è dovuta soprattutto a fattori esterni, in particolare di carattere politico e militare. Pressoché ovunque nel mondo islamico la “modernizzazione” ha significato una intensificazione delle pretese di dominio avanzate dai governi centrali sulle periferie tribali, nonché la possibilità di sostenere tali pretese con le prestazioni di un esercito sempre più efficace e meglio armato. Il modello occidentale e moderno di Stato relativamente accentrato, dotato di una burocrazia e di un esercito professionali che rispondono a un centro di comando politico, nel mondo musulmano non sembra essere riuscito a produrre la sua prestazione positiva più caratteristica: quell’universalismo egualitario inclusivo delle differenze espresso nei concetti moderni di cittadinanza, rispetto dei diritti civili e politici, Stato di diritto e Stato sociale. Per contro, le società musulmane analizzate nel libro avrebbero ripreso dal modello statale soprattutto la separatezza del potere politico – un potere politico remoto e irraggiungibile nella prospettiva della periferia – e la concentrazione di risorse belliche a disposizione di tale potere politico separato – nella prospettiva della periferia, un potere militare che cerca di estendersi e di diventare sempre più presente, a scapito degli stili di vita e di organizzazione tradizionali.

Nell’ambito dello scontro fra centro e periferia, la guerra al terrorismo ingaggiata da George W. Bush dopo l’attentato alle Torri Gemelle e proseguita dall’amministrazione Obama mediante la strategia dei droni, rappresenta un salto di qualità, un’intensificazione dalle conseguenze potenzialmente distruttive. Lo scontro si sposta su scala globale e si accentua quando gli Stati Uniti si schierano decisamente a favore dei governi centrali, visti come alleati nella lotta al terrorismo internazionale. Dopo l’11 settembre, sostiene Ahmed, la strategia antiterroristica americana si sarebbe mossa essenzialmente in due direzioni: da una parte, come noto, la cattura e detenzione dei sospetti terroristi, dall’altra – e questo è un aspetto meno noto, su cui Ahmed intende fare luce – il sostegno ai governi centrali dei paesi musulmani affinché estendano la loro autorità sulle aree della periferia controllate dalle tribù.

Tutte le società musulmane tribali hanno così iniziato ad essere viste da Washington o come un serbatoio di militanti jihadisti, o come un luogo di loro addestramento e rifugio. Perciò sono state stabilite o rafforzate alleanze strategiche con governi spesso del tutto indifendibili dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e della rappresentatività democratica, fornendo loro sostegno finanziario e militare diretto nella lotta contro le periferie. A volte, ricorda Ahmed, è accaduto che i governi alleati manipolassero gli Stati Uniti diffondendo informazioni false allo scopo di accreditare i leader tribali come nemici appartenenti ad al-Qaeda o ad organizzazioni affiliate. “Dipingendo le proprie periferie come associate con al Qaeda, molti paesi hanno tentato di unirsi al terror network a causa dei grandi vantaggi che esso porta con sé. Usano la retorica della guerra al terrorismo sia per giustificare le loro politiche oppressive, sia per ingraziarsi gli Stati Uniti e il sistema internazionale” (p. 289). Ahmed ne parla come di un vero e proprio “nuovo paradigma globale” affermatosi nel sistema di relazioni internazionali dopo l’11 settembre, un paradigma nato negli Stati Uniti e rapidamente estesosi ad altre potenze mondiali o regionali quali Cina, Russia e India: “scoprire al Qaeda è diventato lo sport preferito delle agenzie di sicurezza in giro per il mondo” – persino in America Latina e fra i Maori della Nuova Zelanda – perché il riferimento alla guerra al terrorismo consente ai governi centrali di giustificare il duro trattamento riservato agli oppositori e alle periferie (ibid.).

In sintesi, mediante un’analisi puntuale dei quaranta case studies e una mole impressionante di evidenze empiriche, Ahmed intende mostrare l’esistenza di un circolo vizioso che unisce, da un lato, la guerra al terrorismo alla dissoluzione delle società tribali e, dall’altro, la dissoluzione delle società tribali alla radicalizzazione islamista. Le molteplici lealtà e i legami particolaristici propri delle società tribali di per sé offrirebbero un contesto tutt’altro che ospitale per il fondamentalismo islamico: “non posso sottolineare abbastanza che l’Islam tribale praticato da membri di tribù generalmente illetterati è antitetico in ogni senso – sociologico, ideologico e teologico – alle versioni fondamentaliste e letteraliste dell’Islam, specialmente l’Islam salafita e wahhabita promosso dall’Arabia Saudita” (p. 30). Ma una volta che le lealtà e i legami propri delle società tribali si siano sciolti per effetto non già di processi di graduale trasformazione e adattamento interni, ma di una aggressione militare esterna, ciò che resta è solo l’attitudine alla guerra delle popolazioni tribali, l’offesa al loro senso dell’onore, la ricerca di senso e la volontà di riscatto, unite alla difficoltà di integrarsi nel nuovo ordine nazionale e globale. Questi sono tutti fattori che alimentano una violenza priva di mediazioni politiche e morali, e perciò priva di qualsiasi scrupolo per la vita delle sue vittime e dei suoi martiri – una violenza assolutamente incomprensibile e ingiustificabile, sottolinea Ahmed, sia in base ai parametri della morale musulmana tradizionale, sia in base al codice d’onore tribale.

Bin Laden deve quindi essere visto non già come un “riformatore religioso”, ma come un “ribelle tribale” yemenita (p. 98): “Nel caso di Bin Laden … le compulsioni dell’identità tribale definirono le sue azioni e la sua visione del mondo, per quanto egli cercasse di rafforzare i suoi argomenti con riferimenti islamici” (p. 100). La biografia personale e il tenore dei discorsi di Bin Laden e degli attentatori dell’11 settembre dimostrano che “gruppi tribali aderenti a un sistema di lignaggio segmentario si sono costituiti in una comunità di razzia (raiding party) basata sul carattere genealogico, motivata da idee di vendetta e onore e avviata a vendicare il disonore della tribù cantando canzoni di guerra e agitando le armi. L’elemento islamico è cospicuo per la sua assenza” (p. 108).

D’altra parte, il libro offre una quantità di esempi per dimostrare non solo la matrice tribale o meglio post-tribale del terrorismo islamico – nascente, cioè, dalla crisi della tribù, dal vuoto creato dalla dissoluzione della società tribale–, ma anche per dimostrare il contributo attivo che la guerra al terrorismo internazionale dà, per una perversa eterogenesi dei fini, alla riproduzione di tale matrice. Gli esempi offerti dal libro sono davvero numerosi e dettagliati, e vanno dal contributo alla distruzione dell’economia somala per effetto del congelamento dei fondi di Al-Barakaat – un sistema di trasferimento delle rimesse degli emigranti somali, ingiustamente sospettato di finanziare il terrorismo (p. 266) – alla definitiva destabilizzazione dello Yemen, con il sostegno finanziario e militare all’invasione delle aree tribali da parte del governo centrale di Saleh, alla base della radicalizzazione islamista di alcuni leader tribali (p. 263). Ma forse le parti più interessanti e dettagliate del libro sono quelle che riguardano l’Afghanistan e il Pakistan, che oltre ad avere un maggiore respiro storico e la vivacità dei racconti “in prima persona” sono interessanti anche come resoconto della vita quotidiana “sotto i droni” – posto che una quotidianità in quelle condizioni sia possibile, cosa che Ahmed mette in discussione, rilevando come un effetto della presenza invisibile ma acusticamente percepibile dei droni sia la contrazione e isterizzazione delle relazioni sociali (p. 81-86).

È opportuno comunque avvertire che il libro presenta alcuni limiti, sia di carattere formale, sia di carattere sostanziale. Fra i primi devono essere menzionati un certo disordine con cui sono presentati i risultati della ricerca e la tendenza a divagare (perché mai nella sezione dedicata ai core findings del libro l’autore decide di raccontare il suo successo nel ottenere il rilascio di un leader tribale rapito nel 1986 in Baluchistan? Un racconto simile, relativo questa volta alla cattura di un ricercato nel Waziristan meridionale, è del resto riportato nel secondo capitolo). C’è poi una evidente discontinuità nel registro di scrittura. Nella presentazione del metodo della ricerca e a proposito del concetto di sistema di lignaggio segmentario, il registro è scientifico-accademico, e così pure nelle riflessioni critiche sullo stato dell’antropologia contemporanea e sulla sua tendenza ad abbandonare il lavoro sul terreno per rincorrere mode culturali e gerghi specialistici. Nel complesso predomina un registro giornalistico e aneddotico, con una vocazione quasi enciclopedica a riempire le caselle delle varie comunità passate in rassegna con pagine di informazioni necessariamente sintetiche e a volte un po’ aride – il libro avrebbe potuto essere più breve e, nella forma di un pamphlet, forse sarebbe stato più efficace. Infine troviamo un registro autobiografico e memorialistico, nelle parti in cui Ahmed rievoca l’esperienza passata in Waziristan e Baluchistan. Queste sono pagine vivaci che consentono al lettore di apprezzare The Thistle and the Drone per quello che è: non un libro specialistico ma nemmeno un instant book giornalistico; piuttosto, il prodotto di un quarantennale coinvolgimento politico, professionale e scientifico, da alto funzionario prima e da accademico poi, nelle vicende del mondo islamico in generale e del Pakistan in particolare.

Fra i difetti di natura sostanziale bisogna invece sottolineare l’apprezzamento quasi incondizionato per l’expertise, il tatto e la capacità politica dell’amministrazione coloniale britannica in India e altrove. Lord Curzon è ricordato assieme a Confucio, Akbar e Washington come esempio di grandi figure della storia impegnate in un abile tentativo di governare pacificamente le periferie; Lawrence d’Arabia è il modello dell’occidentale che capisce le periferie, ama le tribù ed è disposto ad affiancarle nella lotta contro il dominio di un centro corrotto. Da notare anche l’insistenza, forse religiosamente motivata, sulla estraneità esistenziale dell’Islam “autentico” nei confronti di ogni deriva terroristica, nonché la tendenza all’idealizzazione delle periferie, cioè all’esaltazione dei valori e delle strutture sociali tribali: onore, solidarietà, eguaglianza, spirito di indipendenza, coraggio, ecc.

D’altra parte, considerati gli intenti del libro, questi difetti, se di difetti si tratta, sembrano minori. The Thistle and the Drone non propone una valutazione complessiva dell’esperienza coloniale britannica – valutazione che comunque non potrebbe che essere critica, come emerge chiaramente da alcuni cenni nel libro –, ma di valorizzare un modello di organizzazione politica e di gestione dei conflitti caratterizzato dal rispetto per l’autonomia delle periferie e dal rapporto non gerarchico, di dialogo e negoziazione, fra il rappresentante locale dell’autorità centrale, le autorità tribali locali (gli anziani) e le autorità religiose. Né tanto meno l’obiettivo del libro è fare un bilancio delle società tribali in quanto tali – bilancio che del resto non avrebbe alcuna rilevanza né scientifica, né politica – o anche solo rivendicare la dignità di forme di vita tradizionali irriducibili ai valori della modernità occidentale, quanto piuttosto mostrare le conseguenze devastanti della dissoluzione manu militari delle società tribali, cioè l’enorme carico di violenza necessario per distruggere questo tipo di comunità politica, che è resistente e spinosa come il cardo, e i rischi enormi per la sicurezza collettiva che risultano dall’impossibilità di confinare tale violenza alle sole periferie.

Ciò considerato, una certa idealizzazione della cultura delle periferie e dei modelli organizzativi necessari per garantire la convivenza pacifica è accettabile, e The Thistle and the Drone merita di essere raccomandato non solo come una lettura importante per chi è interessato allo studio del mondo islamico, del terrorismo internazionale e delle conseguenze sociali della guerra al terrorismo, ma anche come un libro esemplare di una relazione intelligente e produttiva fra ricerca antropologica e riflessione politica. Una relazione simbiotica, tale per cui la passione politica spinge la ricerca, e la ricerca diventa strumento e proposta politica: nelle intenzioni di Ahmed, proposta di una politica della globalizzazione che, rispettando l’autonomia e la dignità delle periferie, possa essere più inclusiva, flessibile e pacifica.