2005

Nuove guerre, mutamento internazionale, trasformazioni del diritto (*)

Alessandro Vitale (**)

A fronte della nuova conflittualità e delle sempre più frequenti crisi internazionali emerse a livello globale nella fase post-bipolare, le cui radici però erano tutte presenti nei processi della fase storica precedente, l'obsolescenza delle categorie giuridiche impiegate per secoli per inquadrare il fenomeno bellico, incasellarlo, decifrarlo, limitarlo e regolamentarlo, appare sempre più lampante, così come sempre più insistente diventa lo stridore fra gli schemi ai quali siamo abituati nella lettura delle relazioni internazionali e la realtà effettuale della politica internazionale nel suo complesso.

Non è certo un caso se gli appelli al rispetto del diritto internazionale nelle operazioni volte al "ripristino della legalità internazionale" condotte contro un nemico assoluto che non ha nulla della fisionomia e della personalità giuridica "internazionale" moderna (il terrorismo internazionale e i rogue States, che lo supporterebbero, abbassati al suo livello,) appaiano ormai battaglie di retroguardia, quasi espressioni di una nostalgia per un sistema, il tramonto del quale, già annunciato da scienziati del diritto e della politica del calibro di Carl Schmitt, appare sempre più evidente.

Il tema è vastissimo, cruciale, estremamente complesso da affrontare e sintetizzare nello spazio di qualche pagina e proprio per questo motivo qui si potranno svolgere in merito solo alcune considerazioni sparse e per forza di cose riduttive.

Nonostante la globalizzazione (caratterizzata da una tendenziale de-politicizzazione dei rapporti) e in parte anche per essa, la politica tende ormai a confinare la vera conflittualità, che assume le forme di guerra civile sempre meno separabile fra dimensione "interna" e "internazionale", entro nicchie che possono essere definite con molta approssimazione "interne" a un ordinamento internazionale globale, nel quale l'ultima superpotenza rimasta e uscita vincitrice dalla guerra mondiale fredda tenta, sempre più spesso con risultati limitati e inefficaci, di "mettere ordine" con strumenti e metodi che fanno saltare anche le "normali" regole della convivenza internazionale e quelle di diritto, laddove la conflittualità tipica della frammentazione (terrorismo, guerriglia, minaccia dell'uso di armi di distruzione di massa da parte di attori non statali), diventando assoluta in quanto incompatibile con l'ordinamento stesso e il mantenimento dello status quo internazionale moderno, coinvolge gli stessi rogue States, equiparati ad attori irregolari e quindi "delinquenziali" di quella "illegittima" guerra civile interna al sistema, della quale essi sono gli "insorti" inammissibili che supportano forme di guerra fuorilegge: fenomeno bellico che distrugge, per sua stessa natura, non solo l'applicabilità delle regole del justum bellum, ma anche le limitazioni e le procedure comuni di regolamentazione di un conflitto limitato "esterno".

Il diritto internazionale pubblico, costruito dai giuristi europei con un'opera plurisecolare poi esportata in tutto il mondo, ha alle spalle una lunga storia di fallimenti ed oggi appare sempre più una mirabile costruzione fatta di castelli in aria. La gestione dei rapporti fra Stati era già fallita nel periodo infrabellico (fra le due guerre mondiali) e da allora i conflitti e gli accordi fra Stati sono stati sempre più gestiti sulla base di pure valutazioni di forza e di convenienza (1), senza nemmeno perdere tempo a coprire quelle valutazioni con maschere e argomentazioni di diritto: segno lampante, questo, di un profondo cambiamento del sistema politico internazionale. (2) Nel periodo bipolare la sovranità limitata aveva già vulnerato a morte i principi cardine di quel diritto: dalla comunità internazionale di Stati sovrani, le cui classi politiche si autoregolavano in autonomia reciproca, si era passati agevolmente all'attacco profondo al principio cardine dello Jus publicum europaeum (la "sovranità", che ne era lo stesso presupposto) e ai principi di eguaglianza degli Stati (indipendentemente dalle loro dimensioni), nonché al principio di "non interferenza" nei loro affari interni: tutti fondamenti che sono diventati sempre meno effettuali e la cui crisi definitiva appare oggi in tutta la sua portata.

Il vecchio diritto internazionale e i suoi rigidi quanto inefficaci schematismi avrebbero dovuto, secondo una visione idealistica, culminare nella gestione dell'ONU, ridotta oggi invece con ogni evidenza a dir poco a mal partito e totalmente incapace di prevenire la guerra e di garantire la pace, anche per la sua pretesa di congelare, in ogni modo possibile, la convivenza interstatale moderna, messa a dura prova dall'emergere di profondi fenomeni frammentanti, con i quali per altro anch'essa è costretta a fare amaramente i conti. Quella pretesa di ridurre i rapporti politici a rapporti di puro diritto (risolvendo cioè la politica nel diritto) era già apparsa patetica dopo il secondo conflitto mondiale, quando le superpotenze si erano autoattribuite la qualità di titolari di sfere di influenza e si erano autoincaricate di conservare l'ordine internazionale planetario, svolgendovi primariamente funzioni di polizia internazionale e riuscendovi indipendentemente o addirittura contro l'ONU.

Ancor più questi processi che hanno vulnerato il diritto internazionale, producendo anche la crisi degli organismi internazionali che ad esso fanno riferimento, si sono approfonditi nella fase post-bipolare, nella quale la pretesa di far rientrare, come in una sorta di quadratura del cerchio, fenomeni politici sempre più chiaramente extra-statuali entro categorie e pratiche che hanno regolato i rapporti internazionali per più di tre secoli, diventate ormai "troppo strette", è divenuta lampante. Persino le istituzioni internazionali sono state costrette a fuoriuscire dal rispetto di quel diritto, stabilendo la liceità dell'ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano e la possibilità di penetrarne i confini (3) con operazioni "umanitarie" nel caso di violazione di massa dei diritti umani, considerata come un pericolo per l'umanità intera e introducendo così principi universalistici in netto e distruttivo contrasto con il particolarismo statuale moderno. Una fuoriuscita che ha molto della pretesa rilegittimante di una struttura che, in quanto dominata dalle maggiori potenze, rimane orientata al mantenimento dello status quo internazionale con ogni mezzo, ma che è gravida di effetti perversi per lo stesso sistema interstatuale moderno e per l'efficacia del controllo "di polizia" internazionale all'interno del sistema.

Il problema è comunque che, laddove la rete dei rapporti istituzionali e normativi (atta a trasformare la politica in amministrazione e i rapporti di conflitto politico in procedure) non è sufficiente a regolamentare il conflitto politico (soprattutto se fuoriesce dalle abituali forme interstatali), l'uso della violenza extragiuridica tende a diventare la forma dominante. In questo contesto la radicalizzazione del conflitto contro elementi non riducibili alla convivenza internazionale moderna e che fuoriescono dai limiti di quella regolamentabilità interstatuale che pur il diritto internazionale era riuscito per qualche secolo ad ottenere, prima di cadere sotto la scure delle guerre civili mondiali, rende d'un sol colpo inutilizzabile l'intero apparato giuridico internazionale, che pertanto "va forzato".

Nelle analisi degli esperti americani questa condizione e questa necessità traspaiono da diversi anni. I pericoli derivanti dalla turbolenza internazionale, la natura delle minacce non tradizionali, soprattutto contro i flussi delle risorse energetiche, il terrorismo in quanto forma irregolare di guerra per antonomasia, richiedono strumenti nuovi, in grado di regolare con la forza situazioni di grave frammentazione all'interno di Paesi periferici del mondo, seppur tale forza venga supportata dalla dottrina (già elaborata nei primi anni Novanta) dell'"ingerenza umanitaria". Le motivazioni tradizionali che imponevano o consentivano alle potenze di intervenire militarmente appaiono superate nel contesto della frammentazione internazionale contemporanea: questo accade perché le guerre fra Stati, intese come conflitti fra eguali, diventano sempre meno presenti ed effettuali, mentre si impongono interventi motivati o dal diritto alla legittima difesa (ma contro attori sfuggenti e non-statuali o contro attori statuali - i rogue States - presi a pretesto per avere di fronte un nemico chiaramente individuabile) o dall'ingerenza necessaria per la turbolenza "interna" ad attori, che minacciano la "stabilità" della convivenza internazionale.

In questo quadro appare evidente a cosa si riducano i principi cardine del diritto internazionale: quello plurisecolare di non ingerenza, il rispetto della sovranità degli Stati, l'inviolabilità dei loro confini, la netta distinzione fra inside e outside, la non sottoponibilità di uno Stato alla giurisdizione di un altro (immunità giurisdizionale), l'intangibilità diplomatica dei rappresentanti ufficiali degli Stati stessi. Paradossalmente questo avviene per garantire la sopravvivenza del sistema delle relazioni internazionali post-westfaliane moderne, la loro prevedibilità, la pace e la sicurezza, la cooperazione internazionale: una sopravvivenza che invece proprio da questi mutamenti appare come declinante e al tramonto, a causa dell'obsolescenza stessa dei principi sovranisti sui quali si basa e che fondano l'intero impianto del diritto internazionale.

Il principio di eguaglianza sovrana degli Stati nazionali ad esempio, previsto nell'articolo 2 della carta dell'ONU, viene vulnerato già nella Carta stessa delle Nazioni Unite, che attribuisce alle cinque potenze che hanno vinto il secondo conflitto mondiale lo status di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e di esercitare il diritto di veto. (4) Ancor più la contraddizione è esplosa con la fine del periodo bipolare, con la vittoria statunitense nella guerra fredda, che ha provocato l'obsolescenza del principio: sempre più le maggiori potenze (soprattutto occidentali) dichiarano il loro diritto, che avrebbe fondamento etico e giuridico, di intervenire all'interno degli Stati sovrani, violandone l'integrità territoriale, la sovranità, i confini.

Sebbene inizialmente questo scavalcamento del diritto internazionale sia stato motivato proprio da una controrisposta alla violazione del diritto internazionale stesso e della Carta dell'ONU da parte di uno dei rogue States (l'Iraq, che aveva aggredito uno Stato sovrano internazionalmente riconosciuto), dalla Guerra del Golfo in poi il principio giuridico è stato sistematicamente violato non in risposta a violazioni del diritto internazionale, ma a violenze interne contro le minoranze, che hanno giustificato l'adozione del principio dell'"intervento umanitario", divenuto ormai dominante e autonomo in quanto a forza di legittimazione dell'uso della violenza.

Senza esplicito mandato dell'ONU e in seguito ottenendo un tacito o espresso consenso, gli interventi all'interno di altri Stati si moltiplicano in base al diritto di intervenire per "tutelare i diritti" delle popolazioni soggette, garantendo in tal modo all'ultima superpotenza rimasta il diritto di violare la sovranità degli Stati e di motivarlo con le ormai largamente legittimanti "ragioni umanitarie", usate non a caso da tutte le organizzazioni internazionali, civili e militari, figlie del periodo bipolare. (5)

L'esplosione della crisi del diritto internazionale e degli organismi internazionali, che dura anche oggi approfondendosi di giorno in giorno e che, rovesciando l'andamento di una storia di alcuni secoli, ha prodotto uno strappo sempre più largo e non più ricucibile nel suo tessuto dottrinale, è culminata con l'intervento in Kosovo ed è proseguita con quelli seguiti all'11 settembre 2001.

Qual è però il contesto nel quale questa crisi epocale si è prodotta e si approfondisce? Due elementi sembrano centrali nell'evoluzione internazionale contemporanea e nella crisi del fondamento giuridico della convivenza interstatuale moderna: l'evidente sforzo egemonico statunitense, ampiamente teorizzato dai consiglieri dell'Amministrazione della presidenza imperiale a partire dalla fine del periodo bipolare, sforzo finalizzato a mantenere una stabilità internazionale gerarchicamente guidata, da una parte e la somiglianza crescente del mondo a un gigantesco "interno" (6) nel quale far valere la domestic analogy di marca hobbesiana, con un titolare impietoso della sovranità che possa dominare i riottosi attori (7), dalla fisionomia sempre meno statuale, protagonisti di una guerra civile permanente (anche di opposizione alle pretese o alle dislocazioni imperiali a difesa delle fonti energetiche), che squassa in forme molto diversificate ("nuove guerre", "guerre post-statuali", "post-moderne", "di frammentazione", rischi non-tradizionali, guerriglia, ecc.) e irriducibili alla guerra interstatuale moderna e tradizionale, dall'altra.

Sforzo imperiale e mantenimento dello status quo internazionale

La vittoria statunitense nel conflitto bipolare freddo era un'occasione troppo allettante per non stimolare nella presidenza imperiale progetti di estensione di un governo egemonico nei contesti più disparati del pianeta (8), che sono apparsi ancor più realistici con la vittoria nella Guerra del Golfo. L'estensione egemonica però, di questo si era coscienti, avrebbe dovuto fare i conti non più con grandi e minacciose potenze, ma con la turbolenza e la frammentazione delle aree del Terzo Mondo, agitate dal ribellismo e da rivolte che avrebbero potuto minacciare quel disegno e interrompere le fonti energetiche che garantiscono l'egemonia politica ed economica.

Di fronte all'esplosione delle tendenze verso la globalizzazione (che innescava innanzi tutto processi politici di liberazione degli attori internazionali dalla sovranità limitata bipolare), concomitante con imponenti processi di frammentazione (largamente incompatibili, laddove erano e sono più profondi, con il sistema internazionale moderno), il disegno egemonico imperiale mirava da un lato a cercare di guidare, mediante la "globalizzazione" giuridica quei processi spontanei e dall'altro a mantenere uno status quo internazionale "ordinato" e subordinato alla guida imperiale, tradizionalmente orientata alla strategia atlantica del dominio dei mari e alla proiezione di forza sui litorali. L'"armonia guidata" nelle relazioni internazionali in tal modo congelate avrebbe dovuto essere raggiunta eliminando gli attori scomodi e "anomali" (variamente collegati alla frammentazione), in quanto ostacoli alla riconcentrazione imperiale di potenza.

L'evoluzione di questa strategia però ha incontrato negli ultimi anni difficoltà crescenti ed è dovuta passare dal semplice rendere inefficaci i rogue States, mettendoli in ginocchio con interventi "umanitari" successivi (Libia, Serbia, Iraq ecc.), in realtà autentici "meccanismi correzionali" (isolamento, embargo, attività militare), che li inducevano temporaneamente a rassegnarsi, al dover oggi intervenire al loro interno per sostituirne le classi politiche (Serbia, Iraq). Inoltre, le gravi reazioni terroristiche a livello mondiale e addirittura sullo stesso suolo americano, figlie della frammentazione e del tramonto evidente del sistema internazionale moderno (9), hanno dimostrato la forza dell'eterogeneità degli attori politici nel contesto post-bipolare (e del loro modo di fare la guerra) e hanno richiesto il far fronte a forme del tutto non regolamentabili di conflitto politico, con strumenti sempre più lontani dal diritto internazionale e con giustificazioni ideologiche contenenti sia elementi del diritto all'autodifesa (legittimo sul piano internazionale (10), ma usato da chi e contro chi?) che dell'ideologia globalista dei diritti umani, che da un decennio si è trasformata nel passepartout per conservare ed estendere un modello imperiale sempre più difficile da mantenere e che invece è destinata a produrre una sua crisi ancor più definitiva, in quanto foriera di guerre illimitate in quanto condotte non contro nemici ma contro "criminali". (11) Una condizione questa che sta portando alla graduale sostituzione del diritto internazionale, ormai vulnerato, con la determinazione (o meglio, il tentativo di determinare) le norme della vita internazionale in base a una forma emergente, anomala ma razionale dal punto di vista politico, sebbene ancora del tutto sgangherata, di "diritto imperiale" (12) di tipo vagamente "interno", che non può nemmeno più corrispondere ai secolari (e falliti) tentativi di "messa in forma della guerra", che hanno caratterizzato la vicenda dello Stato moderno.

Il "grande interno" ingovernabile

Già di per sé la logica imperiale tende a non riconoscere pari dignità e sovranità alle altre unità politiche e finisce per subordinare agli imperativi della politica "interna" ogni sua decisione sulla pace e sulla guerra. In questo nuovo "grande interno", che si va delineando a livello globale tuttavia, le regole della "pace d'impero" (imposizione di diversi governi politici; governo secondo leggi imperiali) (13), da ottenere mediante una guerra (o successive guerre) costitutiva del nuovo sistema e da sottoporre poi alla propria visione del mondo, paiono non valere in presenza di attori estremamente eterogenei, ritenuti "nemici assoluti", in continua proliferazione e nei confronti dei quali può avere efficacia solo la debellatio. Certo, la grande illusione imperiale è quella di poter condizionare le sovranità nazionali degli Stati da sottoporre a intervento: le classi politiche che non si adeguano alla nuova situazione internazionale perdono anche il potere. Tuttavia, sia poiché vengono violati i presupposti stessi del diritto interstatuale moderno, sia perché dopo averlo fatto si devono affrontare ambiti di profonda frammentazione, il quadro di totale trasformazione del sistema internazionale che si presenta di fronte alla potenza imperiale non potrebbe essere più completo e più inquietante.

Da una parte, data la minaccia imperiale reale di sostituire le classi politiche scomode dei rogue States, in una spirale della quale non si intravede la fine, la controrisposta da parte di quelle classi e di quei dittatori è quella di dotarsi di armi di distruzione di massa (che poi potranno cadere nelle mani di formazioni terroristiche), che costituiscono la ragione stessa presa a pretesto per gli interventi; dall'altra, il dominio imperiale si trova a dover fare i conti con ambiti di disintegrazione sui quali la logica del confronto internazionale alla quale è abituato, fa sempre più fatica ad affermarsi. Mantenere l'egemonia imperiale su un ambito ordinato di Stati, non è come dover operare in contesti dominati dalla frammentazione, fenomeno dilagante che spezza la coerenza del sistema internazionale moderno e le sue regole costitutive, che sono anche quelle del diritto internazionale. La frammentazione è per sua natura un luogo ingovernabile, sottoposto a processi evolutivi spontanei che in molte aree del mondo testimonia del fallimento e della conclusione dell'esportazione del modello internazionale occidentale (failed States). In essa esplode la crisi della pretesa moderna di limitare la convivenza internazionale a soggetti omogenei e funzionalmente uguali (14) che corrispose con la dimostrazione da parte degli Stati di essere l'unica entità politica in grado di fare la guerra e di finanziarla, in tal modo monopolizzandola. (15)

Certo, la disomogeneità degli attori internazionali non è di per sé causa del fallimento del tentativo di estensione del dominio imperiale, ma nell'epoca contemporanea si assiste al prodursi di fenomeni che quell'egemonia tendono a rendere inefficace. Il caso della Somalia, che ha portato al disimpegno e alla cessazione dell'intervento, rischiava di "risucchiare" la superpotenza nella sua logica a-statuale e quindi incontrollabile e non dominabile. Per poco nei Balcani non è accaduta la stessa cosa, con la "contaminazione" della potenza maggiore del globo da parte di una logica differente della convivenza internazionale, producendone l'impantanamento. Oggi la questione si ripropone in forme drammatiche e i processi sembrano essersi spinti così in profondità da andare ben oltre l'inefficacia del diritto nella vita internazionale fra Stati sovrani, ma di risucchiare persino quegli attori maggiori che ritengono ormai di poterne fare a meno, stracciandolo a piacere, in quanto diventato un "abito troppo stretto", entro un vortice strutturale nel quale viene vanificato lo sforzo della stessa potenza imperiale per contrastare le ribellioni, le resistenze, il non-allineamento che erano ancora reprimibili invece nel periodo bipolare. È sotto gli occhi di tutti infatti l'enorme fatica che gli Stati Uniti stanno facendo per mantenere il controllo imperiale (a riprova della validità della teoria sull'impossibilità di un sistema politico mondiale "unico", della natura mitologica del Weltstaat) e per contenere la disgregazione del sistema internazionale stesso, sempre più privo dei suoi stessi basilari presupposti, che erano anche il contenuto dello stesso diritto internazionale, ormai in coma profondo. L'esaurimento e la violazione sistematica del diritto internazionale contengono già in sé la dimostrazione del fatto che la convivenza non può essere più riorganizzata in un modo coerente con il sistema internazionale moderno, la cui espansione si è con ogni evidenza esaurita (16), nel quale le grandi potenze possono agevolmente dominare le minori, organizzate in modo coerente, riconoscibile, piegate alla logica della potenza e alle regole della guerra moderna.

I tentativi imperiali e globalisti (creare un World Order basato sull'umanitarismo democratico, l'interdipendenza e poi l'integrazione) producono l'effetto contrario rispetto a quello desiderato e stimolano conflitti frammentanti sempre meno controllabili. La loro logica di unificazione e controllo provoca infatti non solo scontri e resistenze a livello regionale, ma anche "conflitti interni" alla comunità internazionale (sempre meno orientata, nonostante le illusioni più diffuse, alla "pax democratica perpetua"), che spezzano la logica della guerra interstatuale e introducono nell'era di quella post-statuale. La maggiore potenza mondiale è costretta a dichiarare guerra a un'associazione terroristica "privata", cercando di portarla su un terreno (e trasformandola ipso facto, in modo del tutto incoerente con i criteri moderni, in "soggetto internazionale"), al quale non è e non sarà mai riducibile: quello del conflitto interstatuale moderno, il quale per l'evidente contraddizione impone di "torcere" addirittura la sua propria stessa definizione, trasformandola in "operazione di polizia internazionale", alla quale sono chiamati a collaborare tutti gli Stati "alleati", con metodi che non potranno mai ovviamente raggiungere il fine prefissato, data la loro natura e i mezzi con i quali operano.

Logica e irrazionalità delle nuove guerre

Il dato nuovo, in questo quadro, è certo l'accettazione dei rischi imponenti che le aree di frammentazione presentano per gli interventi della superpotenza rimasta: per tentare di riorganizzare il sistema e renderlo dominabile occorre rischiare anche l'impantanamento, la "contaminazione" in micro-sistemi di frammentazione (17) (Afghanistan, Iraq, Asia Centrale, Africa), per definizione ingovernabili, ma che ci si illude di poterli ricondurre a una logica già nota e quindi dominabile. Questo non era accaduto nel periodo delle "operazioni chirurgiche" a costo zero (in termini di perdite umane). Tuttavia l'impantanamento in queste aree dimostra sempre più che possono paradossalmente anche vincere organizzazioni non-sovrane e non-statuali, prive di territorialità e di confini geografici, capaci di sfruttare i nuovi dispositivi tecnologici e che godono di un vantaggio strategico enorme per il loro carattere sfuggente, così come bande armate a bassa tecnologia (guerre asimmetriche), che conducono guerre nelle quali implode la logica tradizionale della potenza e che quindi rendono il fare e il vincere la guerra molto più costoso di quanto non rendano i suoi risultati. (18) Inoltre, anche ammettendo un ristabilimento dell'egemonia politica tradizionale, la contropartita per la potenza imperiale può diventare un'estrema vulnerabilità alla violenza capillare, mirata e diretta contro i suoi centri nevralgici e la sua popolazione civile.

Non è certo un caso se la tentata rivoluzione negli affari militari e nella strategia statunitensi si riveli sempre meno adeguata di fronte ai nuovi tipi di conflitto, ormai "irregolari", che corrispondono a forme di riorganizzazione dei rapporti di forza e di gestione della violenza in profondo mutamento, difficili da far rientrare, nonostante gli sforzi classificatori dei giuristi, entro tipologie rigide ma ormai obsolete e quindi irrealistiche. (19) La moltiplicazione delle minacce e la condizione di paura generalizzata di attacchi terroristici condotti secondo modalità tanto semplici quanto imprevedibili (fino al limite dell'estrema banalità dell'acquisto di un biglietto aereo sul suolo americano), stimolano il ricorso, in quanto forma di risarcimento psicologico illusorio, alla "guerra preventiva", che fa slittare la strategia dalla modalità difensiva a quella offensiva, sempre però condotta con vecchie modalità statocentriche scarsamente efficaci, perché limitate all'unica capacità che hanno gli Stati di fare la guerra: quella contro altri Stati.

La domestic analogy che pretende di fondare un Leviatano capace di imporre un ordine imperiale mondiale in forma coercitiva e centralizzata (ideale anche delle organizzazioni internazionali) non fa altro che trasporre a livello "sovranazionale" l'ossessione per la "stabilità", la "sicurezza", la concentrazione del potere secondo una logica sempre più obsoleta, primariamente perché difficile da imporre sia a livello nazionale che a livello mondiale e poi perchè comporta costi crescenti per le popolazioni civili, perseguendo fini che suscitano sempre più reazioni e utilizzando mezzi che per il loro carattere antistorico si rivelano del tutto inefficaci e distruttivi. I ricavi iniziali ottenibili da una guerra imperiale o di ristabilimento della "sicurezza internazionale" vengono così a trasformarsi nel lungo periodo in costi crescenti per il mantenimento dello status quo. La logica del Leviatano opera infatti, nonostante le apparenze, ormai a vuoto, nel formarsi di un contesto che assume molti dei caratteri tipici del sistema globale pre-moderno ("unitario", ma anche sempre più frammentato) e che per questo, nonostante gli sforzi "globalisti giuridici" (20) delle organizzazioni internazionali e delle loro emanazioni giudiziarie, sfugge a qualsiasi irreggimentazione.

Trasformazioni internazionali e nuova coscienza giuridica

I fondatori del diritto internazionale moderno videro nel diritto naturale lo strumento per garantire la possibilità di sottomettere la vita politica ad alcune regole coscienti, scontate e sulle quali sarebbe stato semplice ottenere il consenso, in quanto basate sia su principi di fede che sulla ragione. Alcuni elementi erano già presenti nelle dottrine dei sofisti, di Aristotele, degli Stoici, in Agostino e nei teologi medievali, soprattutto in Tommaso e poi vennero sviluppati nei trattati dei Canonisti, di De Vitoria e Suarez, nei lavori dei primi giuristi protestanti e infine dall'iniziatore del moderno diritto internazionale, Grozio e dai successivi filosofi illuministi. L'idea emergente era non solo quella di trovare la fonte dello jus gentium, ma anche di poter rendere (questo ovviamente dopo la fase medievale) il potere statale responsabile delle sue azioni nel campo internazionale. Come ha dimostrato però Alessandro Passerin d'Entrèves, l'evoluzione di questa coscienza giusnaturalistica non è stata affatto lineare e già in Grozio traspariva lo sforzo dottrinale dello Stato moderno di costruire la propria sovranità assoluta, erodendo la stessa base giusnaturalistica dalla quale Grozio pur partiva. (21) Il diritto internazionale diventa speculare a quello interno degli Stati, basato sulla preminenza del principio di sovranità su tutte le altre considerazioni basate sul diritto naturale e infatti in Grozio la legge emanata dall'autorità politica diventa dominante (e lo diventerà ancor più nella fase illuminista). Il diritto naturale finisce per esaurire la sua funzione, perché non conserva più alcun valore, non influisce sulla legislazione dello Stato, una volta creato, costituisce una scomoda forma di incertezza permanendo accanto alla legge dello Stato, creando problemi di "coordinamento". (22) Il diritto internazionale diventa funzionale al buon funzionamento degli Stati, qualsiasi ordinamento politico essi si diano e cerca in tal modo di evolversi al di là e senza quello che Pufendorf definirà uno jus imperfectum.

Di fronte però al profondo mutare delle condizioni del sistema internazionale moderno e all'apparire delle relazioni di pura forza e di dominio che scavalcano il diritto interstatale, incapace di imbrigliare la politica e di fronte quindi al ruolo sempre più chiaro che gli Stati pretendono di svolgere, sembra giunto il limite di giustificazione raggiungibile per il potere degli Stati e per i servizi, materiali o spirituali che riesce a rendere all'umanità. Riaffiorano non a caso istanze giusnaturalistiche che le organizzazioni "sovranazionali cercano di captare", di fare proprie per legittimarsi e che tuttavia contrastano con la loro natura statuale (in quanto consesso di Stati sovrani) che le innerva. Mentre lo Stato moderno, come ha scritto sempre Passerin d'Entrèves, era partito per autogiustificarsi dall'uomo e dai suoi bisogni per giungere alla vita associata e politica ed è retrocesso verso la soluzione del partire dalla comunità e dal gruppo (23) per giungere all'individuo e alla sua umanità (non c'è una terza soluzione oltre a queste due), quello che oggi appare nella vita internazionale è il riaffiorare di una coscienza orientata alla pretesa di corrispondenza alla prima soluzione. (24) L'individuo tende a tornare al centro del quadro politico: non è più disposto a riconoscere ciecamente ogni comando che gli provenga dall'ente politico; tende ad ergersi con la sua innata dignità umana di fronte e contro quest'ultimo; acconsente all'obbedienza in certi casi, la rifiuta in certi altri. (25) Non assolve più da ogni colpa derivante dall'uccidere e distruggere nell'atto bellico (a lungo ritenuti neutrali in senso etico e non un illecito in senso giuridico, dato che il diritto si risolveva nella forza), ma pretende una ragione; non comprende più la distinzione morale fra quelle attività se vengono condotte sul piano dei rapporti interstatali (anche se messe in pratica dallo Stato più potente) o se condotte su un piano interpersonale. La pretesa di un tiranno di poter fare impunemente tutto quello che vuole entro i confini, protetti dal diritto internazionale, del suo dominio assoluto, non viene più tollerata. Viene pretesa dalla nuova coscienza giuridica una precisazione maggiore del contenuto della "sovranità statale", che non può più consentire democidi, genocidi, pulizie etniche, violazioni di massa dei diritti della persona e negazioni sistematiche dell'autogoverno. (26) Il diritto vigente solo nella misura in cui si disponga della forza effettiva, ridotto quindi a un epifenomeno della forza, viene sottoposto a critiche crescenti e la guerra torna ad essere sottoposta a criteri per essere giudicata e non più nel solo senso dello jus belli internazionale moderno, in una evidente erosione del confine fra inside e outside.

Gli Stati rivelano ormai un'incapacità cronica ad adattarsi alle nuove condizioni; insieme al loro apparato giuridico e alle organizzazioni internazionali alle quali danno vita (e con le quali sistematicamente violano il diritto internazionale), sono incapaci di garantire la pace, il "giusto ordine internazionale", i diritti naturali dei singoli. Diventano obsoleti nella protezione dalle sfide emergenti lanciate da aggregazioni politiche mobili e sfuggenti, basate su fanatici, sovrapposti e intrecciati legami di fedeltà e per questo sono destinati ad apparire sempre più inutili, anche in rapporto al loro costo spropositato. (27)

Si assiste però oggi, accanto all'uso brutale della forza, già da lungo tempo non più mascherata dal diritto, a un patetico tentativo di recuperare una loro legittimazione in base a principi di diritto naturale (ne è espressione la rivitalizzazione del tema medievale del justum bellum) (28), soffocata nel corso della loro storia (per manifesta incompatibilità) (29) che sia aderente con la nuova coscienza giuridica emergente, che cercano di sfruttare a loro vantaggio (30), abbandonando il formalismo positivistico dei vecchi giuristi europei e la comoda idea degli Stati quali giudici unici della loro propria causa (che possono far trionfare tanto il diritto che l'ingiustizia, a causa della dissoluzione del diritto nella forza), per un ordinamento che abbia basi nuove, magari da imporre con tribunali che siano espressione di un "governo universale". Le istituzioni internazionali si autoincaricano di incarnare e di interpretare il nuovo e informe giusnaturalismo emergente, ancora privo di solidi istituti (31), fagocitandolo, ma innescando in tal modo una contraddizione insolubile con la propria natura e base statuale (32), che è l'opposto di quella che il diritto naturale ha rivendicato per secoli. Questo processo, che finisce per rafforzare la nuova coscienza giuridica post-statuale, appare soprattutto negli interventi "umanitari", imperiali e per nulla "sovra-statuali", nei quali nessuno vuole apparire (pur essendolo nei fatti) come aggressore. Uno sforzo di assorbimento, questo, con ogni probabilità destinato a produrre ancora gravi disastri, guerre assolute contro nemici non riconosciuti come uomini, ma che proprio la coscienza giuridica emergente potrà portare al definitivo fallimento.


Note

*. Da Elites, dicembre 2003.

**. Alessandro Vitale è ricercatore presso il Dipartimento di Studi Internazionali dell'Università di Milano. Ha svolto a lungo attività di ricerca presso l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e di insegnamento all'Università Cattolica di Milano e in alcune Università dell'Europa Orientale. È membro del settore Research and Analysis del Non Governmental Peace Strategies Project (Ginevra - New York - Torino) e free lance correspondent della redazione russa di Radio Free Europe/Radio Liberty (Praga). Ha collaborato a decine di volumi collettanei ed è autore di più di cento articoli e studi, alcuni dei quali pubblicati all'estero. Fra i suoi scritti: Nazionalità, nazionalismo e sviluppo politico in Russia e nelle Repubbliche Baltiche. ISPI, Milano 1993; I Concetti del Federalismo (con William H. Stewart e Luigi M. Bassani), Giuffrè, Milano 1995; L'unificazione impossibile. Una lettura diversa del collasso jugoslavo. Guida, Napoli 2000. È in corso di stampa in Svizzera: La "Prima Israele". Birobidzhan e la Regione Autonoma Ebraica in Russia: anatomia di una convivenza.

1. Dagli inizi dell'ONU ad oggi la Corte Internazionale di Giustizia si è guardata bene dal pretendere l'applicazione del diritto internazionale in molti casi particolari: ad esempio nel caso della diffusione dei coloni israeliani in Cisgiordania, vietato dalla IV Convenzione di Ginevra (l'art. 49 vieta a una potenza occupante di operare deportazioni di popolazione locale o di creare insediamenti della propria popolazione civile nei territori che essa occupa); questo è proseguito fino agli anni recenti, con il bombardamento della popolazione civile in ambiti come quello balcanico o mediorientale. In assenza della volontà delle grandi potenze il diritto internazionale non risponde al fine per il quale è destinato.

2. Cfr. Miglio G. Guerra, pace, diritto. Una ipotesi generale sulle regolarità del ciclo politico. In: Miglio G. Le Regolarità della politica. Giuffrè, Milano 1988, II, 761-790.

3. È il caso della risoluzione ONU 688, del 5 aprile 1991 che denunciava la repressione e i massacri dei curdi e degli sciiti da parte del regime di Saddam Hussein, che provocava circa 600 morti al giorno. La risoluzione stabiliva la liceità dell'ingerenza e permetteva il supporto dei caschi blu alle forze preposte a intervenire.

4. Questo è come noto derivato dal fatto che i grandi conflitti hanno avuto un carattere costitutivo per l'assetto internazionale successivo, finalizzato alla disciplina dei rapporti e al "mantenimento della pace": gli Stati Uniti e l'Inghilterra, mediando con l'Unione Sovietica, hanno fondato le Nazioni Unite, lo statuto della quale, predisposto a Dumbarton Oaks, è stato proposto all'accettazione degli altri membri potenziali, condizionandone l'adozione all'avvio stesso dell'Organizzazione.

5. Con le guerre balcaniche il diritto di violare la sovranità degli Stati è stato assunto da un'organizzazione come la NATO, organismo figlio legittimo della guerra fredda e totalmente differente rispetto all'ONU, in quanto organismo ancor più di parte ed espressione lampante degli interessi egemonici delle potenze occidentali. Con la collaborazione del Consiglio di Sicurezza questa alleanza viene autorizzata ad operazioni ed interventi di uso della violenza che, violando il diritto internazionale, permettono la sua legittimazione come braccio armato dell'ONU, dal quale poi finirà per sganciarsi, non pretendendo neppure più un riconoscimento formale del diritto di intervenire da parte del Consiglio di Sicurezza, nel caso del Kosovo. Su questi aspetti cruciali, Zolo D. Chi dice umanità. Guerre, diritto e ordine globale. Einaudi, Torino 2000.

6. La formazione del sistema internazionale moderno come noto si è basata sulla netta separazione fra dimensione "interna" e dimensione "internazionale": da una parte tutto l'ordine entro lo Stato (law and order) e dall'altra tutto il disordine, proiettato verso l'esterno, nel quale vige la legge del più forte e il diritto di conquista, per quanto regolato da norme di diritto internazionale riconosciute da attori uguali per natura e struttura politica. Su questi aspetti, cfr. Spruyt H. The Sovereign State and Its Competitors. An Analysis of Systems Change. Princeton University Press, N.J. 1994.

7. Servendosi sempre più, non a caso, anche di una giustizia politica di tipo "interno" (Tribunali penali internazionali") che giudicano ex titolari di sovranità statuale equiparati a criminali detronizzati dal rango di justus hostis.

8. Sono ormai noti i documenti del Dipartimento di Stato e del Pentagono, elaborati nei primi anni Novanta, contenenti la dottrina strategica del New World Order e della World Security, seguita con notevole coerenza dalle successive presidenze. In essi veniva apertamente teorizzata la capacità statunitense esclusiva di garantire l'ordine mondiale, da modellare secondo i valori occidentali, in particolare la democrazia, guidando i processi di espansione dell'economia globale.

9. Anche perché la guerriglia "irregolare" fino ad oggi ha teso a svilupparsi alla periferia degli imperi e con la globalizzazione si è trasformata in fenomeno "interno" in misura del crescere del tentativo egemonico imperiale e della contestuale erosione dei criteri distintivi del sistema internazionale moderno.

10. A questo proposito, cfr. Lamberti Zanardi P. La legittima difesa nel diritto internazionale. Giuffrè, Milano 1972.

11. Cfr. Zolo D. Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale. Feltrinelli, Milano 1995 e dello stesso autore, I signori della pace. Carocci, Roma 1998.

12. Cfr. Bennis Ph. L'Empire contre l'ONU. In: "Le Monde Diplomatique" 12 (1999).

13. Cfr. Aron R. Pace e guerra tra le nazioni. Comunità, Milano 1970, 187 segg.

14. Cfr. Colombo A. Frammentazione e convivenza internazionale. In: "Relazioni Internazionali" LIX (febbraio1995), 12.

15. Tilly C. (Cur.) La formazione degli Stati nazionali nell'Europa Occidentale. Il Mulino, Bologna 1984. Si veda a questo proposito anche la straordinaria opera di Otto Hintze Staatsverfassung und Heeresverfassung, Berlin 1906.

16. Cfr. Bull H., Watson A. (Cur.) L'espansione della società internazionale. L'Europa e il mondo dalla fine del Medioevo ai tempi nostri. Jaca Book, Milano 1994.

17. Cfr. Colombo A. Frammentazione e convivenza internazionale, cit.

18. In altre parole, in questi contesti la logica puramente politica della guerra tende a prevalere sulla sua concezione puramente militare (che diventa irrazionale) e su quella giuridica (che inesorabilmente salta). Crollano i limiti fra guerra e politica, fra militare e civile, fra guerra e pace. Su queste problematiche si veda l'ancora significativo AA.VV. La guerra nel pensiero politico. Franco Angeli, Milano 1987.

19. Danilo Zolo riporta in Cosmopolis (cit, pag. 117) una frase quanto mai significativa di Antonio Cassese: «Il giurista che si occupa di diritto internazionale si sente spesso come quegli intellettuali di cui Bertolt Brecht disse che dipingono nature morte sulle pareti di una nave che affonda».

20. Su questo aspetto è fondamentale il saggio di Danilo Zolo I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico. Op. cit.

21. Scriveva infatti Alessandro Passerin d'Entrèves: «Il processo di dissoluzione del diritto naturale inizia con Grozio, il quale è con piena ragione considerato tra i fondatori dello Stato moderno». Passerin d'Entrèves A. Lo Stato. Profilo storico - dottrinale.

22. Ibidem.

23. Non andrebbe mai dimenticato che questa inversione di rotta ha condotto, al suo apice, al principio nazista Gemeinnutz geht vor Eigennutz (il principio comunitario precede quello individuale), tipico dello statalismo e del collettivismo più conseguenti. Chiare premesse si ritrovano nella "coercizione comunitaria" sull'individuo sviluppatasi nello Stato militare prussiano. Cfr. Hintze O. Staatsverfassung und Heeresverfassung, op. cit., 43.

24. Ibidem. Appare evidente quanto questo ritorno sia collegato al riemergere della logica del contratto a discapito di quella del patto e dell'obbligazione politica (una teoria sviluppata fino alle sue estreme conseguenze non a caso da uno dei massimi allievi di Alessandro Passerin d'Entrèves, Gianfranco Miglio), al ritorno dell'interazione volontaria e spontanea, del rispetto del principio federale, del policentrismo, del rifiuto della logica sovranista del controllo e della pianificazione-regolamentazione legislativa, dell'unificazione forzata e della logica del monopolio della violenza. Una logica opposta anche a quella del globalismo giuridico.

25. Ibidem.

26. Nella nuova coscienza giuridica vengono sempre più sentiti come obsoleti ad esempio i rigidi criteri stabiliti nel diritto internazionale per l'accesso al diritto all'autodeterminazione. Anche illustri giuristi, ad esempio, quali il Professore finlandese di Diritto Internazionale e Comparato, Sojli Nisten-Chaarala nell'ossrvare il problema della Cecenia ha riconosciuto l'esistenza di un "diritto morale" indiscutibile dei ceceni all'indipendenza. Cfr. Rossijsko-cecenkij konflikt. Mezhdunarodnoe pravo i politika. In: AA.VV. Chechnja i Rosija: obshestva i gosudarstva. Politinform, Mosca 1999, 360. Interessante a questo proposito, ma in prospettiva politologica e in relazione alla teoria federale, anche l'originale testo (all'esatto opposto della concezione attuale del governo russo) di Del'maev Ch. V. Liberalism i nacional'nyj vopros. (Il Liberalismo e la questione nazionale). Izdatel'stvo GUP, Mosca 2002.

27. L'11 settembre ha alimentato non solo la ripresa di un cieco nazionalismo statunitense, ma anche un esame critico della strategia di una potenza che distrugge risorse per alimentare con le imposte la presenza di basi navali in Arabia Saudita, l'interferenza nel mondo arabo, che sviluppano un odio crescente nei confronti della società americana nel suo complesso. Un riesame che ha messo nel conto i fallimenti statunitensi in Medio Oriente, nella riorganizzazione della società somala, negli errori commessi nei Balcani e oggi sta sottoponendo a dura critica la pratica adottata in Afghanistan e in Iraq: nel complesso dunque tutta la fallimentare politica estera, già criticata da secoli dagli isolazionisti e anti-imperialisti americani, che vantano un'illustre e inascoltata tradizione da parte delle presidenze imperiali, ma che hanno anche un seguito non indifferente, se prima delle elezioni si cerca sempre di ridurre l'impegno internazionale per paura di perdere voti (disimpegno dai Balcani, ecc.).

28. Ci si accorge infatti che la violazione dei principi giusnaturalisti universali (esigenze di giustizia) contraddice anche gli interessi di quegli attori che a lungo hanno ritenuto di poterne fare a meno, perché ne abbatte il prestigio e conseguentemente le possibilità di raggiungere le finalità prefissate, bloccandone le scelte. Su questo tema è molto interessante la sintesi svolta, in merito al rapporto fra diritto internazionale ed etica, da Zygankov P.A. Teorija Mezhdunarodnych Otnoshenij. (Teoria delle RelazioniInternazionali). Mosca 2003, 349-405.

29. La rinascita spettacolare negli ultimi due secoli delle problematiche legate al justum bellum (proprie del cristianesimo medievale) è oltremodo significativa di una tendenza e di un cambiamento profondo. Infatti il ricorso all'idea dell'injustus hostis è stato nel sistema internazionale moderno impraticabile, dato che in un conflitto fra Stati sovrani non vi poteva essere alcun giudice sulla terra per statuire sulla giustizia delle cause in contrasto, al punto che in pratica solo l'esito dl combattimento avrebbe potuto stabilire da quale parte stesse il diritto (la legittimazione segue la vittoria della forza, come nel paradigma hobbesiano). Le concezioni normative della guerra finivano così per avere un carattere aporetico e la definizione del "nemico ingiusto" una fisionomia pleonastica. Su questi temi, oltre ovviamente al classico Der Nomos der Erde di Carl Schmitt, si può vedere Kervegan J.-F. Diritto, etica e politica. Riflessione storica sull'idea di guerra giusta. In: "Filosofia Politica" VI, 2 (giugno 1992).

30. Espressione più lampante di questo processo è il tentare di catturare il tema dei diritti umani e di sfruttarlo a proprio vantaggio: un tema eminentemente giusnaturalista, affermatosi come libertà dal potere dello Stato, che si tenta di piegare a strumento di un potere imperiale ammantato di etica sovranazionale.

31. Si può dire infatti che per ora si affermi nella coscienza diffusa, soprattutto in Occidente, al di là della sua applicazione pratica, che sarebbe ancora collegata a indiscutibili problemi di anomia, plurinomia, conciliazione fra norme morali e comunità concrete, culturalmente diversificate (civilizations), in quanto presa in considerazione delle nozioni morali degli altri, che non appartengono alla nostra cultura.

32. In particolare la contraddizione sta nel contrasto fra l'esclusività delle sintesi politiche statali, il loro "egoismo", il loro diritto come potestà d'imperio, faccia speculare del diritto internazionale moderno e la non-esclusività, il neo-universalismo, al quale solo è possibile applicare norme universali di tipo giusnaturalistico, in particolare derivanti da quel concetto di giustizia che tende a riemergere da sotto il particolarismo statuale moderno che l'ha frantumato in giustizia per gli Stati, il loro "interesse nazionale", le classi politiche, la comunità internazionale o quelle regionali e che ha reso impossibile il riconoscimento della moralità oggettiva dei fini che si prefiggono.