2005

M. Walzer, Arguing about war, Yale University Press, New Haven & London 2004, tr. it. Sulla guerra, Laterza, Roma-Bari 2004, ISBN 8842073938

In questo volume, Michael Walzer affronta il tema cruciale della guerra non da un punto di vista 'realista', ma 'realistico': "[noi teorici della guerra giusta], scrive l'autore, possiamo opporci al realismo, ma siamo realistici" (p. XVII).

Sulla guerra è una raccolta di sedici brevi saggi, sedici "atti politici" come li definisce l'autore, di cui uno solo, Occupazioni giuste e ingiuste, è stato scritto per questo volume, mentre gli altri sono articoli, editoriali o conferenze pubblicati dal 1980 al 2002 e riadattati per l'occasione. Di conseguenza, anche le tesi qui sostenute, per quanto sviluppate e aggiornate, sono la riproposizione delle classiche tesi walzeriane. D'altra parte però, la ripetizione di 'vecchie' tesi, è giustificata dall'autore come la conseguenza del carattere eminentemente politico dei saggi contenuti nel libro: infatti, ricorda Walzer, "i teorici della politica mirano all'originalità, ma la politica è un'arte della ripetizione" (p. XVI).

In particolare, ritroviamo le due tesi fondamentali della famosa 'teoria della guerra giusta' sostenuta già in Guerre giuste ed ingiuste del 1977: "La guerra a volte è giustificabile" e "la condotta della guerra è sempre soggetta alla critica morale".

Walzer ribadisce queste tesi in dichiarata opposizione sia ai pacifisti sia ai realisti: i pacifisti, infatti, si oppongono alla prima proposizione perché ritengono la guerra sempre un atto criminale; mentre i realisti negano la seconda, affermando che inter arma silent leges.

Dopo aver specificato che la teoria della guerra giusta non è altro che il "linguaggio comune nel quale discutiamo di specifiche guerre" (p. XII), Walzer affronta direttamente la critica principale alla sua dottrina della guerra.

A quanti sostengono che "la teoria della guerra giusta moralizzerebbe la guerra, rendendo in questo modo più facile il ricorso alla violenza", il filosofo americano risponde che nella sua teoria, 'giusto' è un "termine di comodo" per significare niente di più che "giustificabile, "difendibile", o "moralmente necessario". Non c'è dubbio infatti, riconosce l'autore, che la giustizia, nel senso forte che ha nella vita quotidiana, vada perduta non appena iniziano i combattimenti. Nondimeno, di fronte ad atti d'aggressione e di crudeltà assoluti, come nel caso del Nazismo o dell'invasione del Kuwait, abbiamo tutto il diritto di entrare nell'area necessaria della guerra.

Nonostante le risposte decise alle critiche, Walzer tiene a precisare che "la teoria della guerra giusta è fatta per essere criticata". Tuttavia, aggiunge, "ciò non significa che ogni guerra debba essere criticata". In altri termini, Walzer intende rivendicare la legittimità di formulare giudizi "incoerenti" su guerre diverse, come la sua opposizione alla guerra del Vietnam e la sua difesa della guerra in Afghanistan: così come "gli stessi criteri medici forniscono diagnosi diverse, per casi diversi - afferma l'autore - gli stessi criteri morali [forniscono] giudizi diversi in casi diversi" (p. XIV).

Questa 'flessibilità' di giudizio, secondo il filosofo americano, è resa ancora più necessaria dall'accrescersi dei recenti orrori e dalla nascita di una nuova forma politica chiamata "feudalesimo bastardo", che lo inducono ad assumere posizioni diverse rispetto a quelle formulate in passato, rendendolo più "disposto a difendere le occupazioni militari a lungo termine, sottoforma di protettorati o amministrazione fiduciaria" (p. XV). Soprattutto, però, le tragiche 'novità' della realtà internazionale post guerra fredda, impongono a Walzer di espandere la sua teoria della guerra giusta: alla trattazione dei classici ius in bello e ius ad bellum, occorre aggiungere quella dello ius post bellum.

In fondo, è proprio questo maggiore rilievo attribuito al tema cruciale dello ius post bellum, che si traduce essenzialmente in "una teoria e in una pratica della pacificazione, dell'occupazione militare e della ricostruzione" (p. XV), a costituire la sola novità, seppur significativa, della riflessione walzeriana racchiusa in questo volume.

Tra i saggi della sezione Teoria, quello dedicato all'etica dell'emergenza suprema merita una nota particolare: non solo perché, dopo l'11 settembre, questo tema è ritornato di grande attualità politica, ma perché paradossalmente, in quanto eccezione suprema a tutti i vincoli della guerra giusta, la dottrina della supreme emergency contiene in nuce il senso profondo della teoria walzeriana della guerra.

Secondo Walzer, si verifica un'"emergenza suprema", termine mutuato da Churchill, quando è concretamente minacciata tanto la sopravvivenza fisica quanto quella morale - la ongoingness come la chiama l'autore - di un'intera comunità. In questi casi, e soltanto in questi, i leader politici sono autorizzati, per non dire obbligati, a "sporcarsi le mani", a trasformarsi in "criminali morali" e superare tutti i vincoli 'normali' della guerra, anche se ciò significa "uccidere deliberatamente degli innocenti".

La giustificazione morale di una politica immorale rappresenta il paradosso filosofico insito nel suo argomento: di fronte all'emergenza suprema, l'immoralità commessa da una comunità morale è moralmente difendibile. In altri termini, secondo la gerarchia morale presupposta dall'autore, l'etica dell'emergenza suprema costituisce il "male minore", rispetto ad esempio al male assoluto entrato 'banalmente' nella storia contemporanea attraverso il Nazismo.

Ciò che Walzer tuttavia non sembra prendere abbastanza sul serio, è che "la licenza dell'emergenza suprema", superando tutti i limiti previsti dalla "normalità dei diritti", più che salvaguardare il mondo morale in cui i nostri valori profondi sono nati e hanno senso, corre il rischio di distruggerlo. In altre parole, il rimedio dell'emergenza suprema può rivelarsi, se non peggiore, per lo meno equivalente al male che intende estirpare, finendo per imitarlo più che per curarlo.

Nella seconda parte, chiamata appositamente "Casi", Walzer si cimenta nel suo noto esercizio di valutazione delle guerre più recenti, ripercorrendo il modello medievale della "casistica morale". Applicando rigorosamente i criteri della teoria della guerra giusta, il filosofo americano stabilisce lo statuto morale della prima guerra del Golfo (giusta), dell'intervento della Nato in Kosovo (giusto) e delle due tappe della "guerra infinita" contro il terrorismo iniziata dopo l'11 Settembre: la guerra "preventiva" contro l'Afghanistan (giusta) e la guerra "profilattica" contro l'Iraq (ingiusta).

Indubbiamente, il bilancio morale delle guerre 'note', combattute dal '91 a oggi, testimonia la tolleranza 'pratica' della teoria walzeriana verso la guerra. Com'era prevedibile aspettarsi da uno dei sessanta intellettuali firmatari del documento What we are fighting for, scritto in supporto della guerra in Afghanistan, la difesa della guerra da parte di Walzer diventa 'radicale' quando si tratta di giudicare la campagna militare americana contro lo stato governato dai talebani. Nel suo intervento a caldo sulla guerra contro l'Afghanistan, Walzer trascende ogni tipo di considerazione giuridica, per lanciarsi in una difesa morale della guerra "preventiva" contro il terrorismo, sprezzante di ogni forma di legalità internazionale: "la guerra in Afghanistan è certamente una guerra giusta, [il cui] senso principale sta certamente nella prevenzione"; inoltre, "non dovremmo pensare alla guerra come un'azione di polizia che porti i criminali di fronte alla giustizia" (p. 135). A quanto pare, nell'analisi walzeriana la giustizia che era divenuta (in teoria) una necessità militare, si trasforma alla prima occasione (pratica), in un ostacolo all'iniziativa militare, da ignorare in nome di principi morali più impellenti, come la sicurezza nazionale.

Ascoltando queste argomentazioni, la tesi dell'autore secondo cui "una guerra giusta vuole, e deve, essere una guerra che sia possibile combattere" dimostra, alla luce anche delle sue valutazioni dei "casi", una sacrosanta coerenza logica, ma allo stesso tempo una diabolica moralità.

In Occupazioni giuste e ingiuste Walzer si interroga sulla relazione che intercorre tra "giustizia postbellica", "giustizia della guerra in generale" e "giustizia della condotta in battaglia". Lo ius post bellum, oltre a rappresentare una straordinaria fonte di legittimazione retrospettiva anche di conflitti iniziati ingiustamente - Walzer cita a più riprese la massima "conviene bene, che accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi" - costituisce sopratutto "una parte necessaria della politica da attuare una volta conclusa la guerra" (p. XV).

Tuttavia, per quanto i "giudizi postbellici siano più facili di quelli che siamo costretti a formulare nel pieno della battaglia" (p. 165), per l'autore resta vero che lo ius post bellum è più difficile da realizzare di quanto possano esserlo lo ius ad bellum e lo ius in bello.

A questo proposito la Bosnia, il Kosovo, e oggi l'Iraq stanno a testimoniare proprio come "in certi casi uscire da un paese sia più difficile che entrarvi" e come l'occupazione e la ricostruzione si possano rivelare più complicate della guerra stessa.

Concludendo, l'opportunità di leggere questo 'vecchio/nuovo' volume è suggerita, oltre che dalla chiarezza e dall'autorevolezza delle tesi in esso sostenute, soprattutto da una spiacevole verità storica, se non antropologica: la guerra è stata e resta tuttora un'attività molto, troppo, praticata dagli uomini. Per questo, ancora nel 2005, come scrive Walzer, "siamo condannati a continuare la discussione sulla guerra: è un compito necessario da parte dei cittadini democratici" (p. XVI). In quest'ottica non c'è dubbio che Sulla guerra sia un significativo contributo alla nostra discussione, rappresentando nella maniera più cogente il punto di vista di chi non rifiuta (di principio) la guerra, ma intende prenderne atto e guardarla (più o meno criticamente) in faccia.

Alessandro Calbucci