2005

G. Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II, I, Bollati Borighieri, Torino 2003, pp. 113, ISBN 88-339-1459-3

L'ultimo libro di Giorgio Agamben restituisce un cruciale tassello di quella teoria dello stato di eccezione la cui assenza è il punto di partenza dell'intero ragionamento. È un'assenza imbarazzante, secondo Agamben, dal momento che prima lo Usa Patriot Act poi il Military Order del presidente Bush - e più in generale la prassi e la temperie della guerra preventiva - hanno dimostrato con forza che "lo stato di eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante della politica contemporanea" (p. 111).

Come la realtà dalla data di uscita del libro di Agamben non si è stancata di confermare, stato di eccezione dopo l'11 settembre significa sfregio del diritto internazionale ed esercizio arbitrario di una pura violenza che si vuole schmittianamente detentrice di un nuovo nomos della terra: un ordine mondiale da imporre globalmente a colpi di guerre umanitarie e/o preventive, attraverso le quali realizzare una costituzione imperiale capace di imporsi al termine della cosiddetta guerracivile mondiale, declinata secondo le retoriche manichee del conflitto di civiltà. Al tempo stesso, sul piano interno, lo stato di eccezione è restituito dalla progressiva trasformazione involutiva dei codici penali e di quelli di procedura penale nel cuore dell'occidente. Con la normalizzazione della Indefinite Detention si è giunti a privare di ogni status giuridico qualunque individuo non cittadino, sospetto di essere in qualche modo coinvolto in attività terroristiche. Citando Judith Butler, Agamben osserva che idetenuti di Guantanamo, giuridicamente innominabili e inclassificabili, sono "oggetto di una pura signoria di fatto" (p. 13). Nella loro condizione, quella che Walter Benjamin chiamava la "nuda vita" raggiunge la sua massima indeterminazione.

Dal punto di vista teorico lo stato di eccezione è dunque quella figura dell'ordine sospeso e continuamente infranto in cui "l'aspetto normativo è impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale" che ignora, all'esterno, il diritto internazionale e produce, all'interno, uno stato di emergenza permanente. E tuttavia, pur generando "unospazio vuoto di diritto", lo stato di eccezione accampa con arroganza la pretesa di "stare ancora applicando il diritto" (p. 111). Al suo interno, l'esercizio della pura violenza sganciata dal diritto impone la fictio juris secondo cui a produrre ordine sarebbe pur sempre la legge. Lo stato di eccezione si presenta quindi come "la forma legale di ciò che non può avere forma legale", in cui l'eccezione sovrana agisce come dispositivo biopolitico mediante il quale il diritto "include in sé il vivente attraverso la sua propria sospensione": proprio come nel Military Order del presidente Bush (p. 52).

Oltre a esibire questa "finzione centrale" inscritta al cuore dell'intera esperienza giuridico-politica occidentale, il libro di Agamben restituisce importanti frammenti di una genealogia dello stato di eccezione. L'archetipo della sua versione moderna è rinvenuto nel iustitium, una misura del diritto romano che, in caso di concreto pericolo per la Repubblica, poteva essere proclamata dal senato. Per l'essenziale - scrive Agamben - il iustitium "aboliva il divieto, stabilito dalla Lex Sempronia, di mettere a morte un cittadino romano" senza ricorso ad un giudizio popolare (p. 60). Nel iustitium, come in ogni stato di eccezione, si verifica insomma una sospensione della legge che dà forma a un non-luogo in cui agisce la pura "forza dilegge senza legge" di chi governa.

In un importante excursus del libro, intitolato "Breve storia dello stato di eccezione", Agamben ne indaga il moderno luogo di emergenza. È nello scenario della Rivoluzione francese che si manifesta per la prima volta, nel decreto dell'8 luglio 1791, l'istituto dello stato di assedio inteso come momento di passaggio dei poteri delle autorità civili al comandante militare: a conferma del fatto che "lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista" (p. 14). Un dato valido anche per la pratica di sospensione della legge fondamentale prevista dalla costituzione del 22 frimaio dell'anno VIII. Evidenziando la rilevanza cruciale del periodo napoleonico, Agamben segue poi la vicenda storica dello stato di eccezione. Passandone in rassegna le principali tappe, sottolinea come con la cesura della prima guerra mondiale lo stato di eccezione divenga permanente in molti paesi belligeranti. La Grande Guerra non è solo il luogo di emergenza della guerra totale, ma anche l'evento a partire dal quale "la legislazione eccezionale per via di decreto governativo (che ci è oggi perfettamente familiare) diventa una pratica corrente nelle democrazie europee" (p. 23).

Con forme e tonalità diverse, nel periodo tra le due guerre si compie una decisiva metamorfosi delle costituzioni democratiche attraverso l'ampliamento del ricorso alla legislazione per decreto. Nella Francia di Daladier e Laval si giunge a una situazione in cui, alla presa del potere di Petain, "il parlamento francese era già l'ombra di se stesso" (p. 14). Nella Germania di Weimar l'art. 48 della costituzione sarà utilizzato in più di 250 occasioni, facendo della Repubblica una sorta di "regime di dittatura presidenziale". In Italia, laboratorio - fin dalla prima unificazione - dell'uso del decreto-legge come "ordinaria fonte di produzione del diritto", si verificherà il trapasso della democrazia parlamentare in "democrazia governamentale". In Inghilterra, con l'Emergency Powers Act del 1920, verranno generalizzati i dispositivi governamentali di eccezione introdotti durante la Grande Guerra per contrastare ogni conflitto sociale. Infine negli Stati Uniti, fin dalla guerra civile, tra i poteri del Congresso e quelli del presidente si registrerà una drammatica tensione dialettica culminata in quella che Carl Schmitt ha chiamato la "dittatura commissaria" di Lincoln. E se Lincoln fu il primo "detentore della decisione sovrana sullo stato di eccezione", Woodrow Wilson durante la prima guerra mondiale, e Franklin D. Roosevelt, sia durante la 'grande' sia nella seconda depressione, ebbero "un potere illimitato di regolazione e di controllo su ogni aspetto della vita economica del paese" (p. 32). Non diversamente da Bush, che - nel contesto di un progetto imperiale - rilancia ora la pretesa di gestire sovranamente uno stato di eccezione ormai divenuto regola.

Di qui la necessità, per Agamben, di contribuire alla fondazione di una teoria dello stato di eccezione all'altezza dei tempi, recuperando gli esiti di quella "gigantomachia intorno ad un vuoto" che oppose Walter Benjamin a Carl Schmitt. Ribaltando l'interpretazione corrente, Agamben sostiene che è l'intera teoria schmittiana della sovranità ad essere stata costruita in risposta alla critica benjaminiana della violenza. Sarebbe dunque Schmitt a riconoscere in Per la critica della violenza di Benjamin (1921) una minacciosa teoria della violenza "pura", "rivoluzionaria", situata al di fuori della legge e capace di far saltare la dialettica tra la violenza che pone e quella che conserva il diritto. Esponendo il rapporto della violenza con il diritto, e 'deponendo' così quest'ultimo, Benjamin intravede le condizioni di possibilità di un'altra epoca del diritto, capace di aprire un varco verso quella nuova giustizia a cui alludono le formidabili pagine di Kafka. A questa minaccia Schmitt risponde nella sua Teologia politica formulando la teoria dello stato di eccezione fittizio, per la quale l'inclusione-neutralizzazione della violenza rivoluzionaria nel dispositivo dell'ordine avviene attraverso una violenza sovrana - la decisione - che "né pone, né conserva il diritto ma lo sospende" nel dispositivo temporaneo dello stato di eccezione (p. 71). Molti anni dopo, nella ottava Tesi sul concetto di storia, Benjamin tornerà a opporsi alla replica schmittiana, sostenendo che quando "lo stato di eccezione diviene la regola" non può più "rendere applicabile la norma sospendendone in maniera temporanea l'esercizio", né così garantire il funzionamento dell'ordine giuridico come vorrebbe Schmitt. In questo modo Benjamin smaschera lo stato di eccezione mostrandolo per ciò che è: "una fictio juris [...] che pretende di mantenere il diritto nella sua stessa sospensione" come forza di legge senza legge (p. 77). Per l'autore delle Tesi, con il nazismo diventa definitivamente palese che eccezione e norma non sono più né temporalmente né spazialmente distinte. Lo stato di eccezione è ormai effettivo: violenza e diritto sono normalmente unificati entro "una zona di anomia in cui agisce una violenza senza alcuna veste giuridica" (pp. 76-77).

La vera posta in gioco dello scontro tra Schmitt e Benjamin è appunto questa anomia: la "violenza pura", frontiera ultima del politico che lo stato punta ad annettersi per il tramite dello stato di eccezione. Fissando negli occhi il presente dello stato di emergenza permanente nazista, ma al tempo stesso rivolgendosi ai rivoluzionari del futuro, Benjamin chiudeva l'ottava tesi sostenendo che la tradizione degli oppressi ci pone di fronte ad un grande compito: "la produzione dello stato di eccezione effettivo" (corsivo mio, p. 75). Si tratta, per Agamben, di un compito assolutamente attuale se è vero, come è vero, che al tempo della mondializzazione del capitale e della guerra preventiva "lo stato di eccezione ha raggiunto ... il suo massimo dispiegamento planetario" (p. 111). Immergersi nel non-luogo anomico dello stato di eccezione effettivo diventa allora un ineludibile banco di prova per tutti coloro che con l'azione politica - quel particolare tipo di azione "che recide il nesso tra violenza e diritto" - vogliano ostinatamente tentare di "interrompere il funzionamento della macchina che sta conducendo l'Occidente verso la guerra civile mondiale" (pp. 111-112).

Alessandro Simoncini