2005

Il disarmo dell'Iraq e l'uso della forza nel diritto internazionale

Ugo Villani (*)

Il divieto dell'uso della forza e i poteri del Consiglio di sicurezza

L'attuale crisi irachena va collocata nel quadro giuridico internazionale, quale risulta, in particolare, dalla Carta delle Nazioni Unite, approvata all'indomani della seconda guerra mondiale, il 26 giugno 1945, a San Francisco ed entrata in vigore il successivo 24 ottobre.

Di fondamentale importanza è la norma contenuta nell'art. 2, par. 4 della Carta, la quale pone il divieto per gli Stati membri di ricorrere, nelle loro relazioni internazionali, alla minaccia o all'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Si tratta di un divieto estremamente ampio, comprendente non solo l'uso, ma anche la semplice minaccia della forza nelle relazioni internazionali. Va sottolineato che, sebbene tale divieto sia previsto in un accordo - qual è la Carta dell'ONU -, come tale idoneo a creare obblighi per i soli Stati membri dell'Organizzazione, esso ha finito per acquistare efficacia generale per l'intera comunità internazionale. Da un lato, infatti, la stessa ONU ha pressoché raggiunto una piena universalità, completata con il recente ingresso della Svizzera il 10 settembre 2002. Dall'altro, come è stato autorevolmente affermato dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 27 giugno 1986 (Nicaragua c. Stati Uniti d'America) (1), il divieto dell'uso della forza è ormai sancito da una norma di diritto internazionale consuetudinario, obbligatoria verso tutti gli Stati e i soggetti della comunità internazionale, anche a prescindere dalla loro appartenenza alle Nazioni Unite.

L'unica eccezione al divieto in parola espressamente prevista dalla Carta (art. 51) è il diritto di legittima difesa, in virtù del quale uno Stato che subisca un attacco armato può ricorrere anche alla forza per respingere tale attacco, finché non intervenga il Consiglio di sicurezza. Il diritto di legittima difesa spetta non solo allo Stato aggredito, ma anche a Stati terzi, i quali possono venire in soccorso del primo usando la forza armata contro l'aggressore (c.d. legittima difesa collettiva, sulla quale si fondano le alleanze militari, quale la NATO).

Mentre ai singoli Stati è precluso l'impiego della forza armata, il Consiglio di sicurezza - organo dell'ONU che, agendo in nome degli Stati membri, ha la responsabilità principale del mantenimento della pace (art. 24) - ha il potere di intervenire anche con la forza, se necessario, in caso di minaccia o violazione della pace o di un atto di aggressione. Una volta che abbia accertato l'esistenza di una di queste situazioni, lo stesso Consiglio di sicurezza può decidere misure economiche, commerciali, finanziarie, diplomatiche o di altro genere (non implicanti l'uso della forza) contro lo Stato responsabile della minaccia o della violazione, al fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale (art. 41). Qualora tali misure si siano dimostrate inadeguate, o siano ritenute tali dal Consiglio di sicurezza, lo stesso Consiglio può giungere sino a decidere un'azione militare contro lo Stato in questione (art. 42). Peraltro, poiché il Consiglio di sicurezza non è stato dotato dei necessari mezzi militari, nella prassi esso fa ricorso ad operazioni di peace-keeping, di carattere conservativo della pace (garantendo il rispetto di una tregua o di un accordo i pace, o la sicurezza e l'ordine all'interno di uno Stato, o la sua ricostruzione dopo una guerra civile), mediante l'invio dei c.d. caschi blu, autorizzati, di regola, all'uso delle armi solo per difendersi da eventuali attacchi. Per altro verso, nelle situazioni nelle quali occorra agire in maniera coercitiva contro uno Stato (per esempio, per fare cessare un'aggressione, o per liberare un Paese occupato militarmente da un altro, o per garantire la sicurezza di certe aree, o la protezione di popolazioni la cui sopravvivenza è minacciata), il Consiglio di sicurezza adotta proprie risoluzioni con le quali autorizza gruppi di Stati, o alleanze e organizzazioni regionali ad usare anche la forza per conseguire l'obiettivo di volta in volta previsto e ristabilire la pace internazionale.

La risoluzione n. 678 del 29 novembre 1990 contro l'Iraq

In questa seconda ipotesi rientra la risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 678 del 29 novembre 1990, la quale è alla base dell'intervento militare contro l'Iraq (Desert Storm), iniziato nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1991 da un'ampia coalizione di Stati, sotto la guida degli Stati Uniti, diretto a liberare il Kuwait dall'invasione irachena, che si sarebbe protratto con crescente violenza sino alla resa dell'Iraq. La risoluzione n. 678 era stata adottata dopo ben undici precedenti risoluzioni, le quali non erano riuscite a indurre l'Iraq a ritirarsi dal territorio del Kuwait, occupato a seguito della massiccia invasione del 2 agosto 1990 e "annesso" il successivo 8 agosto quale diciannovesima provincia dell'Iraq.

La suddetta risoluzione non prevedeva esplicitamente l'uso della forza, ma, ove l'Iraq, entro il 15 gennaio 1991, non avesse pienamente applicato le precedenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza (in primo luogo ritirandosi dal Kuwait), autorizzavano gli Stati membri che cooperavano con il Kuwait ad usare "tutti i mezzi necessari" per fare applicare tali risoluzioni e ristabilire la pace e la sicurezza internazionale nella regione. Con l'espressione "tutti i mezzi necessari", peraltro, era chiaro che il Consiglio di sicurezza intendeva riferirsi all'uso della forza armata, come rivelano in maniera univoca le discussioni svoltesi in seno allo stesso Consiglio di sicurezza in occasione dell'adozione della risoluzione.

La legittimità della risoluzione n. 678 fu da più parti contestata (2), poiché il meccanismo dell'autorizzazione determinava una sorta di delega della forza a un gruppo di Stati, al di fuori di una direzione e di un controllo delle operazioni militari da parte del Consiglio di sicurezza. Il sistema di sicurezza collettiva ideato dalla Carta dell'ONU si caratterizza, invece, per il fatto che le funzioni militari sono concentrate nel Consiglio di sicurezza, che quest'ultimo ne ha la responsabilità politica e garantisce l'obiettività dell'operazione militare e la sua congruenza rispetto al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

A noi pare, peraltro, che la suddetta risoluzione e, più in generale l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza all'impiego della forza armata da parte di singoli Stati, o di gruppi di Stati, non sia incompatibile con il sistema della Carta. Un uso "decentrato" della forza armata, su delega o autorizzazione del Consiglio di sicurezza, è previsto, invero, dalla stessa Carta con riguardo agli accordi o organizzazioni regionali (art. 53) (3). D'altra parte, ai sensi degli articoli 39 e 42 della Carta (4), ci sembra che il Consiglio di sicurezza possa raccomandare agli Stati misure implicanti l'uso della forza armata, ai fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. L'autorizzazione all'uso della forza appare sostanzialmente assimilabile ad una raccomandazione avente il medesimo contenuto. Nel caso della risoluzione n. 678 non sembra dubbio, inoltre, che esistessero i presupposti per intraprendere un'azione militare, tenuto conto che l'Iraq aveva palesemente aggredito il Kuwait, occupandolo militarmente e pretendendo di annetterne il territorio e che, per altro verso, la numerose misure già decise dal Consiglio di sicurezza contro l'Iraq, come un severo embargo, non erano state sufficienti per indurlo a desistere dal proprio atteggiamento.

Tuttavia, affinché un'autorizzazione all'uso della forza sia legittima, è necessario che il Consiglio di sicurezza mantenga costantemente il controllo dell'operazione (5), così adempiendo la propria responsabilità per il mantenimento della pace. In altri termini, a nostro parere, il Consiglio di sicurezza, privo di mezzi militari a sua disposizione, può "delegare" agli Stati lo svolgimento di un'operazione militare, ma non può spogliarsi della responsabilità di tale operazione (6) e, quindi, della sua funzione di controllo, in quanto, riguardo alle misure implicanti l'uso della forza, la responsabilità del mantenimento della pace che la Carta gli conferisce ha un carattere esclusivo.

La risoluzione n. 687 del 3 aprile 1991 sulle condizioni per la cessazione delle ostilità

L'operazione Desert Storm, com'è noto, determinò la liberazione del Kuwait. Il Consiglio di sicurezza, con la risoluzione n. 687 del 3 aprile 1991, ha decretato una serie di condizioni alla cui accettazione da parte dell'Iraq era subordinata la cessazione definitiva delle ostilità. Tale accettazione è stata notificata al Consiglio di sicurezza il 10 aprile successivo, pertanto - come il Presidente del Consiglio di sicurezza ha comunicato al rappresentante permanente dell'Iraq presso le Nazioni Unite - da quel momento è in vigore un formale cessate il fuoco e, deve aggiungersi, l'autorizzazione all'uso della forza contenuta nella precedente risoluzione n. 678 è venuta a perdere efficacia.

Fra le condizioni previste dalla suddetta risoluzione particolare rilevanza presentano - al fine di inquadrare l'attuale crisi nei suoi termini giuridici - quelle relative alle armi di distruzione di massa in possesso dell'Iraq. I paragrafi 7-14 della risoluzione dispongono la distruzione o la rimozione delle sue armi chimiche, biologiche e nucleari, come pure il divieto di procurarsi tali armi e materiali, componenti o qualunque elemento utile per la ricerca, la messa a punto e la fabbricazione delle armi stesse, nonché la distruzione, la rimozione e il divieto di possedere missili balistici con una portata superiore a 150 chilometri e i relativi componenti e installazioni. Al fine di verificare il rispetto di tali obblighi la risoluzione n. 687 attribuiva ad una Commissione speciale di esperti (UNSCOM), costituita dal Consiglio di sicurezza, e all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) compiti di controllo e operativi riguardo alle attività di distruzione e di rimozione delle armi in questione.

In qualche misura si ricollega alle disposizioni sulle armi di distruzione di massa il mantenimento in vigore delle sanzioni economiche e commerciali contro l'Iraq, decise dal Consiglio di sicurezza già con la risoluzione n. 661 del 6 agosto 1990, all'indomani dell'invasione del Kuwait. È evidente, infatti, che l'embargo contro l'Iraq era diretto, al momento in cui veniva decretato, a indurre il governo iracheno a ritirare le proprie truppe dal Kuwait, in conformità con la richiesta che lo stesso Consiglio aveva immediatamente formulato con estrema decisione con la risoluzione n. 660 del 2 agosto 1990. Una volta liberato il Kuwait, il mantenimento dell'embargo, solo attenuato per ragioni umanitarie e nel quadro del sistema "oil for food" (7) (ma recentemente inasprito con la risoluzione n. 1454 del 30 dicembre 2002), non può essere giustificato che in base ad altre motivazioni, quali anzitutto, l'effettiva eliminazione delle armi di distruzione di massa in possesso dell'Iraq. In questo senso depongano i dibattiti svoltisi ripetutamente nel Consiglio di sicurezza, così come, esplicitamente, alcune risoluzioni dello stesso Consiglio. Può ricordarsi, per esempio, la n. 1154 del 2 marzo 1998, con la quale il Consiglio conferma la sua intenzione di rivedere le sanzioni contro l'Iraq e sottolinea di non avere proceduto ad una loro revisione a causa degli inadempimenti del governo iracheno relativi ai propri obblighi di disarmo e di collaborazione con l'UNSCOM e con l'AIEA. Peraltro, dall'atteggiamento del governo statunitense e da un'esplicita dichiarazione dell'allora Segretario di Stato Albright (8), risulta in maniera sempre più chiara che l'obiettivo politico dell'embargo è essenzialmente provocare la caduta del regime di Saddam Hussein.

Le vicende relative al sistema di ispezioni e la risoluzione n. 1441 dell'8 novembre 2002

Le operazioni dell'UNSCOM e dell'AIEA non hanno mancato di produrre alcuni risultati soddisfacenti per il disarmo dell'Iraq (9). Tuttavia il governo di tale Stato ha mostrato scarsa collaborazione e, in certi momenti, aperta ostilità, in specie verso l'UNSCOM. Per esempio, nel corso del 1996 e del 1997 l'Iraq, in varie occasioni, ha vietato all'UNSCOM l'accesso a determinati luoghi, in particolare ai c.d. siti presidenziali, e ha impedito visite e ispezioni a membri statunitensi della Commissione. Ciò ha provocato l'adozione di risoluzioni di condanna da parte del Consiglio di sicurezza, il quale, con la risoluzione n. 1137 del 12 novembre 1997, ha stabilito nuove sanzioni, decidendo che gli Stati avrebbero dovuto impedire l'ingresso e il transito nel proprio territorio dei funzionari e militari iracheni responsabili dei suddetti inadempimenti. Va notato, peraltro, che sono emersi sospetti di spionaggio nelle attività dell'UNSCOM (sotto la presidenza di Richard Butler), a seguito delle dichiarazioni di un membro della Commissione, lo statunitense Scott Ritter (10).

Nel 1998 una fase di grave crisi è stata superata grazie alla conclusione di un memorandum d'intesa tra il Segretario generale dell'ONU Kofi Annan e il primo ministro iracheno Tariq Aziz (11), approvato dal Consiglio di sicurezza con la citata risoluzione n. 1154 del 2 marzo, il quale stabiliva, tra l'altro, modalità speciali di ispezione per otto siti presidenziali ed esprimeva l'impegno di rispettare le preoccupazioni dell'Iraq relative alla propria sicurezza nazionale, sovranità e dignità. Malgrado la minaccia, contenuta nella stessa risoluzione, delle "severest consequences for Iraq" in caso di suoi inadempimenti, l'Iraq, dopo pochi mesi, decideva di sospendere ogni collaborazione con l'UNSCOM, la quale cessava, dal dicembre dello stesso anno, qualsiasi attività nel territorio iracheno. La riapertura della crisi, che una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza (la n. 1205 del 5 novembre 1998) non riusciva a sbloccare, precipitava con l'operazione militare anglo-statunitense denominata Desert Fox (12).

La successiva risoluzione n. 1284 del 17 dicembre 1999 sostituiva l'UNSCOM con una nuova commissione, denominata Commissione delle Nazioni Unite di controllo, verifica e ispezione (UNMOVIC), presieduta da Hans Blix. Ma questa Commissione non riusciva ad entrare in territorio iracheno, sino a quando, nei colloqui svoltisi a Vienna tra lo stesso Blix, il Direttore generale dell'AIEA Mohamed El Baradei e il generale Amir Al-Saadi a nome del governo iracheno, si raggiungeva un'intesa, formalizzata in una lettera dell'8 ottobre 2002, per la ripresa delle ispezioni in Iraq. Però la partenza degli ispettori veniva sostanzialmente vietata dagli Stati Uniti, in vista dell'adozione di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza. Si tratta della risoluzione n. 1441 dell'8 novembre 2002, adottata all'unanimità, sulla base della quale sono cominciati i lavori dell'UNMOVIC e ripresi quelli dell'AIEA in territorio iracheno.

Tale risoluzione richiama espressamente le precedenti risoluzioni n. 678 (che aveva autorizzato gli Stati della coalizione a difesa del Kuwait ad usare tutti i mezzi necessari per liberare tale Stato) e n. 687, anche per ricordare che essa fondava la cessazione delle ostilità sull'accettazione degli obblighi ivi previsti da parte dell'Iraq. Nel preambolo della risoluzione si deplora, tra l'altro, l'inadempimento degli obblighi in materia di terrorismo, cessazione della repressione della popolazione civile, rimpatrio di cittadini del Kuwait o di Stati terzi detenuti in Iraq e restituzione di beni del Kuwait. La valutazione più grave compiuta dal Consiglio di sicurezza riguarda, peraltro, l'inadempimento iracheno degli obblighi relativi alle armi di distruzione di massa: esso è qualificato come "sostanziale" ("material") e tale da porre una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Quest'ultima affermazione è idonea a fondare la risoluzione sul capitolo VII della Carta (applicabile in caso di una minaccia o violazione della pace o di un atto di aggressione), il quale abilita il Consiglio di sicurezza ad adottare, contro lo Stato responsabile, misure non militari o anche implicanti l'uso della forza armata.

Nella stessa risoluzione il Consiglio di sicurezza decide di accordare all'Iraq un'ultima opportunità per adempiere i suoi obblighi in materia di disarmo e, a tal fine, istituisce un sistema rafforzato di ispezioni, che assicuri all'UNMOVIC e all'AIEA libero e incondizionato accesso a qualsiasi luogo (compresi i siti presidenziali) e persona; dispone che l'Iraq consegni entro trenta giorni un rapporto completo e accurato sulle proprie armi di distruzione di massa; decide che ogni falsa dichiarazione, omissione e mancanza di collaborazione da parte dell'Iraq costituirà un'ulteriore violazione "sostanziale" dei suoi obblighi; che l'Iraq subirà gravi conseguenze se continuerà a violare i propri obblighi.

Le motivazioni a sostegno di un intervento unilaterale contro l'Iraq: l'inadempimento delle condizioni di pace

Già prima dell'adozione della risoluzione n. 1441 e, attualmente, durante lo svolgimento delle ispezioni dell'UNMOVIC e dell'AIEA, gli Stati Uniti, seguiti dal Regno Unito e, seppure in maniera più sfumata, da altri Paesi, hanno minacciato e preparato militarmente un intervento armato contro l'Iraq.

Le giustificazioni di un'azione militare sono molteplici e, invero, sono sostenute con accenti spesso mutevoli, sottolineando, di volta in volta, il possesso di armi di distruzione di massa, la connivenza del regime iracheno con il terrorismo internazionale, la necessità di difendere gli Stati Uniti - o l'intera comunità internazionale - dalla minaccia irachena, l'esigenza di sostenere l'autorità dell'ONU, le protezione dei diritti umani in Iraq, il carattere dittatoriale del suo regime ecc.

Prescindiamo, ovviamente, dagli argomenti più legati alla retorica propagandistica, quali la ... malvagità di Saddam Hussein o la sua inclinazione alla menzogna, come pure da quelli - certo più sostanziali - di carattere economico e politico. Il nostro esame ha per oggetto esclusivamente gli argomenti di natura giuridica sollevati a sostegno dell'opzione militare.

Un primo argomento si fonda sul mancato rispetto, da parte irachena, delle condizioni di pace imposte con la risoluzione n. 687 del 3 aprile 1991, impedendo l'ingresso degli ispettori nel suo territorio e, successivamente, non collaborando in maniera adeguata. L'inadempimento iracheno delle condizioni di pace avrebbe determinato una sorta di reviviscenza dell'autorizzazione all'uso della forza contenuto nella risoluzione n. 678 del 29 novembre 1990.

Tale argomento appare infondato. La risoluzione n. 687 - come si è ricordato - prevedeva una cessazione definitiva delle ostilità a seguito dell'accettazione irachena, per cui (intervenuta quest'accettazione) riprendeva piena efficacia il divieto generale dell'uso della forza nelle relazioni internazionali da parte dei singoli Stati, compresi quelli della coalizione formatasi a suo tempo a difesa del Kuwait. Gli inadempimenti iracheni, se considerati come una minaccia alla pace internazionale, possono bensì determinare una reazione, al limite persino armata, ma solo su decisione del Consiglio di sicurezza, unico organo competente ad accertare la minaccia (o la violazione) della pace e le conseguenti misure a tutela della pace stessa. Il Consiglio di sicurezza, invece, pur minacciando più volte l'Iraq di più severe misure (non necessariamente, peraltro, di carattere militare), ha implicitamente escluso ogni autorizzazione all'uso unilaterale della forza, riaffermando di restare esso stesso investito della questione del disarmo iracheno e, per altro verso, ribadendo costantemente l'impegno al rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Iraq in tutte le sue risoluzioni, comprese le citate risoluzioni n. 1154 del 2 marzo 1998, che approvava il memorandum d'intesa tra il Segretario generale delle Nazioni Unite e l'Iraq, e n. 1284 del 17 dicembre 1999, istitutiva dell'UNMOVIC.

Un'azione unilaterale anglo-americana (e di loro eventuali alleati) viene giustificata, più di recente, sulla base della risoluzione n. 1441 dell'8 novembre 2002. Considerato che essa dichiara che l'Iraq ha compiuto una violazione sostanziale dei propri obblighi in materia di disarmo derivanti dalla precedente risoluzione n. 687 del 1991 e che il Consiglio di sicurezza intende offrire all'Iraq un'ultima possibilità per adempiere tali obblighi, potrebbe ritenersi che, in caso di mancata, piena ottemperanza alla stessa risoluzione, i singoli Stati potrebbero agire contro l'Iraq per assicurarne il disarmo. In questo senso deporrebbe anche il riferimento, nel preambolo della risoluzione, all'autorizzazione all'uso di ogni mezzo necessario, contenuta nella risoluzione n. 678 del 1990, e alla cessazione delle ostilità subordinata alle condizioni previste nella risoluzione n. 687 del 1991, comprendenti, anzitutto, il disarmo biologico, chimico e nucleare. E invero, nella dichiarazione di voto del suo rappresentante all'ONU John Negroponte, il governo statunitense ha affermato che, se a seguito della constatazione di una violazione dell'Iraq da parte dell'UNMOVIC o dell'AIEA il Consiglio di sicurezza non giunga ad agire in maniera decisiva, niente, nella risoluzione, impedisce a uno Stato membro di agire per difendersi dalla minaccia posta dall'Iraq o per attuare le pertinenti risoluzioni e salvaguardare la pace nel mondo (13).

A nostro parere, malgrado il tono severo e ultimativo della risoluzione n. 1441, essa non può interpretarsi nel senso di autorizzare, in caso di violazioni constatate dagli ispettori dell'UNMOVIC o dell'AIEA, un'azione armata contro l'Iraq. Per quanto riguarda le precedenti risoluzioni n. 678 e n. 687, dal loro generico richiamo non può ricavarsi la possibilità di una ripresa di efficacia dell'autorizzazione all'uso della forza. Come abbiamo già osservato, una volta cessate definitivamente le ostilità ha ripreso pieno vigore il divieto dell'uso della forza da parte degli Stati; il richiamo, pertanto, può solo esprimere una sorta di avvertimento all'Iraq ad adempiere i propri obblighi, minacciano l'eventualità, in caso contrario, di una nuova autorizzazione, da decidere, peraltro, solo da parte dello stesso Consiglio di sicurezza. Invero la risoluzione non precisa quali siano le "gravi conseguenze" di un inadempimento dell'Iraq, ma riserva allo stesso Consiglio di restare investito del problema del disarmo iracheno. Ciò implica, in primo luogo, che spetta esclusivamente al Consiglio di sicurezza accertare l'eventuale inadempimento da parte irachena, nonché la sufficienza delle ispezioni e delle verifiche dell'UNMOVIC e dell'AIEA. Inoltre resta di esclusiva competenza del Consiglio di sicurezza la definizione delle misure da adottare in caso di violazione irachena, misure che potrebbero non comportare la forza armata, ma, per esempio, sanzioni diplomatiche o finanziarie contro il regime di Saddam Hussein, non contro il suo popolo, già stremato da un embargo che dura da oltre dieci anni.

Chiare, nel senso che la risoluzione in esame escluda ogni possibile automatismo nell'uso della forza, sono le interpretazioni date nelle loro dichiarazioni di voto dai rappresentanti della Francia, della Russia e della Cina (14). Tali Stati hanno sottolineato che la risoluzione n. 1441 adotta un approccio in due tempi, il quale comporta che, qualora l'UNMOVIC o l'AIEA riferiscano al Consiglio di sicurezza inadempimenti dell'Iraq, sia lo stesso Consiglio a valutare la loro gravità e a decidere le conseguenze.

L'impossibilità di dedurre un'autorizzazione all'uso della forza armata dalla risoluzione in parola è confermata dal ripetuto impegno di tutti gli Stati al rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Iraq, impegno con il quale è palesemente incompatibile ogni progetto di guerra, diretta - come affermato dagli Stati Uniti - ad abbattere l'attuale governo dell'Iraq e ad occuparne militarmente il territorio. Anche questo profilo è stato sottolineato nel Consiglio di sicurezza dal delegato siriano (15), il quale ha dichiarato che il suo voto positivo tendeva a mantenere l'unità del Consiglio, ma ha aggiunto di avere ricevuto assicurazioni, a seguito di consultazioni ad alto livello, che la risoluzione non valeva ad autorizzare il ricorso alla forza e che essa preservava l'integrità territoriale dell'Iraq. Si noti che l'impegno al rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Iraq è costantemente ribadito anche nelle successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza che riguardano tale Stato, come la n. 1443 del 25 novembre 2002, la n. 1447 del 4 dicembre 2002 e la n. 1454 del 30 dicembre 2002.

Segue: la legittima difesa preventiva

Un'altra ragione spesso evocata per giustificare un attacco all'Iraq risiede nella minaccia che il possesso di armi di distruzione di massa, trasferibili, per di più, a gruppi terroristici, rappresenta per gli Stati Uniti e per l'intera comunità internazionale.

Tale giustificazione appare espressione della c.d. dottrina Bush sulla difesa preventiva, enunciata il 1° giugno 2002 all'Accademia militare di West Point e inquadrata nella "National Security Strategy of the United States of America" del 17 settembre 2002. Secondo questa dottrina gli Stati Uniti sono legittimati ad usare la forza in legittima difesa preventiva ("preemptive action") per contrastare una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Una "anticipatory action" sarebbe consentita "even if uncertainty remains as to the time and place of the enemy's attack". Essa sarebbe diretta particolarmente contro gli "Stati canaglia" ("rogue States"), i quali hanno (o hanno l'intenzione di acquistare) armi di distruzione di massa, sponsorizzano il terrorismo internazionale, sono retti da regimi dittatoriali, respingono i fondamentali valori umani e odiano gli Stati Uniti; il primo, ovviamente, sarebbe l'Iraq.

A parte ogni considerazione circa l'assenza di sicure prove su un presunto coinvolgimento dell'Iraq in attività terroristiche e sul possesso di armi di distruzione di massa, è la stessa dottrina della legittima difesa preventiva che appare in pieno contrasto con il diritto internazionale e, in particolare, con la Carta delle Nazioni Unite (16). Quest'ultima, come si è accennato, consente l'uso della forza in legittima difesa, ma solo in presenza di un attacco armato (e finché il Consiglio di sicurezza non sia in grado di intervenire per mantenere la pace e la sicurezza internazionale). La condizione dell'attacco armato comporta che l'uso della forza sia lecito solo qualora l'attacco sia effettivamente in atto e al solo scopo di respingerlo. Nel caso di semplice minaccia di attacco lo Stato interessato è tenuto a rivolgersi al Consiglio di sicurezza, al quale spetta, ai sensi dell'art. 39 della Carta, accertare la reale esistenza di una minaccia alla pace e adottare le eventuali misure per rimuovere tale minaccia.

Nella giurisprudenza internazionale e nella prassi delle Nazioni Unite manca qualsiasi riconoscimento di un preteso diritto di legittima difesa preventiva. In passato, al contrario, il Consiglio di sicurezza, con la risoluzione n. 487 del 19 giugno 1981 (adottata con il voto favorevole degli Stati Uniti), condannò severamente il bombardamento effettuato da Israele contro un impianto nucleare in costruzione a Osirik, in Iraq, al fine di eliminare una minaccia contro il proprio territorio.

Si deve aggiungere che la dottrina Bush rappresenta un notevole ampliamento rispetto ad una teoria, già in passato sostenuta, secondo la quale il ricorso preventivo alla forza sarebbe consentito, eccezionalmente, per difendersi da un pericolo, reale e imminente di attacco armato, suscettibile di pregiudicare l'esistenza stessa di uno Stato. Il caso classico sarebbe rappresentato dalla guerra dei sei giorni del 1967, iniziata da Israele di fronte ad una evidente mobilitazione dei Paesi arabi e a dichiarazioni di loro governi che potevano fare temere per la sopravvivenza dello Stato di Israele, in caso di attacco contro il suo territorio (17). Quale che sia la valutazione giuridica di questa forma di legittima difesa, chiamata talvolta "cautelativa" o "anticipatory" (18), è evidente la sua differenza rispetto alla difesa preventiva della dottrina Bush: mentre, nel primo caso, sussiste una minaccia, precisa e localizzata, di un attacco armato comportante il rischio di distruzione di uno Stato, tale da essere verificabile in termini oggettivi, nella dottrina Bush il pericolo può essere vago e indeterminato, risultare dalle semplici intenzioni di uno Stato e, principalmente, esso è demandato alla valutazione del tutto soggettiva dello Stato che si sente minacciato.

Va rilevato ancora che, alla stregua del diritto internazionale generale, l'uso della forza in legittima difesa deve rispettare i limiti della necessità e della proporzionalità (19). Di fronte al timore di un possibile attacco è molto dubbio che non esistano alternative alla forza armata, la quale, quindi, può non apparire necessaria. Inoltre il limite della proporzionalità, da intendere nel senso che la forza impiegata deve essere commisurata all'attacco armato che si intende respingere (o, nel caso della c.d. difesa preventiva, prevenire), verrebbe certamente superato qualora, per eliminare il pericolo, si facesse ricorso a una vera guerra. Ma è questo il dichiarato progetto degli Stati Uniti, il quale prevede un attacco massiccio, senza escludere l'uso di armi nucleari, il rovesciamento del governo di Saddam Hussein, l'imposizione di un'amministrazione militare statunitense e, naturalmente, l'occupazione dei pozzi e degli impianti petroliferi (20).

L'illiceità di una difesa armata preventiva, sia contro l'Iraq, sia in termini generali, è confermata dalla considerazione che essa finirebbe per giustificare ogni intervento militare, in specie contro i vari Stati in possesso di armi nucleari, scatenando una situazione di guerra permanente e vanificando i progressi realizzati dalla comunità internazionale con la nascita delle Nazioni Unite, mediante la messa al bando della forza armata nelle relazioni internazionali e il suo "monopolio" nelle mani del Consiglio di sicurezza.

I bombardamenti che, da oltre un decennio, le forze anglo-statunitensi sferrano sul territorio iracheno nelle c.d. no-fly zones, istituite illegalmente dai due Stati in questione e non certo dal Consiglio di sicurezza, sono la prova delle aberranti conseguenze alle quali può condurre l'applicazione della difesa preventiva. Tali bombardamenti vengono giustificati come azioni di legittima difesa contro postazioni radar che metterebbero la missilistica irachena in grado di colpire gli aerei anglo-statunitensi nelle no-fly zones (21). In tale maniera postazioni difensive situate in territorio iracheno vengono qualificate come minaccia agli aerei che violano lo spazio aereo dell'Iraq e la sua sovranità territoriale. La dottrina della difesa preventiva rivela così la sua essenza, consistente nel trasformare l'aggredito in aggressore e viceversa.

Qualificazione di un eventuale intervento contro l'Iraq come aggressione

Alla luce delle considerazioni che precedono, un intervento armato contro l'Iraq costituirebbe oggi una grave violazione del diritto internazionale e della Carta dell'ONU. Esso, privo di qualsiasi giustificazione giuridica e di autorizzazione del Consiglio di sicurezza, si porrebbe in aperto contrasto con il divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali, sancito dall'art. 2, par. 4 della Carta e dalla corrispondente norma di diritto internazionale consuetudinario.

Se poi tale intervento - come preannunciato - fosse condotto con un uso massiccio della forza al fine di "debellare" l'Iraq e occuparlo militarmente, esso sarebbe una vera guerra di aggressione, quale prevista dalla celebre Definizione di aggressione approvata dall'Assemblea generale dell'ONU, mediante consensus, con la risoluzione n. 3314 del 12 dicembre 1974. Detta Definizione qualifica l'aggressione come la più grave e pericolosa forma di uso illegale della forza e la definisce come l'uso della forza da parte di uno Stato contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato, o in ogni altra maniera contraria alla Carta delle Nazioni Unite. L'attacco all'Iraq integrerebbe, in particolare, alcune ipotesi tipiche di aggressione, contemplate dalla stessa Definizione, quali l'invasione o l'attacco, da parte delle forze di uno Stato, del territorio di un altro Stato, o ogni occupazione militare, anche temporanea, risultante da tale invasione o attacco, e il bombardamento o l'uso delle armi da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato.

Sin d'ora, d'altra parte, nella condotta degli Stati Uniti e degli Stati che cooperano con essi è ravvisabile un illecito internazionale, consistente nella evidente minaccia dell'uso della forza nelle relazioni internazionali, anch'essa vietata dall'art. 2, par. 4 della Carta (22).

Il problema dell'ammissibilità di un'autorizzazione all'uso della forza da parte del Consiglio di sicurezza

Le predette valutazioni, peraltro, presuppongono che - come abbiamo cercato di dimostrare - il Consiglio di sicurezza non abbia sinora autorizzato l'uso della forza contro l'Iraq, neppure qualora le ispezioni dell'UNMOVIC e dell'AIEA rivelino mancanza di collaborazione da parte dell'Iraq o altre violazioni sostanziali dei suoi obblighi ai sensi della risoluzione n. 1441 del 2002. Di fronte alla eventualità che, in tempi brevi, il Consiglio di sicurezza sia chiamato a votare su un nuovo progetto di risoluzione, proposto dagli Stati Uniti e dal Regno Unito (nonché dalla Spagna), non può escludersi che lo stesso Consiglio autorizzi l'uso della forza contro l'Iraq (eventualmente con la formula "ogni mezzo necessario"), sebbene un'ipotesi siffatta non appaia probabile, data l'attuale indisponibilità di alcuni membri permanenti del Consiglio, forniti del c.d. diritto di veto, quali la Russia, la Francia e la Cina.

Non ci si può sottrarre, dunque, al problema se un'autorizzazione del Consiglio di sicurezza renderebbe lecito un intervento che, in sua assenza, costituirebbe, invece, una guerra di aggressione. In altri termini, ci si deve chiedere se, nelle odierne condizioni, il Consiglio di sicurezza abbia il potere di autorizzare gli Stati Uniti e i suoi alleati a usare la forza per assicurare il disarmo dell'Iraq.

A prima vista al quesito dovrebbe darsi risposta affermativa, specie se si ritiene che il meccanismo dall'autorizzazione all'uso della forza sia compatibile con il sistema di sicurezza delle Nazioni Unite incentrato sul Consiglio di sicurezza. Non c'è dubbio, infatti, che quest'ultimo sia l'organo competente ad accertare la minaccia alla pace, in ipotesi dovuta al possesso di armi nucleari da parte dell'Iraq (mentre la semplice insufficiente collaborazione difficilmente potrebbe giustificare una valutazione di minaccia della pace), e a stabilire le misure da esso ritenute più adeguate al mantenimento della pace, ivi comprese quelle implicanti la forza armata.

Una riflessione più approfondita, peraltro, induce a ritenere che, nella situazione attuale, neppure il Consiglio di sicurezza potrebbe autorizzare l'uso della forza (23), almeno da parte degli stati Uniti e di suoi alleati. È bensì vero, infatti, che il Consiglio di sicurezza, in quanto organo politico, gode di un'ampia discrezionalità sia nell'accertamento di una minaccia alla pace che nell'individuazione delle misure da adottare. Esso, peraltro, non è, per così dire, legibus solutus, ma è tenuto al rispetto delle disposizioni della Carta, in specie di quelle dalle quali derivano i suoi poteri e che ne disciplinano l'esercizio. In caso di violazione di tali disposizioni le risoluzioni del Consiglio di sicurezza devono considerarsi illegittime (24). La subordinazione dei poteri discrezionali del Consiglio di sicurezza a limiti di ordine giuridico è stata affermata dalla Corte internazionale di giustizia sin da un noto parere del 28 maggio 1948. La Corte, infatti, ha dichiarato che il carattere politico di un organo (nella specie si trattava proprio del Consiglio di sicurezza) non può sottrarlo all'osservanza delle disposizioni convenzionali previste dalla Carta quando esse costituiscono delle limitazioni ai suoi poteri o dei criteri per il suo giudizio. Per accertare se un organo ha la libertà di scelta per le sue decisioni, bisogna fare riferimento ai termini della sua costituzione. Pertanto, secondo la Corte, non vi è alcuna contraddizione tra le funzioni degli organi politici, da una parte, e il rispetto delle condizioni prescritte quali limiti alle sue funzioni, dall'altra (25).

Con riferimento alle funzioni del Consiglio di sicurezza nella crisi irachena, va sottolineato che esse, pur nella libertà delle misure che il Consiglio può stabilire, sono giuridicamente vincolate al fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Rispetto a tale fine il Consiglio di sicurezza non gode di discrezionalità, ma, al contrario, è tenuto a dirigere la propria azione al suo raggiungimento. Il perseguimento di tale fine condiziona la stessa rappresentatività del Consiglio di sicurezza rispetto agli Stati membri: l'art. 24 della Carta, infatti, dichiara che i Membri conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e riconoscono che esso agisce in loro nome nell'adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, quindi nei limiti in cui la sua azione sia diretta al mantenimento della pace.

Ora, nella crisi irachena, l'obiettivo del mantenimento della pace consiste nel disarmo iracheno, non nella sconfitta militare dell'Iraq, o nella caduta di Saddam Hussein, o nell'occupazione dei pozzi petroliferi. Autorizzare gli Stati Uniti e i loro alleati all'uso della forza contro l'Iraq equivarrebbe, invece, nell'attuale situazione, ad autorizzare una vera guerra, che si preannuncia particolarmente violenta, diretta - come si è ricordato (26) - alla debellatio dell'Iraq e alla sua occupazione militare. L'autorizzazione del Consiglio di sicurezza, lungi dal tendere al mantenimento della pace, sarebbe diretta apertamente a favorire una guerra, cioè a pregiudicare la pace internazionale, in palese contrasto con le disposizioni della Carta relative ai poteri dello stesso Consiglio e con il fine principale della stessa Organizzazione. Una risoluzione che contenesse una siffatta autorizzazione sarebbe, pertanto, illegittima.

Ammesso che il Consiglio di sicurezza ravvisasse la necessità di misure implicanti l'uso della forza per garantire il disarmo dell'Iraq, o anche solo per assicurare la completezza e l'efficacia delle ispezioni (misure, in ogni caso, di carattere limitato e strettamente preordinate a tali obiettivi), lo stesso Consiglio dovrebbe escludere da ogni autorizzazione proprio gli Stati (a cominciare dagli Stati Uniti) che intendono manifestamente sferrare una guerra volta a debellare l'Iraq, poiché una loro autorizzazione comporterebbe non già la rimozione di una minaccia alla pace, ma una sua certa e grave violazione. Un'eventuale autorizzazione, pertanto, dovrebbe riguardare altri Stati e, beninteso, le operazioni militari dovrebbero svolgersi sotto il controllo e la responsabilità politica del Consiglio di sicurezza, al fine di assicurare la loro moderazione e la congruità dell'impiego della forza rispetto agli obiettivi stabiliti dallo stesso Consiglio.

Va sottolineato che la possibilità di autorizzare solo alcuni Stati, e non altri, allo svolgimento di azioni militari rientra nella discrezionalità del Consiglio di sicurezza, essendo esplicitamente prevista dall'art. 48 della Carta, in base al quale l'azione necessaria per eseguire le decisioni dello stesso Consiglio per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è intrapresa da tutti i Membri delle Nazioni Unite o da alcuni di essi, secondo quanto stabilisca il Consiglio di sicurezza. Tale possibilità, inoltre, è confermata da un significativo precedente, relativo alla risoluzione n. 678 del 1990, che autorizzò l'operazione Desert Storm contro l'Iraq. L'autorizzazione, in quel caso, non riguardò tutti gli Stati membri, ma solo quelli che, in quel momento, cooperavano con il governo del Kuwait. La limitazione dell'autorizzazione agli Stati della coalizione formatasi a sostegno del Kuwait aveva, in realtà, lo scopo ben preciso di escludere Israele, la cui partecipazione avrebbe reso problematica la possibilità di contribuire all'operazione per alcuni Paesi arabi (membri della coalizione) e, presumibilmente, avrebbe potuto condurre ad un'estensione del conflitto.

Nella presente crisi irachena l'esclusione, da un'eventuale autorizzazione all'impiego di misure militari, degli Stati che si dichiarano determinati a scatenare una guerra contro l'Iraq ci parrebbe condizione imprescindibile di legittimità della risoluzione del Consiglio di sicurezza, perché solo in tal modo si garantirebbe l'obiettivo del mantenimento della pace.

La posizione dell'Italia e il rispetto della Costituzione

Le conclusioni alle quali siamo pervenuti alla luce del diritto internazionale e del sistema delle Nazioni Unite hanno una diretta incidenza anche sul rispetto della Costituzione italiana e, in particolare, sull'operatività dell'art. 11. Tale articolo dichiara che "l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Si pone così un divieto costituzionale della guerra, il quale - come un'autorevole dottrina ha messo in luce (27) - costituisce uno dei principi fondamentali che formano il nucleo essenziale della nostra Costituzione (28). Esso, pertanto, rientra tra quei "principi supremi", la cui esistenza è stata riconosciuta anche dalla Corte costituzionale. Quest'ultima, nella sentenza del 29 dicembre 1988 n. 1146, ha dichiarato che essi "non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionali", precisando che tali principi supremi "sono i principi che la stessa Costituzione prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139), quanto i principi che, non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione".

Lo stesso art. 11, nella sua seconda parte, svolge peraltro anche un ruolo "positivo" per quanto riguarda la possibilità di partecipazione italiana ad operazioni comportanti l'uso della forza. Come è noto, esso dichiara che l'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". In questo modo esso fornisce una copertura costituzionale anche alle azioni militari, a condizione che si svolgano nel quadro di un'organizzazione che promuova la pace e la giustizia fra le Nazioni.

Vale la pena di avvertire che le limitazioni di sovranità, che giustificano anche l'impiego della forza, non sono riferibili a qualsiasi organizzazione internazionale. L'art. 11, invero, solo per comodità espositiva può dividersi in due parti, ma concettualmente ha una sua sostanziale unità (29); pertanto le limitazioni di sovranità sono consentite solo se corrispondono alla finalità complessiva dello stesso art. 11, consistente nel perseguimento della pace. L'art. 11, "seconda parte", va quindi riferito essenzialmente alle Nazioni Unite, la cui Carta prescrive quale fine principale dell'Organizzazione il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e, a questo fine, prevede il meccanismo coercitivo, facente capo al Consiglio di sicurezza, comportante la possibilità di ricorrere anche alla forza armata contro lo Stato che minacci o violi la pace internazionale o compia un atto di aggressione. Pertanto la disposizione consente all'Italia (pur senza obbligarla, peraltro) di partecipare anche ad interventi militari di carattere coercitivo contro uno Stato deliberati dal Consiglio di sicurezza. È indispensabile, peraltro, affinché la partecipazione dell'Italia sia consentita, che tali interventi siano stati legittimamente deliberati dal Consiglio di sicurezza nel rispetto delle norme procedurali e sostanziali della Carta.

Alla luce del quadro costituzionale risultante dall'art. 11, considerato che il progettato attacco contro l'Iraq avrebbe tutte le caratteristiche proprie di una guerra - essendo diretto al rovesciamento del suo governo e all'invasione militare del suo territorio -, una partecipazione dell'Italia, in assenza di autorizzazione del Consiglio di sicurezza, costituirebbe una violazione del "ripudio" della guerra. Si aggiunga che, trattandosi di vera e propria guerra, tale partecipazione, in ogni caso, non potrebbe essere decisa dal Governo, ma richiederebbe, ai sensi dell'art. 78 Cost., una formale delibera del Parlamento, nella sua veste di organo rappresentativo del popolo italiano, al quale appartiene la sovranità (art. 1, 2° comma, Cost.), e, in base all'art. 87, 9° comma, Cost., la dichiarazione di guerra da parte del Presidente della Repubblica, garante dell'unità nazionale e del rispetto della Costituzione.

Ma, a nostro parere, anche in presenza di un'autorizzazione del Consiglio di sicurezza rivolta agli Stati che intendono muovere una guerra contro l'Iraq, una partecipazione dell'Italia sarebbe vietata dall'art. 11 Cost. Da un lato, infatti, le "limitazioni di sovranità" consentite dalla seconda parte di tale disposizione a favore di organizzazioni internazionali presuppongono che queste ultime, a loro volta, rispettino i propri ordinamenti giuridici. Come abbiamo osservato, un'autorizzazione dal contenuto qui ipotizzato sarebbe invece illegittima, ai sensi della Carta dell'ONU, e, pertanto, inidonea a giustificare una limitazione della sovranità italiana. Dall'altro lato, come pure si è ricordato, l'art. 11 va considerato nella sua unità, quale disposizione che permette limitazioni di sovranità al fine del mantenimento della pace; esso, pertanto, consente la partecipazione anche ad operazioni coercitive comportanti la forza armata contro uno Stato, volte a mantenere o ristabilire la pace, non a guerre dirette alla debellatio di uno Stato e alla sua occupazione militare.

Ben diversa, anche sul piano costituzionale, sarebbe la valutazione di un'eventuale risoluzione che autorizzasse azioni, pure militari, ma limitate ad assicurare il disarmo dell'Iraq, svolte sotto la responsabilità del Consiglio di sicurezza e con il sostegno di soli Stati che garantissero una stretta osservanza del suddetto obiettivo e, di conseguenza, un uso limitato della forza. La partecipazione italiana, infatti, troverebbe un fondamento costituzionale nella seconda parte dell'art. 11, così come nell'ipotesi in cui il Consiglio di sicurezza riuscisse a creare un'operazione di peace-keeping, con forze di "caschi blu" costituite direttamente dalle Nazioni Unite, sottoposte all'autorità del Consiglio di sicurezza e destinate ad agire sotto la guida del Segretario generale e il comando militare di suoi delegati (30).

In conclusione, nella situazione odierna, un coinvolgimento dell'Italia in una guerra contro l'Iraq si porrebbe in contrasto insanabile con il supremo precetto costituzionale del ripudio della guerra; il rispetto di tale precetto, invece, deve impegnare le istituzioni del nostro Paese ad un'opera forte e costruttiva, volta a promuovere in tutte le competenti sedi internazionali una soluzione pacifica dell'attuale crisi.


Note

*. Università di Roma "La Sapienza"; CIRP Bari

1. In I.C. J. Reports 1986, par. 186 ss.

2. Per riferimenti ci permettiamo di rinviare ai nostri scritti Lezioni su l'ONU e la crisi del Golfo, 2a ed., Bari, 1995, p. 85 ss., e L'intervento nella crisi del Golfo, in Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, a cura di Picone, Padova, 1995, p. 33 ss.

3. Sul punto cfr. il nostro studio su Les rapports entre l'ONU et les organisations régionales dans le domaine du maintien de la paix, in Recueil des cours de l'Académie de droit international de La Haye, tome 290 (2001), The Hague/Boston/London, 2002, p. 324 ss.

4. Il primo dichiara che "il Consiglio di sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale"; l'art. 42 dispone che il Consiglio di sicurezza "può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite".

5. Per una netta affermazione di tale esigenza cfr. Picone, La "guerra del Kosovo" e il diritto internazionale generale, in Rivista di diritto internazionale, 2000, p. 352 ss.; per un riesame del meccanismo dell'autorizzazione dell'uso della forza cfr., di recente, Sicilianos, L'autorisation par le Conseil de sécurité de recourir à la force: une tentative d'évaluation, in Revue générale de droit international public, 2002, p. 5 ss.

6. Con riferimento alla risoluzione n. 678 del 1990 si veda il nostro scritto su L'intervento nella crisi del Golfo, cit., p. 42.

7. Per un esame critico delle sanzioni economiche contro l'Iraq, vedi Craven, Humanitarianism and the Quest for Smarter Sanctions, in European Journal of International Law, 2002, p. 43 ss.; O'Connell, Debating the Law of Sanctions, ivi, p. 63 ss.; Graf Sponeck, Sanctions and Humanitarian Exemptions: A Practitioner's Commentary, ivi, p. 81 ss.; Howse, The Road to Baghdad is Paved with Good Intentions, ivi, p. 89 ss.; Oette, A Decade of Sanctions against Iraq: Never Again! The End of Unlimited Sanctions in the Recent Practice of the UN Security Council, ivi, p. 93 ss.

8. Cfr. de Jonge Oudraat, UNSCOM: Between Iraq and a Hard Place?, in European Journal of International Law, 2002, p. 144.

9. Cfr. Jalilossoltan, Désarmement de l'Irak en vertu de la résolution 687 (1991) du Conseil de sécurité de l'ONU, in Annuaire Français de Relations Internationales, 2000, p. 319; Ruiz Fabri, The UNSCOM Experience: Lessons from an Experiment, in European Journal of International Law, 2002, p. 153 ss.

10. Cfr. de Jonge Oudraat, op. cit., p. 144.

11. Il testo può leggersi in International Legal Materials, 1998, p. 501 s.

12. In proposito cfr. Thouvenin, Le jour le plus triste pour les Nations Unies - Les frappes anglo-américaines de décembre sur l'Irak, in Annuaire Français de Droit International, 1998, p. 209 ss.; Villani, La nuova crisi del Golfo e l'uso della forza contro l'Iraq, in Rivista di diritto internazionale, 1999, p. 451 ss.; e, nel più ampio contesto del ripetuto impiego della forza contro l'Iraq dopo la fine della guerra del 1991, Gray, From Unity to Polarization: International Law and the Use of Force against Iraq, in European Journal of International Law, 2002, p. 1 ss.; Byers, The Shifting Foundations of International Law: A Decade of Forceful Measures against Iraq, ivi, p. 21 ss.

13. Si veda il Communiqué de presse CS/2392 (4644e séance) dell'8 novembre 2002.

14. Si veda il citato Communiqué de presse CS/2392.

15. Vedi ancora il Communiqué de presse CS/2392.

16. Per un vigoroso rifiuto di tale dottrina cfr. l'editoriale No a una guerra "preventiva" contro l'Iraq, in La Civiltà Cattolica, 2003, I, p. 107 ss.

17. Cfr. Falk, Le Nazioni Unite prese in ostaggio, in Le Monde diplomatique, 2002, n. 12, pp. 1 e 8 s.

18. Sulle distinzioni, terminologiche e concettuali, tra le diverse forme di legittima difesa vedi, anche per ulteriori riferimenti, l'approfondito studio di O'Connell, The Myth of Preemptive Self-Defense, The American Society of International Law. Task Force on Terrorism, Washington, 2002.

19. Si vedano, nella giurisprudenza internazionale, la citata sentenza della Corte internazionale di giustizia del 27 giugno 1986, par. 176, e il parere dell'8 luglio 1996, relativo alla liceità della minaccia o dell'uso delle armi nucleari, in I. C. J. Reports 1996, par. 41; in dottrina cfr. Lamberti Zanardi, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, 1972, p. 267 ss., e, più di recente, Cannizzaro, Il principio di proporzionalità nell'ordinamento internazionale, 2000, p. 278 ss.

20. Si vedano Il Corriere della Sera, 7 gennaio 2003, p. 2, e La Repubblica, 7 gennaio 2003, p. 3; quanto al possibile impiego di armi nucleari cfr. La Repubblica, 4 febbraio 2003, p. 11.

21. Si vedano, per esempio, le giustificazioni anglo-statunitensi dopo il raid aereo su Bagdad del 16 febbraio 2001 (Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2001, p. 3). Eloquente è anche l'intervista a un esperto statunitense, Frank Ciluffo, ivi, 18 febbraio 2001, p. 11.

22. Violazioni della sovranità dell'Iraq sono ravvisabili anche nella presenza, ammessa dal Capo di stato maggiore statunitense Myers, di forze armate USA nel nord dell'Iraq (La Repubblica, 30 gennaio 2003, p. 11).

23. In questo senso vedi già Ferrajoli, Neanche l'ONU può, in La rivista del manifesto, novembre 2002, p. 20 ss. (del quale cfr. anche L'ONU, la prima vittima della guerra, ivi, febbraio 2003, p. 8 ss.).

24. Sul problema dei limiti ai poteri del Consiglio di sicurezza e della illegittimità dei suoi atti cfr., anche per ulteriori riferimenti, Arangio-Ruiz, On the Security Council's "Law-Making", in Rivista di diritto internazionale, 2000, p. 609 ss.; Conforti, Le Nazioni Unite, 6a ed., Padova, 2000, p. 12 ss.; Bernardini, ONU non deviata o NATO (e oltre): diritto o forza, Teramo, 2002, p. 32 ss.

25. I.C.J. Reports 1948, p. 64.

26. Vedi nota 20.

27. Cfr. Carlassare, L'art. 11 sulla pace e sulla guerra. Quali garanzie?, in Annali dell'Università di Ferrara, 1988, p. 24 s.; Id., Costituzione italiana e partecipazione a operazioni militari, in NATO, conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, a cura di Ronzitti, Milano, 2000, p. 162 ss.; Chieffi, Il valore costituzionale della pace. Tra decisioni dell'apparato e partecipazione popolare, Napoli, 1990, p. 61 ss.; Onida, Guerra, diritto, Costituzione, in Quaderni costituzionali, 1999, p. 1 ss.

28. Com'è noto, fa eccezione a tale divieto la legittima difesa (art. 52 Cost.).

29. Cfr. Carlassare, op. ult. cit., p. 164 s.

30. Un'iniziativa del genere è stata proposta dalla Germania e dalla Francia (La Repubblica, 9 febbraio 2003, p. 1 ss.), incontrando, peraltro, l'immediata opposizione degli Stati Uniti (ivi, 10 febbraio 2003, p. 1 ss.).