2005

Donne, culture e diritto: aspetti dell'immigrazione femminile in Europa (*)

Alessandra Facchi

1. Donne e straniere: la duplice appartenenza

E' facile constatare come tra i conflitti normativi che si manifestano nei paesi europei in relazione alle differenze culturali, religiose e giuridiche, i più ricorrenti e difficili da affrontare riguardino le donne e i minori (1). E' altrettanto facile constatare come nella ricerca di soluzioni sia raramente sollecitata e ascoltata la voce delle dirette interessate che, strette tra predefiniti diritti culturali e diritti femminili, scontano i maggiori disagi e inadeguatezze sia sul piano delle libertà, sia su quello delle prestazioni sociali e della partecipazione politica.

In un fascicolo di "Ragion Pratica" (8, 1997) le curatrici della parte monografica individuano come caratteristica "della recente evoluzione del discorso o dottrina femminista (...) la fine del modello culturale per cui le donne in quanto tali sarebbero caratterizzate da esigenze e rivendicazioni comuni" e constatano che l'attuale superamento di discriminazioni di natura politica e giuridica "in qualche modo consente di assistere ad una frammentazione dell'universo femminile". (2) E' in questo contesto dell'eterogeneità femminile che mi propongo di considerare alcuni aspetti della condizione delle donne immigrate nei paesi europei, della loro tutela giuridica e partecipazione politica sia in quanto donne, sia in quanto appartenenti a minoranze straniere.

1.1 Assimilazione e tutela delle differenze

Secondo l'antropologa Margaret Mead: "In ogni società conosciuta, l'umanità ha elaborato la divisione biologica del lavoro tra i due sessi in forme assai spesso remotamente collegate alle differenze biologiche che di questa divisione sono state la causa prima". Le ricerche antropologiche avrebbero rivelato come, in tutte le società umane, passate e presenti, esista una distinzione culturale, un'assegnazione di parti, tra maschio e femmina, e cioè "Nessuna civiltà, a quanto ci risulta, ha sancito che non esiste differenza tra uomo e donna al di fuori della diversa maniera con la quale contribuiscono alla conservazione della specie; e che uomini e donne sono, sotto ogni altro aspetto, semplicemente esseri umani dotati di diverse capacità, nessuna delle quali può essere attribuita esclusivamente a uno dei due sessi". (3)

La differenziazione dei ruoli sembra dunque rivestire una funzione sociale necessaria, ma ciò che può dirsi universale è la costruzione sociale della differenza, non le forme che essa assume. Sempre secondo Mead, infatti, la differenziazione sociale dei ruoli maschili e femminili non conosce delle costanti: sia che si tratti di questioni d'importanza minima o di fondamentale rilievo essa assume forme molto diverse e talvolta opposte anche in comunità vicine tra loro. La stessa qualità viene attribuita ora a uno ora all'altro sesso.

Ho riportato questo lungo brano, che risale al 1949, pur non essendo in grado di entrare nel merito delle affermazioni in esso enunciate, poichè mi pare esse contengano i presupposti di due componenti fondamentali della svolta attraversata dal movimento femminista negli ultimi decenni. La prima è l'idea della differenza sessuale e della specificità femminile non come un prodotto negativo della storia occidentale, che debba essere annullato in tutte le sue manifestazioni ma come un insieme di caratteristiche a cui attribuire, almeno in parte, valore positivo, e dunque da proteggere e incoraggiare. La seconda è la percezione della variabilità estrema delle posizioni femminili nelle varie culture, da cui la necessità di tenere conto delle differenze all'interno della differenza femminile.

Com'è noto, nel novecento la cultura femminile occidentale e la letteratura sul "genere" è stata in un primo periodo dominata dall'idea che la parità e l'eguaglianza tra i sessi richiedesse l'assimilazione delle donne agli uomini; i ruoli femminili erano vissuti genericamente come elementi d'oppressione e discriminazione. Alla negazione si è sostituita poi la rivalutazione dei caratteri femminili, la rivendicazione della propria diversità e la ribellione alla logica che vuole le donne competere su modelli, valori e obiettivi creati dagli uomini. L'eguaglianza tra i due sessi si accompagna, anzi si realizza, attraverso la tutela delle loro differenze.

Ci si è poi rese conto che anche tra donne esistevano differenze di gruppo, differenze culturali e sociali senza base biologica. L'esigenza di tutelare le differenze si è manifestata anche nei confronti di donne non occidentali o facenti parte di minoranze. Si è posto il problema di non riprodurre lo stesso vizio che si era combattuto: creare un soggetto universale formulato sulle caratteristiche del gruppo dominante. L'idea della donna costruitasi nel pensiero femminista occidentale e le istanze che ne derivano si è dovuta confrontare con la varietà culturale delle donne richiedendo continui confronti, adattamenti, revisioni. La "pressione politica all'interno del movimento delle donne ha contribuito alla ricerca di una fondazione teorica della differenza, di fondazione di richieste che si riconoscono a fatica nelle maglie strette del liberalismo degli eguali diritti".

Dal punto di vista della costruzione di categorie concettuali, e della conseguente realizzazione di politiche, il problema del rapporto tra eguaglianza e differenze è stato risolto, come è noto, considerando che la realizzazione della prima può avvenire solo attraverso la valorizzazione e la tutela delle seconde. Nel senso dunque che eguaglianza non significa omologazione e cioè identità di trattamento, ma parità di trattamento e ciò è possibile solo tenendo conto delle differenze. (4)

La critica rivolta dal pensiero femminista alla formulazione tradizionale del concetto di eguaglianza, di essere una categoria che indica di fatto assimilazione, (5) si può estendere in vari casi anche alle politiche pubbliche verso gli immigrati residenti in Europa.

L'eguaglianza come principio che giustifica politiche di assimilazione è esplicitamente contenuto nel "modello francese d'integrazione" che si propone "universalista" obbediente "a una logica d'eguaglianza e non a una logica di minoranze" e che "non riconosce diritti che all'individuo libero nei confronti dei suoi legami comunitari". (6) Anche a prescindere dal valore della differenza, l'esperienza francese dimostra come una politica di assimilazione, che conduce ad un miglioramento delle condizioni di vita di quegli individui che abbandonano la propria identità originaria e adottano quella della società ospitante, escluda la gran parte della popolazione straniera. Solo un numero limitato di individui di origine nord e centrafricana ha raggiunto, infatti, uno stile di vita assimilabile a quello delle élites francesi, e cioè solo quegli individui dotati di particolari talenti, che partecipano e vincono basandosi su regole del gioco non fissate da loro. (7) La maggioranza degli africani d'origine, anche se nati in Francia, rimane in condizioni di vita decisamente inferiori a quelli della maggioranza autoctona. Questa popolazione costituisce poi il bacino in cui permangono comportamenti di maggiore discriminazione verso le donne e in cui si diffondono l'adesione o quantomeno la giustificazione di movimenti integralisti.

Peraltro effetti di separazione sociale ed emarginazione degli stranieri possono risultare anche dall'applicazione di un modello pluralista, se esso è inteso, come spesso lo è di fatto, come semplice tolleranza passiva. E cioè se si esplica in un atteggiamento di non interferenza nella cultura e nelle regole interne al gruppo, senza porre in essere interventi che permettano, da un lato, la partecipazione dei vari gruppi e degli individui che vi appartengono alle istituzioni, all'economia, alla cultura della popolazione autoctona, dall'altro la valorizzazione e la parità effettiva di trattamento delle varie culture.

Vi è poi il rischio che l'accentuazione delle differenze degli immigrati rispetto alla cultura europea, che spesso si accompagna ad una generalizzata identificazione degli individui con i gruppi più visibili e distanti, possa contribuire ad alimentare il senso di estraneità reciproca tra immigrati e autoctoni, le reazioni di tipo razzista dei secondi e l'isolamento dei primi. (8) Una tendenza ad uniformare e amplificare le richieste basate sull'appartenenza religiosa, identificandole con le più radicali, si è verificata frequentemente nei confronti degli immigrati musulmani, che invece sono fortemente eterogenei, nel complesso scarsamente praticanti e di cui solo una minoranza fa riferimento alle istituzioni islamiche. (9)

In linea generale in Italia, come in altri paesi europei, l'impressione è che vi sia una sopravvalutazione da parte dei discorsi scientifici, politici e dei mezzi di comunicazione, del "problema culturale" degli immigrati a fronte di una sottovalutazione dei problemi sociali e economici. (10)

1.2 Diritti individuali e collettivi

L'ampia letteratura nordamericana sulle differenze, sia di genere, sia di cultura può solo parzialmente applicarsi alla situazione dell'immigrazione femminile in Europa. Studi europei sulle donne immigrate iniziano a comparire sporadicamente solo verso la fine degli anni '70, ma, benchè siano aumentati negli ultimi anni, la maggior parte delle ricerche e dei dibattiti sull'immigrazione continua a riferirsi a quella maschile o quanto meno a non differenziare.

La focalizzazione sulle donne, invece, oltre che a permettere di comprendere le dimensioni delle esperienze femminili, può svelare anche molti aspetti della vita e della cultura delle comunità immigrate, di cui le donne custodiscono i valori e le consuetudini più intime, radicate e meno visibili. E' a partire dalla conoscenza delle situazioni femminili che si possono affrontare più adeguatamente molti conflitti della convivenza multiculturale.

Per le donne immigrate le due dimensioni di differenza e discriminazione, donna e straniera, si sommano, ma non sempre ciò si traduce in un sommarsi di diritti e tutele, anzi in alcuni casi origina situazioni conflittuali che richiedono scelte e aumentano notevolmente le difficoltà e il disagio.

L'immigrazione femminile è un terreno sul quale si verificano potenziali e attuali difficoltà di contemperare diritti della donna, così come si sono configurati nella tradizione occidentale, e diritti culturali nelle forme rivendicate da alcuni componenti, individui o istituzioni, della popolazione immigrata. (11)

Un nodo centrale del dibattito tra comunitari e liberali è notoriamente quello dell'opportunità o meno di aggiungere ai tradizionali diritti individuali di libertà e eguaglianza nuovi diritti collettivi di tutela culturale. Senza voler ricostruire le differenti posizioni, mi limito a ricordare che, come è stato constatato, la tutela dei diritti culturali, a maggior ragione se collettivi, può costringere ancor più le donne, sulle quali il ricatto sociale derivante da una dipendenza economica e psicologica è spesso ancora più forte in terra straniera, all'interno di meccanismi discriminatori consolidati.

Mi paiono dunque preferibili quelle posizioni secondo le quali per tutelare le differenti appartenenze, nella maggior parte dei casi, non è necessario ricorrere a diritti collettivi, ma è sufficiente un'ampia e contestualizzata interpretazione dei diritti di libertà e eguaglianza, la cui piena realizzazione richiede evidentemente anche misure riequilibratrici e promozionali. Qualora poi, nel caso di conflitto, fosse necessario stabilire una gerarchia tra diritti individuali e collettivi, credo che i primi siano comunque da porsi in posizione di prevalenza rispetto ai secondi. (12) Ciò implica non solo che siano inaccettabili obblighi giuridici limitativi della libera scelta individuale a favore della tutela o promozione di un carattere culturale, ma anche che la scelta si possa rinnovare ogni volta che si propone una situazione conflittuale.

Il diritto d'uscita, cioè la possibilità di separarsi dal gruppo a cui si appartiene per nascita o anche per adesione successiva, non è altro che una formulazione dei diritti di libertà personale, ed è la garanzia contro il rischio di sacrificio dei diritti dell'individuo a favore di quelli del gruppo. Poichè esso è di fatto difficilmente realizzabile, ciò dovrebbe indurre ad un'ulteriore cautela nel conferimento di diritti culturali.

Il riferimento primario agli individui come portatori di diritti non implica, naturalmente, che essi debbano anche avere l'esclusiva titolarità dell'azione giuridica, in quanto la possibilità che soggetti collettivi intervengano a difesa di interessi e diritti individuali costituisce per molti individui che sarebbero incapaci di ricorrere in proprio al diritto, una tutela essenziale.

La subordinazione dei diritti culturali a quelli individuali e dunque la protezione degli individui dalle regole e dalle costrizioni della loro stessa comunità d'appartenenza e la necessità di garantire loro un diritto d'uscita sono ancora più significative per le donne, la cui autonomia e il cui potere all'interno della famiglia e del gruppo sono generalmente scarsi. Senza contare che in molti casi i legami di parentela e di comunità accompagnano forme di sfruttamento economico delle donne più che di mantenimento di culture tradizionali.

Non considero peraltro la diversità come un valore in sé, come è invece sotteso alle rivendicazioni di diritti dei gruppi avanzate da alcuni filosofi comunitari. Nelle sue manifestazioni più radicali la posizione comunitaria si traduce in un atteggiamento ecologista che pone la conservazione del pluralismo esistente cone un valore per l'umanità nel suo complesso, al punto da giustificare scelte che comportano il sacrificio di libertà individuali e che possono ostacolare la formazione di nuove identità collettive. La tutela delle specie si configura come un'ideologia alternativa a quella della selezione naturale che permette la sopravvivenza del più adatto. La prima collettivistica, conservatrice, fondata sullo status di gruppo, la seconda individualistica, progressista, meritocratica. Una posizione più moderata, ma al tempo stesso più sensibile ai problemi sociali, riconnette invece la tutela di un gruppo non alla sua diversità e specificità, ma alla discriminazione, all'oppressione che subisce in conseguenza di esse.

La prospettiva in cui mi pongo non è perciò la conservazione comunque di identità differenti, quelle tradizionali degli immigrati e quelle spesso ben più conservatrici degli autoctoni, ma la loro convivenza, sovrapposizione, ed eventuale fusione e la contemporanea tutela e promozione di quelle minoritarie e discriminate. Di fatto la formazione di nuove culture sincretiche, che però si accompagnano prevalentemente a marginalità e disadattamento, costituisce un processo spontaneo e inevitabile per la seconda e terza generazione di immigrati.

Della posizione comunitaria è importante mantenere la parte critica, quella che ci mette in guardia contro la creazione di individui e valori universali e la reificazione di ciò che non corrisponde alla cultura dominante, nel nostro caso alla cultura autoctona. Una visione rigidamente improntata alla cultura occidentale dei diritti femminili, oltre ad esprimere una visione eurocentrica, può contrastare con le letture e le richieste dei soggetti e, in taluni casi, anche tradursi in peggioramenti concreti della loro vita quotidiana. La strada da seguire, anche se evidentemente insoddisfacente finchè non viene assicurata un'autonomia della donna rispetto al proprio ambiente, è comunque quella che siano le stesse interessate, direttamente o attraverso i loro rappresentanti, ad interpretare e dare contenuto ai propri diritti.

Vi sono varie situazioni, alcune più evidenti, altre meno visibili allo sguardo europeo, apparentemente discriminatorie le cui funzioni e valori sono talvolta difese anche dalle donne che vi sono coinvolte. Sono noti quelli delle donne musulmane che considerano la poligamia o lo chador come un loro diritto, anche se rifiutano una segregazione come quella imposta dai Talebani in Afghanistan. Peraltro in numerose occasioni donne musulmane hanno mostrato irritazione verso l'atteggiamento paternalista che caratterizza spesso la visione europea, facendo notare da un lato che anche in situazioni di notevoli difficoltà, come quella algerina, le donne mantengono posizioni conquistate e lottano per nuove conquiste, dall'altro come l'immagine generica della donna musulmana oppressa attraverso la religione e l'identificazione del problema con manifestazioni come lo chador dimostri superficialità e pregiudizi. In altri termini esse chiedono che non venga imposto loro di scegliere tra essere una donna che conosce e lotta per i propri diritti ed essere una musulmana praticante.

Anche da questo punto di vista mi pare dunque che una politica che si proponga di contemperare la tutela dell'individuo all'interno del gruppo e la tutela della cultura di appartenenza si appoggi più adeguatamente su una considerazione della donna straniera come unità autonoma piuttosto che non nei termini della sua appartenenza a identità collettive, perchè queste appaiono generalmente costruite con caratteri estremizzati e semplificati, spesso già predefiniti in forme tra loro conflittuali.

2. Donne immigrate: custodi del passato e mediatrici culturali

Per molti anni gli studi sulle donne immigrate hanno fatto riferimento al modello della tripla oppressione: di sesso, cultura o "razza", classe sociale. Un modello che è stato però poi più volte criticato in quanto riflesso di una prospettiva occidentale, non condiviso dagli stessi soggetti a cui dovrebbe applicarsi.

Da un lato non sempre i valori e gli usi della comunità di appartenenza sono sentiti dalle donne stesse una forma di oppressione o di discriminazione, concetti che mi pare non siano da considerarsi ovvii per chi non parte da quello di eguaglianza di trattamento. D'altro lato proprio per migliorare le condizioni di vita delle donne immigrate non si possono ignorare le strategie di adattamento all'interno delle loro comunità così come i differenti valori in cui si è costruita la loro identità.

Tra gli uomini colui che decide di immigrare lo fa talvolta anche per sottrarsi alle restrizioni, sociali, religiose, familiari, del proprio ambiente originario, ciò è invece molto più raro per le donne che per lo più, almeno quelle provenienti da paesi africani e asiatici, non scelgono liberamente di abbandonare il proprio paese, ma hanno dovuto farlo per seguire il marito, il padre o i figli o per un matrimonio combinato o per mantenere una famiglia lasciata là. Non sono state attratte dall'occidente, ma costrette a venirci e generalmente pensano di abbandonarlo appena possibile. L'obiettivo finale, anche se non si sa quando, in che condizioni e perchè, è il rientro in patria. Il cosiddetto "mito del ritorno" è vivo tra le donne immigrate.

Il ritorno implica mantenersi in regola con ciò che è richiesto là, la verifica della vita si fa là, quindi è essenziale conservare le tradizioni, gli usi, i riti lo stile di vita della comunità di provenienza se non si vuole tornare da straniere. (13)

Il loro passato, le loro biografie sono spesso per gli immigrati la più grande ricchezza. E' il passato e un futuro (reale o ideale che sia) che fornisce il senso delle loro vite. Il periodo in terra d'emigrazione o d'esilio è come un ponte, una transizione. Molte donne immigrate desiderano tornare nel loro paese d'origine, desiderano mantenere la cultura e lo stile di vita delle proprie comunità, lo preferiscono a quello del paese d'immigrazione, anche perchè è quello che conoscono. (14) Le loro figlie forse penseranno diversamente, se cresceranno e saranno educate in un'altra cultura, ma a quel punto non si non si tratterà più di straniere.

Nella conservazione di consuetudini e comportamenti tradizionali hanno, naturalmente, una grande influenza i rapporti con il marito, i fratelli, in genere gli uomini della famiglia che spesso esercitano un diffuso e profondo controllo. Per gran parte degli stranieri immigrati il legame familiare è il più forte, se non esclusivo, sia nel paese di residenza sia in quello d'origine. Il rapporto con la famiglia ed il gruppo ha quasi sempre connotati di significativa differenza rispetto a quelli europei.

Se non ci si confronta con altre culture è difficile percepire come l'individualismo e una visione della famiglia come un nucleo chiuso e limitato alla coppia e ai loro discendenti sia radicato nella nostra. La nostra società è l'unica in cui per il matrimonio, che si auspica unico per tutta la vita, non è richiesto altro requisito che la volontà dei due coniugi e l'assenza di altri legami (15) Non c'è alcun ruolo formalizzato delle famiglie, né un controllo medico o sociale, né garanzie economiche o di altro genere. Ciò ci appare come una conquista irrinunciabile, ma non lo è necessariamente per donne non occidentali.

Ad esempio, da una ricerca compiuta in una comunità di donne sikh provenienti dall'Africa orientale e residenti in Inghilterra è emerso che esse vedono molti vantaggi nei matrimoni combinati, purchè naturalmente la donna abbia un diritto di veto se non ritiene accettabile il pretendente. (16) Recentemente in un convegno dell'associazone femminista National Organization for Women è stata rivendicata alla poligamia una funzione positiva anche per le donne occidentali impegnate nel lavoro e nella carriera, in quanto permetterebbe una maggior libertà ripartendo la cura del marito e dei figli.

Lo stile di vita europeo, se pur attraente, costituisce raramente il modello prescelto, la sua influenza determina tuttavia un processo di discussione, scelte e compromessi continui. Nell'adattamento al paese straniero si sottopongono ad una sorta di rielaborazione della propria identità in cui devono convivere le istanze della cultura di origine e quelle della cultura del paese di stanziamento.

La mediazione tra le culture e la rielaborazione di modelli di vita adeguati è spesso affidata di fatto in gran parte alle donne, che da un lato sono le custodi delle tradizioni domestiche, familiari e sociali, dell'educazione dei figli, dall'altro sono quelle che più sentono la diversità della propria posizione rispetto a quella delle donne nella società d'immigrazione o, più generalmente, gli stimoli e il desiderio di modificare i propri ruoli.

E' stato da più ricerche riscontrato come le donne immigrate dimostrino una maggior capacità d'adattamento degli uomini della loro comunità, forse anche solo perchè più legate alle necessità familiari e meno colpite dai rapporti esterni. Si constata poi come i discorsi e le rappresentazioni tendano a proporre della posizione delle donne nelle comunità immigrate, una visione conservatrice e tradizionalista che di fatto non esiste più. Anche se apparentemente nulla sembra mutato rispetto agli assetti tradizionali, nella vita quotidiana operano continui compromessi e progressive trasformazioni attraverso strategie per noi difficilmente intuibili e che per le donne si traducono spesso in una maggiore libertà e autonomia. Istituti che spesso sono presentati come arcaici e immutabili sono invece in costante, benché silenziosa, trasformazione.

Le trasformazioni in atto nella situazione delle donne hanno confini ben più ampi di quelli europei. Un processo di occidentalizzazione che porta ad un miglioramento complessivo della posizione femminile è in corso anche all'interno di numerosi paesi islamici. Lo testimoniano non soltanto alcuni mutamenti legislativi, ma anche il diffuso innalzamento dell'età nuziale e la contemporanea diminuzione del numero di unioni poligamiche e di ripudi. (17)

La distanza più visibile tra la cultura europea e quella islamica continua a concernere lo status personale e la condizione della donna, e i movimenti fondamentalisti, per i quali la donna si pone come guardiano dell'identità musulmana non ammettono negoziazioni su questo piano. Tuttavia la maggioranza degli immigrati e delle associazioni religiose, si dichiarano aperti ad adattamenti, a rivedere alcune norme, purchè si riconosca loro piena legittimità e spazi d'azione politica. Per l'Islam moderato un musulmano ortodosso non può transigere sulle regole di culto, ma può e anzi deve adeguare le altre regole sociali al momento e al luogo in cui si trova.

In varie ricerche si sottolinea il fatto, spesso trascurato, che le donne di comunità immigrate se lavoratrici e dunque con disponibilità economiche possono scegliere se accettare o meno le istituzioni tradizionali della loro comunità e spesso lo fanno modificandole in senso ad esse favorevole. Così, ad esempio, possono costituire la dote per sè o per le figlie in modo tale che permetta loro un'indipendenza dal marito, o attraverso scambi di doni cerimoniali possono acquisire uno status di maggior prestigio. Alcuni istituti o ruoli che agli occhi occidentali possono apparire come forme d'oppressione o discriminazione sono invece vissuti come forme liberatorie perchè di fatto aumentano il potere delle donne nelle loro comunità e famiglie. (18)

E' chiaro che la posizione della donna immigrata dipende fortemente dalla conoscenza della lingua e da una, almeno parziale, autonomia finanziaria dalla famiglia e dagli uomini. Un caso esemplificativo emerge da una ricerca condotta comparativamente nell'ambito delle comunità di immigrati dalla Somalia e dal Bangladesh, entrambe di religione musulmana, che vivono a fianco nelle periferie londinesi. Le prime hanno una maggiore indipendenza e frequenti contatti con individui esterni alla comunità poichè in gran parte lavorano negli ospedali o nelle fabbriche, le seconde invece generalmente non lavorano, non parlano inglese, la loro vita si svolge all'interno della casa, sono del tutto dipendenti dalle famiglie e dagli uomini. Entrambe sono soggette a violenze domestiche, ma le prime potrebbero abbandonare il marito, le seconde no, non possono immaginare di sopravvivere se lasciano la loro comunità, non possono di fatto separarsi. (19)

Le donne che non lavorano e hanno contatti solo con la propria famiglia o comunità assorbono evidentemente molto poco del paese in cui si trovano e la loro posizione rimane quella tradizionale, generalmente aggravata dalla condizione di immigrata. Nella complessità delle dinamiche di trasformazione della vita delle donne immigrate va infatti ricordato che non sempre il soggiorno in un paese occidentale si traduce in un miglioramento delle loro condizioni di vita o in una posizione di maggiore libertà rispetto al paese d'origine, dove esistono reti familiari e sociali più complesse che forniscono maggiori protezioni, dove le donne non soffrono l'isolamento degli immigrati e possono ricorrere a quelle tutele, conoscenze, strategie che i ruoli tradizionali conferiscono loro. In alcuni casi poi le donne immigrate si ritrovano in situazioni di minore libertà ed emancipazione rispetto alle loro coetanee rimaste in patria: nel paese straniero infatti le comunità si richiudono per proteggersi, le tradizioni si congelano, mentre in quello da cui provengono si trasformano.

In una serie di incontri con donne arabe, in maggioranza egiziane, che vivono a Milano, organizzati da un centro di psicologia transazionale, l'isolamento è stato presentato come la principale fonte di sofferenza, le strutture della famiglia allargata non sono sostituite da altre. All'isolamento si aggiunge per molte di esse la preoccupazione di non poter dare ai figli un'educazione musulmana, una ragione che le conduce a programmare costantemente il rientro in patria, ma questo non è sempre possibile e comunque significherebbe ancora dividere la famiglia. Spesso passano gli anni in condizioni di precarietà e incertezza, senza la capacità di intervenire nella propria vita con progetti o cambiamenti.

3. I ruoli del diritto

Nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita, delle garanzie di libertà e eguaglianza delle donne appartenenti a minoranze straniere, il diritto nelle sue varie modalità d'azione assume funzioni essenziali.

La rivalutazione dello strumento giuridico per le battaglie femminili e "la proposta di tornare ad agire dentro e attraverso il diritto" (20) che si stanno manifestando in varie voci del pensiero femminista riveste valenze ancora più significative per le donne immigrate. Naturalmente esso richiede di poggiarsi su conoscenze complesse, da cui il ruolo preminente delle scienze sociali, e di costruirsi in forme contestualizzate e elastiche nel tentativo di non riprodurre errori passati.

La consapevolezza delle connotazioni maschili del diritto, della sua non-pariteticità originaria e dunque della difficoltà di farne un uso finalizzato alla promozione e tutela femminile, non devono far dimenticare il ruolo che esso ha avuto e tuttora può assumere come strumento di liberazione, di ridefinizione e fissazione dei rapporti. Alla ricerca di nuovi termini, categorie, norme, procedure che si basino sulla constatazione della differenza uomo-donna, non può non affiancarsi la percezione che per la maggior parte delle donne che non hanno raggiunto una tale autonomia da permettersi l'isolamento, il diritto anche nelle sue forme attuali può fare molto.

Esigenze di riformulazione non solo delle norme, ma anche preliminarmente delle strutture concettuali che reggono i diritti vigenti si rendono necessarie anche in relazione alla cosiddetta multiculturalità delle società attuali. Un diritto in grado di rispecchiare le differenze culturali e di rispondere alle esigenze delle varie componenti sociali senza perdere unità e certezza, ma soprattutto senza rinunciare ad esprimere valori fondamentali costruitisi nella tradizione occidentale è tutto da costruire. L'impossibilità, anche senza considerarne l'opportunità, di raggiungere un diritto che tratti veramente in modo paritetico tutte le componenti culturali di una medesima società è peraltro evidente, dal momento che anche solo l'uso delle nostre categorie concettuali e linguistiche implica la perdita della neutralità. Né questa mi pare recuperabile attraverso una costante analisi e ridefinizione del linguaggio giuridico. (21)

Tuttavia si possono, e si stanno, sviluppando una serie di disposizioni giuridiche, specificamente rilevanti per gli immigrati, ispirate in ultima analisi alla realizzazione del principio di eguaglianza attraverso la diversità di trattamento. Mi pare esse siano riconducibili a due grandi aree: quella di un diritto che possiamo chiamare 'multiculturale' e quella della piena realizzazione dei diritti individuali.

3.1 pluralismo culturale e diritto multiculturale

L'opportunità di costruire un diritto 'multiculturale' deriva dall'esistenza di fatto di un pluralismo normativo e si poggia su un, più o meno moderato, relativismo come valore oltre che su considerazioni di integrazione sociale e certezza del diritto. Esso si tradurrebbe poi in un aumento delle tutele individuali attraverso l'erosione dello spazio controllato dalle giurisdizioni informali e comunitarie.

I diritti positivi, nazionali o sovranazionali, per rispecchiare e rispondere alle esigenze di una società multiculturale, dove le differenti appartenenze vengano considerate egualmente meritevoli di tutela, richiedono alcuni mutamenti. E cioè richiedono che norme e sentenze inquadrano comportamenti in fattispecie speciali in relazione a specificità culturali di chi li pone in essere (ad es. la previsione di forme speciali di matrimonio; la disposizione di sanzioni meno severe per l'escissione compiuta da genitori africani, ecc)

Sul piano giudiziario vi sono vari modelli possibili, sperimentati soprattutto in paesi extra-europei, diversamente combinabili anche a seconda delle materie: dalla concessione di maggiore autonomia alle parti se concordi nel seguire le norme della propria comunità, al riconoscimento, subordinato a determinate garanzie, di organismi tradizionali di giudizio e trattamento delle dispute, alla predisposizione di giurisdizioni autonome, al riconoscimento da parte della magistratura ordinaria di norme speciali. In ogni caso si tratta di regimi speciali e dunque di una formalizzazione, almeno parziale, del pluralismo esistente.

Affrontare giuridicamente le differenze significa in primo luogo conoscerle, ma qui sorgono una serie di difficoltà legate all'incertezza e all'eterogeneità delle norme di riferimento. Il pluralismo normativo connesso alle comunità immigrate ha infatti caratteri di forte differenziazione e mutabilità. La pluriappartenenza che caratterizza gli individui nella società contemporanea, da cui deriva la sollecitazione di norme differenti, talora anche conflittuali, è ancora più frequente e complessa per gli immigrati. Ogni individuo si trova a dover ricomporre, scegliere e tener insieme una pluralità di norme aventi differenti origini e contenuti non sempre facilmente compatibili. (22) Il diritto positivo degli Stati di provenienza è un riferimento insufficiente, dal momento che ad esso si affiancano, talvolta in forme più vincolanti, norme di differenti fonti, soprattutto legate all'appartenenza religiosa, etnica, territoriale, comunque riferibili ad ordinamenti infranazionali o supranazionali.

Lo stanziamento nel paese di immigrazione conduce inoltre ad una trasformazione degli istituti originari e alla nascita di nuove forme giuridiche sincretiche, non formalizzate e in continua evoluzione.

Ciò è particolarmente evidente nel campo del diritto di famiglia. In Europa si sta di fatto creando un diritto vivente per i musulmani che risulta da compromessi tra il diritto originario e il diritto dello stato di accoglienza, (23) anche le istituzioni pubbliche attrverso una progressiva reinterpretazione delle norme vigenti, ma anche una limitata creazione di norme nuove, cominciano a prenderne atto.

Il diritto di famiglia e gli altri rapporti che rientrano nell'ambito del diritto internazionale privato e sono spesso disciplinati da accordi bilaterali - che pure danno origine a casi complessi soprattutto se coinvolgono persone di differente cittadinanza - non esauriscono tuttavia le situazioni giuridicamente rilevanti. Infatti da un lato il problema di tener conto dell'appartenenza culturale e religiosa si pone anche nei confronti di coloro che sono diventati cittadini del paese europeo, dall'altro pone anche per rapporti che rientrano in altri settori del diritto privato e pubblico.

Per il diritto di famiglia dei musulmani europei nella scienza giuridica vi sono ormai molte proposte di creare norme speciali che rispondano specificamente ai loro problemi. Queste norme potrebbero essere formulate da esperti di diritto islamico sulla base di accordi tra istituzioni islamiche e europee, ma anche attraverso la formalizzazione di comportamenti normativi che emergono nella prassi, e la generalizzazione di soluzioni giurisprudenziali. (24)

Il diritto di famiglia costituisce in questo senso un campo sperimentale per la costruzione di strutture e categorie giuridiche improntate all'elasticità e alla valorizzazione delle differenze. Questa esigenza si pone infatti anche in altri ambiti del diritto, dove peraltro i limiti e le cautele devono essere sono evidentemente molto maggiori.

Anche per comportamenti penalmente rilevanti in alcuni casi la giurisprudenza degli Stati europei è stata presa in considerazione nella valutazione di un comportamento e della sanzione erogata la componente culturale. (25) La diffusione e il significato culturale di determinati usi può rendere opportuno conferire loro una qualificazione giuridica specifica e dunque sanzioni e interventi ad esso adeguati. A me pare, infatti, che le connotazioni culturali di un comportamento, nei casi di maggior vincolatività, possano rientrare nei suoi elementi costitutivi, richiedendo di conseguenza l'applicazione di una specifica riserva di legge. In altri termini la valutazione delle conseguenze giuridiche di un comportamento può, in alcuni casi tassativi, tenere conto di chi lo pone in essere e del contesto culturale e normativo in cui agisce configurando per via legislativa, un reato specifico. (26)

Mentre nei rapporti di diritto privato, la tutela dell'individuo richiede comunque che l'applicazione di norme speciali sia subordinata alla richiesta di entrambe le parti, con particolari garanzie per i minori, per i comportamenti penalmente rilevanti si deve trattare comunque di eccezioni fondate su un'accurata valutazione del comportamento, delle sue valenze culturali e delle conseguenze della sanzione nella fattispecie.

In ogni caso per diminuire i rischi di pregiudizi che possono derivarne per i soggetti più deboli all'interno di un gruppo, e dunque spesso per le donne, alle norme "comunitarie" vanno affiancati meccanismi che li tutelino individualmente, ne accertino e garantiscano la libera adesione e ne permettano il successivo distacco. Ma è proprio la protezione di questi soggetti che può essere in molti casi più adeguatamente perseguita attraverso il ricorso a forme e strategie già contemplate o comunque compatibili con il quadro normativo e culturale di appartenenza, che non attraverso la sua negazione e l'imposizione, spesso inefficace, di modelli esterni.

3.2 Diritti sociali, culturali e autonomia femminile

La seconda modalità di intervento del diritto corrisponde all'insieme eterogeneo di misure finalizzate a tutelare e garantire i diritti culturali e ad assicurare la parità di trattamento nell'accesso e nel godimento dei diritti liberali e sociali. Sono in prevalenza norme, articolate a vari livelli dell'ordinamento giuridico, dirette alle istituzioni e agli organi, pubblici e privati (ad esempio previsioni di orari, festività, alimentazione ecc. nei luoghi di lavoro come nelle istituzioni pubbliche compatibili con le prescrizioni religiose; agevolazioni nell'accesso al lavoro, all'abitazione, alle strutture pubbliche in genere, ecc.)

Tutte queste misure sono accomunate dalla funzione di realizzare un'eguaglianza sostanziale attraverso la tutela e la valorizzazione delle differenze e a promuovere al contempo la partecipazione e l'integrazione socio-economica degli immigrati. Le due dimensioni sono strettamente connesse, infatti è ormai acquisito che il godimento di diritti sociali non solo facilita la realizzazione dei diritti liberali, ma agevola anche la conservazione delle identità culturale, sia perchè una corretta interpretazione dei diritti sociali deve tenere conto delle differenze culturali, sia perchè la conservazione della cultura di una minoranza si appoggia anche su condizioni di vita dignitose.

Tutto ciò è ancora più evidente per le donne immigrate che la carenza di occupazioni esterne retribuite, di strutture pubbliche e servizi adeguati alle loro richieste contribuisce a mantenere in una situazione di isolamento, di chiusura in un assetto familiare che non offre neanche più le protezioni di quello tradizionale. La loro autonomia e la possibilità concreta di sottrarsi a regole che non condividono richiede dunque in primo luogo, come è già stato per quelle autoctone, un accesso al lavoro, all'istruzione, all'alloggio, all'assistenza medica compatibile con le loro esigenze.

Di fronte a situazioni discriminanti interne alla comunità di appartenenza, più che divieti o imposizioni, sono da privilegiarsi interventi diretti ad aumentare e rendere effettivi gli strumenti di tutela ed emancipazione, che mettano le donne nelle condizioni di poter scegliere, di poter almeno immaginare una vita alternativa a quella tracciata dalle proprie origini.

Tra le misure di tutela le più problematiche sia sul piano concettuale che su quello sociale sono notoriamente quelle azioni positive che, a fronte di una scarsità di risorse, che siano posti di lavoro, di ammissione nelle scuole, alloggi, asili ecc, favoriscono alcuni individui rispetto ad altri solo per la loro appartenenza ad una categoria. Per queste misure la giustificazione più comunemente accettata fa riferimento ad uno stato precedente di discriminazione e inferiorità, da cui deriva un diritto di reintegrazione. Il risarcimento di un danno subito come gruppo se giustifica misure che favoriscono le donne appartenenti alla maggioranza, a maggior ragione è applicabile alle donne appartenenti a popolazioni immigrate da paesi non occidentali.

Il problema dell'accettazione sociale di questo tipo di misure rimette in gioco il rapporto tra individuo e gruppo dal momento che non sono i soggetti direttamente coinvolti ad aver operato personalmente discriminazioni, e talvolta neanche ad averle subite, ma i gruppi a cui appartengono. Perchè un giovane studente bianco americano dovrebbe sentirsi responsabile e pagare in nome del fatto che la civiltà a cui appartiene ha fatto dei danni ai neri, o alle donne? Questo problema si pone in forme più evidenti nei confronti degli immigrati nei paesi europei, che non sono percepiti come parte della società nazionale, ma come stranieri, spesso indesiderati o comunque provvisori. E a maggior ragione perchè dover risarcire un danno procurato alle donne di un'altra comunità dalla loro stessa cultura?

Il principio dell'individualismo, per cui nessuno vuole pagare per colpe di gruppo, è saldamente radicato nella cultura occidentale. E' invece è proprio questo da mettere in discussione: anche se non ne siamo autori, abbiamo una responsabilità ed un debito per i privilegi di cui godiamo a scapito di altri. Ma è difficile da accettare per chi già si sente in diritto di risarcimento in quanto donna, in quanto disoccupata, in quanto sprovvista di sufficienti risorse. Dubito che la maggior parte delle donne lavoratrici italiane troverebbero giusto rinunciare al posto all'asilo per il proprio figlio a favore di quello di una donna immigrata.

Ed è a questo punto che devono entrare in gioco altri valori, come quello della solidarietà femminile, che si fonda sulla percezione di un'affinità che va al di là delle differenze culturali, ma anche quello del multiculturalismo come principio etico, come una "nuova sensibilità". (27)

4. Politica della presenza e associazioni femminili

Mentre sul piano giuridico, si possono cercare formulazioni dei diritti individuali che inglobino quelli culturali, e comunque subordinare i secondi ai primi, sul piano politico è evidente l'insostituibile funzione di tutela e partecipazione esercitata dalle organizzazioni rappresentative di gruppi minoritari. La partecipazione di associazioni di immigrati è d'altronde necessaria sia per contribuire ad una più adeguata interpretazione dei loro diritti, sia per la formulazione di norme che li riguardano.

Un indubbio ostacolo allo sviluppo di una politica della presenza intesa come partecipazione alle decisioni e alla formulazione di norme ai vari livelli istituzionali, dai regolamenti scolastici alle leggi, è tuttavia costituito proprio dall'individuazione di attori collettivi rappresentativi delle popolazioni di immigrati. Non va infatti trascurato che nei paesi europei la convivenza tra società autoctona e comunità di immigrati, più o meno recenti, presenta aspetti peculiari e differenti rispetto a quelli della società americana, in cui differenti comunità si sono radicate attraverso generazioni. La loro storia, benchè autonoma è comunque strettamente connessa a quella nazionale e i loro caratteri e rapporti, più o meno conflittuali, con le altre componenti sociali si sono definiti e costruiti nel tempo.

Le comunità d'immigrati esistenti nei paesi europei non sono generalmente gruppi elettivi di affinità nel senso indicato da Young (28), ma piuttosto la continuazione di organizzazioni tradizionali e di forme di aggregazione esistenti nel luogo e nella cultura d'origine. Esse inoltre comprendono una parte molto limitata delle popolazioni immigrate che sono altamente eterogenee, anche quelle che vengono generalmente considerate minoranze in base ad un attributo di provenienza geografica, appartenenza religiosa o altri sono di fatto popolazioni frammentate e scarsamente istituzionalizzate, con un livello scarso di organizzazione interna e un'immagine esterna molto più indefinita. Lo stesso termine 'minoranze' appare particolarmente problematico riferito alle popolazioni di immigrati. (29) Le cosiddette minoranze islamiche, ad esempio, si definiscono solo in relazione alla maggioranza cattolica o protestante, ma hanno pochissimi caratteri di omogeneità interna. In Italia, come negli altri paesi europei non esiste una, ma molte minoranze islamiche, anzi molte comunità musulmane. Senza contare poi che le associazioni islamiche rappresentano solo dei settori minoritari dei musulmani, molti dei quali non hanno rapporti con le istituzioni e vivono personalmente la religione e le scelte connesse alle sue pratiche. L'attribuzione di diritti culturali incontra dunque anche un limite operativo nel fatto che vi è spesso un'alta differenziazione all'interno di quella che si considera correntemente una cultura e sono possibili semplificazioni e uniformazioni indebite, facilitate dal fatto che gli interlocutori istituzionali cui si fa riferimento spesso non sono rappresentativi della comunità, benchè tendano a presentarsi come tali. (30) Il rischio concreto è di creare una cultura facendo riferimento solo alle istanze più visibili, organizzate e potenti e imponendo implicitamente degli obblighi anche per chi non vi si riconosce. Anche perchè spesso proprio i soggetti che hanno maggior bisogno di tutela non si organizzano e autodefiniscono come gruppo.

Se far riferimento alle organizzazioni ufficiali è riduttivo rispetto all'immigrazione nel suo complesso, lo è ancora di più per le donne. Il problema si sposta soprattutto sui meccanismi di partecipazione e di potere interni ai gruppi: sia la garanzia di margini d'autonomia, sia l'attribuzione di beni e diritti ai gruppi senza una verifica di come saranno utilizzati al loro interno comporta una buona probabilità di discriminazione degli individui con meno potere interno, tra cui di fatto in primo luogo le donne. La loro partecipazione nel determinare la linea, le richieste, i rappresentanti delle comunità è infatti generalmente molto limitata.

Non solo va considerato che non necessariamente ogni membro di una minoranza si farà portatore degli interessi comuni, ma anche le procedure attraverso le quali vengono definiti i supposti "interessi comuni" di un gruppo. Inoltre, secondo quanto osservato da Habermas la collettivizzazione dell'azione legale "può rimediare all'impotenza e all'impreparazione della clientela solo a patto che non si limiti a esonerare i singoli individui tramite una sostituzione competente, ma sappia anche renderli partecipi all'organizzazione, articolazione e imposizione dei propri interessi". (31)

Nel nostro caso scegliere come interlocutore per la partecipazione alle politiche pubbliche istituzioni ufficialmente rappresentative di una minoranza, ma in cui le donne sono di fatto, e spesso anche di diritto, escluse dal processo decisionale, è chiaramente un errore, che può aggravare ancor più la loro posizione. Così, ad esempio, su questioni che riguardano l'esercizio di pratiche o l'applicazione di norme islamiche, né le associazioni femministe europee, né le comunità musulmane possono essere considerate rappresentative delle donne musulmane, dal momento che non abbiamo alcuna garanzia che esse esprimano il loro punto di vista.

Se le associazioni islamiche richiedono che le donne musulmane possano essere fotografate sui documenti con il foulard, ciò non è da considerare automaticamente una discriminazione incostituzionale, dal momento che il velo può assumere vari significati, religiosi, culturali, strategici, di costume ecc. Il problema invece è che la richiesta venga dalle donne stesse e capire se questa concessione si tradurrebbe in una forzatura per quelle tra loro che non lo vogliono indossare.

Benchè l'associazionismo femminile sia in grande espansione, la maggior parte delle donne immigrate non fa ancora riferimento ad istituzioni dalle quali abbia scelto liberamente di essere rappresentata e alle cui decisioni partecipi, soprattutto se la riguardano personalmente. Un obiettivo essenziale da perseguire pubblicamente è dunque la formazione di gruppi di donne straniere sia che si tratti di associazioni basate su interessi comuni e sulla comune posizione di straniere, sia che si tratti di associazioni che si costituiscono sulla base di caratteristiche culturali, religiose, etniche, regionali ecc.

Nel primo caso donne provenienti da differenti aree geografiche, culture, religioni dal momento che vivono da straniere sullo stesso territorio, si ritrovano in quanto portatrici di richieste comuni in materia di diritti, tutele, agevolazioni, trattamento nei luoghi di lavoro, scuole ecc. Esistono infatti problemi specifici delle donne immigrate che non si esauriscono né nei problemi delle donne né degli stranieri e al contempo costituiscono un denominatore comune di più differenti identità culturali. Nel secondo caso si tratta invece di forme d'aggregazione che ripropongono identità tradizionali su cui si fondano bisogni, forme e percorsi di vita. Vi sono naturalmente anche delle associazioni che assommano entrambe le tipologie.

In linea generale per tutte le scelte che riguardano gli immigrati, ma a maggior ragione per le questioni che le riguardano più direttamente, è essenziale poter assicurare la partecipazione di associazioni non soltanto di stranieri, ma più precisamente di donne straniere, che dovrebbero diventare un interlocutore delle istituzioni pubbliche dalle scuole, ai Comuni, alle commissioni legislative.


Note

*. Quest'articolo è apparso in "Ragion Pratica", 1998, 2, pp. 175-95. Un successivo sviluppo di questi temi è contenuto in A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2001.

1. Non considero il caso dei minori che presenta caratteri particolarmente complessi, poiché al quadro problematico generale della convivenza multiculturale aggiunge quello della tutela dell'"interesse del minore". Ma chi è più adatto a tutelare l'"interesse del minore", la famiglia, la comunità o lo Stato? E con quali limiti per ciascuno di essi? Quale influenza deve avere l'opinione del minore stesso? Per una sintesi delle principali domande che si è posta in proposito la giurisprudenza statunitense, cfr. R. A. Shweder, H.R. Markus, M.L. Minow, F.Kessel, The Free Exercise of Culture. Ethnic Customs, Assimilation and American Law, in "Items", 4, 1997, pp. 63 ss.

2. L. Gianformaggio, M. Ripoli, Presentazione, in "Ragion Pratica", 1997, 8.

3. M. Mead, Maschio e femmina (1949), Mondadori, Milano 1991, pp.16-17. Gli studi antropologici sul "gender" hanno conosciuto un grande sviluppo a partire dagli anni '70 in particolare attraverso l'antropologia femminista, ma i lavori di Mead sono ancora considerati un punto di riferimento essenziale per gli studi sulla costruzione culturale dei ruoli sessuali. Cfr. l'introduzione a Gender and Anthropology. Critical Reviews for Research and Teaching, ed. by. S. Morgen, American Anthropological Ass., Washington D.C., 1989.

4. Per una nozione di eguaglianza compatibile con la valorizzazione delle differenze cfr. L. Gianformaggio, Identity, Equality, Similarity and the Law, in "Rechtsteorie", 15, 1993 e L. Ferrajoli, La differenza sessuale e le garanzie dell'eguaglianza, in "Democrazia e diritto", 2, 1993.

5. Cfr. U. Gerhard, Femminismo e diritto: verso una concezione femminista e contestualizzata dell'eguaglianza, in "Ragion Pratica", 8, 1997.

6. Haut Conseil à l'Intégration, Rapports au Premier Ministre, La Documentation francaise, Paris, 1991, 1992, 1995. La nozione di integrazione che si è affermata negli ultimi anni prevede invece la regolamentazione dei flussi d'entrata e la contemporanea predisposizione di misure per la partecipazione degli immigrati alla vita economica, sociale e, a lungo termine, politica, lasciando dunque a parte la dimensione culturale e religiosa. Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Politiche di immigrazione e di integrazione sociale degli immigrati nella Comunità Europea, Bruxelles, 1990, p. 14.

7. Questo processo di marginalizzazione della massa a fronte dell'emersione di un gruppo ristretto è osservata da Young a proposito dei neri d'America: cfr. I.M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 200.

8. Sull'idea che una politica volta a mantenere rigidamente le differenze possa facilitare la formazione di gruppi intolleranti e aggressivi reciprocamente, cfr. E.Vitale, Taylor, Habermas, Sen: multiculturalismo, stato di diritto e diseguaglianza, in "Teoria politica", 3, 1995, p. 78.

9. Sulla distanza tra la percezione occidentale di un "mondo islamico" con caratteri di omogeneità e invece l'eterogeneità e disgregazione della presenza musulmana, cfr. C. Saint-Blancat, L'Islam della diaspora, Ed. Lavoro, Roma 1995.

10. Del tutto opportuna mi pare l'avvertenza di Dal Lago:"In questo quadro il gran parlare di multiculturalismo come di una dimensione assodata appare una falsificazione della realtà più o meno intenzionale o, nel migliore dei casi, un modo di rimuovere l'asprezza delle relazioni che i paesi ricchi intrattengono con gli abitanti di quelli poveri (...) più che parlare di conflitti tra "identità" suscitati da culture che competono per procurarsi risorse, spazi e tempi della vita sociale è necessario riflettere sullo squilibrio sempre più visibile tra società, le nostre, che restano dominanti e tendono a proteggere oggi più di ieri la loro esclusività e frammenti minoritari di altre popolazioni presenti tra noi a cui si attribuisce una valenza culturale di cui oggi non dispongono." Introduzione in A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 15.

11. Alle spalle di quest'ovvia constatazione vi è la grande questione del relativismo etico e cognitivo che interessa non solo il dibattito filosofico, ma anche quello interno alle scienze sociali. Cfr. T. Pitch, L'antropologia dei diritti umani, in A. Giasanti e G. Maggioni (a cura di), I diritti nascosti, R. Cortina, Milano, 1995.

12. Vedi gli argomenti portati da P. Comanducci, Diritti umani e minoranze: un approccio analitico e neo-illuminista, in "Ragion pratica", 2, 1994, a sostegno di una supremazia dei diritti liberali sui diritti culturali, negativi e positivi. Ancora più netta la posizione di Habermas a favore di un assorbimento dei diritti collettivi in quelli individuali, in quanto assolta la funzione di tutela e riconoscimento dei suoi membri che può essere espletata dai diritti individuali, i diritti collettivi fornirebbero alle culture una "garanzia di sopravvivenza" che sottrarrebbe libertà agli individui che vi appartengono (Lotta per il riconoscimento nello stato democratico di diritto, in C. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 1998.

13. Questa necessità di mantenere sé e i propri figli in regola con la cultura del luogo d'origine porta anche a scelte estreme. Durante una lezione in un corso per mediatrici culturali rivolto a donne straniere, e si trattava principalmente di donne somale con un elevato grado di istruzione e, evidentemente, interesse per la socializzazione in Italia, ho saputo che molte di loro avevano subito un intervento di infibulazione e ho chiesto loro cosa ne pensavano e se l'avrebbero fatta fare alle loro figlie. Tutte, una decina, erano senza riserve contrarie a questa pratica e ne denunciavano le implicazioni e le conseguenze, ma solo una ha risposto che non l'avrebbe fatta a sua figlia.

14. Cfr. l'introduzione a Migrant Women. Crossing Boundaries and Changing Identities, ed. by G. Buijs, Berg, Oxford, 1993.

15. M. Mead, "op.cit.", p. 311.

16. P. Bachu, Identities constructed and reconstructed: representation of agent women in Britain, in G. Buijs (ed.), op.cit. pp. 99-113.

17. Per una rassegna di dati cfr. M. Salhi, La famiglia musulmana immigrata e nel paese di origine: tendenze demografiche e indicazioni di tendenza, in I musulmani nella società europea, Fondazione G. Agnelli, Torino, 1994, pp.63-76.

18. Cfr. G. Buijs (ed.), op.cit., Introduzione.

19. Cfr. lo studio di H. Summerfield, Patterns of Adaptation: Somali and Bangladeshi Women in Britain, in G. Buijs (ed.), op. cit., pp. 83-98.

20. L. Gianformaggio, M. Ripoli, Presentazione, in "Ragion Pratica", 1997, 8, p. 12 e nello stesso fascicolo il saggio di U.Gerhard.

21. Cfr. J. Tully, Strange Multiplicity. Constitutionalism in an Age of Diversity, Cambridge U.P., Cambridge, 1995.

22. Cfr. A. Facchi, Pluralismo giuridico e società multietnica: proposte per una definizione, in "Sociologia del diritto", 1, 1994, pp. 47-57.

23. Ad esempio, già alla fine degli anni '80 una ricerca sul matrimonio dei maghrebini in Francia ha documentato l'esistenza di un regime misto tra diritto francese e islamico-tradizionale: E. Rude Antoine, Le mariage maghrebin en France, Khartala, Paris, 1990.

24. Cfr., tra gli altri, B. Etienne, La France et l'Islam, Hachette, Paris 1989, p. 209 e E. Jayme, Diritto di famiglia, società multiculturale e nuovi sviluppi del diritto internazionale privato, in "Rivista di diritto internazionale privato e processuale", 2, 1993, p. 304.

25. Sostiene un diritto penale interculturale fondato sui diritti dell'uomo O. Hoeffe, Intercultural Criminal Law: Does it Exist?, in "Ratio Juris", 3, 1998, pp.206-27.

26. Ciò conduce a preferire anche nel caso emblematico dell'escissione una soluzione legislativa depenalizzante, sul tipo di quella adottata in Gran Bretagna, ad una soluzione giurisprudenziale come quella adottata in Francia, cfr. A. Facchi, Immigrazione, libertà e eguaglianza: due modelli politico-giuridici, in "Teoria politica", 2, 1996, pp. 111-124. I rischi e gli effetti perversi connessi alla via giudiziaria sono stati ripetutamente messi in luce nel dibattito francese (cfr. "Droit et Cultures", 20, 1990; 25, 1993).

27. Sul multiculturalismo come una "nuova sensibilità morale (...) un cambiamento nel modo di pensare alle nostre società (...) una sensibilità che prende più sul serio l'alterità degli altri" insiste J. Raz, Multiculturalism, in "Ratio Juris", 3, 1998, pp.193-205.

28. I. M. Young, "op. cit", p. 216.

29. Cfr. M. Furiani, Minoranze e multiculturalismo, in "Rassegna quadrimestrale della Commissione nazionale italiana per l'UNESCO", 1995, che sottolinea le difficoltà di trasferire il concetto e la letteratura tradizionale sulle minoranze alle attuali comunità di immigrati.

30. Ciò è apparso chiaramente anche in Italia quando si è trattato di individuare un interlocutore ufficiale che rappresentasse i musulmani, regolarmente residenti in Italia con il quale lo stato italiano potesse concludere un accordo sulla regolamentazione dei comportamenti legati alla fede islamica. L'Ucoii chiede di essere riconosciuta come ente con personalità giuridica "rappresentante della confessione islamica nei rapporti con lo Stato e per le materie di interesse generale dell'islamismo". Ma è proprio questa rappresentatività che le viene negata dal momento che sono molte le istituzioni islamiche, talvolta anche in disaccordo tra loro. Cfr. Bozza di intesa tra la Repubblica Italiana e l'Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia, in "Dimensioni dello Sviluppo", 1993, 1.

31. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano, 1997, p. 486.