2006

I diritti umani tra universalismo e relativismo (*)

Andrea Rigon

Indice

Introduzione
1.1
Il fondamento dei diritti
1.2
L'impossibile fondamento
1.3
Consenso o fondamento?
2.1
I valori della dichiarazione
2.2
L'esigenza dei diritti leggeri
2.3
Il pericolo di una nuova religione
3
A cosa servono i diritti: ideale e reale
3.1
Ideale: al servizio dei senza potere
3.2
Reale: al servizio del più forte
3.3
Un uso strumentale: il caso Stati Uniti
4.1
L'intervento umanitario
4.2
Asian values
4.3
La priorità del male
4.4
Il dialogo
Conclusione
Bibliografia

Introduzione

In questo scritto presento in modo critico il lavoro di alcuni studiosi sui diritti umani, facendo emergere una mia linea argomentativa. Analizzo in particolare l'universalità, vera o presunta, dei diritti e le sue implicazioni. Convinto che un tema come questo non possa rimanere ancorato a un dibattito esclusivamente teoretico, lo collego quanto più possibile agli eventi ad esso connessi e alle conseguenze concrete legate alle diverse interpretazioni, spingendo questo testo ai limiti della filosofia politica e della filosofia del diritto. Non ho volutamente sviluppato in modo approfondito alcuni elementi del dibattito teoretico per affrontare meglio i nodi, a mio avviso, salienti del dibattito.

Nel mio testo esamino il dibattito sul fondamento dei diritti, l'efficace demolizione di Bobbio di questi fondamenti ed il mio dubbio sull'effettivo consenso ai diritti che Bobbio considera come loro fondamento. Basandomi sulla ricostruzione storica di Cassese, mostro i valori contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e le intenzioni di chi la scrisse. Continuo con l'analisi del tentativo di "alleggerire" i diritti per togliere loro il marchio di creazione occidentale e renderli dunque veramente universali e lontani da qualsiasi accusa di imperialismo culturale. All'interno di questo testo dedico un consistente spazio all'esposizione e alla critica della posizione di Michael Ignatieff perché è coerente e chiara ma, a mio avviso, nasconde implicazioni pericolose. Proseguo discutendo il ruolo che i diritti dovrebbero avere e quello che ricoprono, sostenendo che vi è una discrepanza tra l'idea di diritti come protezione dall'oppressione e la realtà in cui servono a legittimare interessi particolari. Mi soffermo sul caso degli Stati Uniti mostrando come, dopo aver creato i diritti umani a immagine e somiglianza dei loro testi costituzionali, li usino in modo discrezionale per i propri interessi. Passo poi alla critica degli Asian Values ai diritti umani visti come modello occidentale. Concludo con la posizione di Veca sulla priorità del male che concilia l'universalismo dei diritti con il pluralismo dei valori.

Nel corso di queste pagine cercherò di argomentare la necessità di fermare la "marcia verso l'universalità" (Cassese, 73), conscio della difficoltà di scontrarmi con il paradigma più saldo dell'Occidente. I diritti umani sono diventati infatti "un nuovo diritto naturale dell'umanità"(Cassese, 1994: 79) o addirittura "un nuovo ethos mondiale". (1) Tuttavia, smontare questo paradigma è premessa irrinunciabile per avviare un sincero dialogo interculturale senza paternalismi, indispensabile a costruire la pace e il confronto tra i popoli.

Devo necessariamente premettere che la mia posizione si basa su una convinzione profonda ovvero che la guerra moderna sia la negazione più totale dei diritti dell'uomo.

Il mio argomento contro la pretesa di universalità dei diritti umani si collega alla funzione che essi svolgono nella giustificazione delle guerre contemporanee. Per questo è centrale la riflessione sull'intervento militare. L'universalità legittima l'esportazione dei diritti umani, i diritti umani legittimano la guerra; quella stessa guerra che è la più grande violazione della dignità umana della quale i diritti umani sono o dovrebbero esserne i garanti.

1.1 Il fondamento dei diritti

Senza pretesa di completezza cercherò di illustrare alcune teorie sul fondamento dei diritti, lo farò brevemente in quanto sono convinto che la critica di Bobbio, che riporterò in seguito, superi tutti questi tentativi di fondamento.

Con la fine della Seconda Guerra mondiale e la consapevolezza degli orrendi crimini commessi, nella convinzione che i diritti umani possano arginare "le barbarie che offendono la coscienza dell'umanità" (2) nasce l'esigenza di dar loro un fondamento assoluto che li legittimi. Inoltre, presupponendo che siano "fini meritevoli di essere perseguiti" (Bobbio, 1990: 6), la ricerca di un loro fondamento viene ritenuta indispensabile per giustificarne l'adozione e spingere altri a fare altrettanto; appare dunque come un mezzo necessario per ottenerne un largo riconoscimento.

Non a caso l'elaborazione della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo fu preceduta da un'inchiesta dell'UNESCO per vagliare le diverse teorie sulla fondazione oggettiva dei diritti umani. Risultò che, se sul piano pratico si poteva trovare un accordo, sul piano teoretico rimaneva un profondo disaccordo. Nell'introduzione di J. Maritain al libro dell'UNESCO I diritti dell'uomo si legge "che le giustificazioni razionali sono indispensabili e tuttavia incapaci di mettere accordo fra gli spiriti" e dunque che "sui diritti dell'uomo si può andare d'accordo, a condizione che non ci si domandi perché" (1960: 11).

Usando lo schema estremamente semplificato di Alison Renteln (3), si possono distinguere tre tipologie di fondamento: (i) l'autorità divina; (ii) la legge naturale, (iii) la ratificazione internazionale dei trattati.

(i) Nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, approvata il 4 luglio 1776, si legge:

Reputiamo di per sé evidentissime le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili; che tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità.

Il fondamento dei diritti umani qui proviene direttamente da Dio. Ancor oggi questa è una fondazione molto forte. Per esempio il preambolo della Carta araba dei diritti dell'uomo comincia con "premessa la fede della Nazione Araba nella Dignità dell'uomo, sin da quando Allah l'ha onorata, ..." (4) È importante sottolineare come questo tipo di fondamento sia tuttora quello sul quale si basa l'ideologia di Bush. Anche Michael Perry, filosofo del diritto, è convinto della religiosità dell'idea di diritti umani: solo pensando gli esseri umani come opera di Dio e dunque sacri, vi sono ragioni per credere che ci debbano essere diritti per proteggere la loro dignità (5). Tuttavia questo fondamento, essendo strettamente legato ad una specifica visione religiosa, non può aspirare ad una validità universale.

(ii) Un altro importante gruppo di teorie sulla fondazione dei diritti si basa sull'idea dell'esistenza di una legge naturale. La razionalità di un valore è condizione necessaria e sufficiente alla sua attuazione. In base a questo dogma del razionalismo etico e del giusnaturalismo, sua espressione più cospicua, è persino auspicabile e moralmente giusta l'esportazione e l'imposizione dei diritti umani. Il giusnaturalismo, considerando i diritti umani un "elemento intrinseco" (Cassese, 1994: 55) della natura umana, richiede una definizione univoca di quest'ultima, cosa piuttosto problematica in quanto i molti tentativi, fatti in questa direzione, sono giunti a esiti differenti.

Anche autori come S. Cotta sono convinti che "la questione del fondamento è [...] ineliminabile e [...] richiede il riferimento alla struttura ontologica dell'uomo (la sua natura) e la riscoperta del rapporto che con essa ha il fenomeno giuridico. Solo in tal caso è possibile sottrarre i diritti fondamentali alla confligenza della storia e della prassi di potenza" (Cotta, 1982: 653).

(iii) Infine molti ritengono che la ratifica di un trattato da parte degli stati sia ragione sufficiente a dare un fondamento ai diritti umani. Si tratta però di un fondamento debole: i governanti infatti nel migliore dei casi rappresentano una maggioranza e nel peggiore loro stessi. Inoltre le scelte di ratifica sono spesso dettate da interessi geo-strategici molto lontani da un credo profondo nei valori affermati dalle dichiarazioni sottoscritte. Di conseguenza, anche qualora vi fosse un consenso diffuso tra i rappresentanti dei vari stati, esso rappresenterebbe una contingenza storica, che non giustifica alcuna dichiarazione universalista.

Al di fuori di questi filoni altri autori si sono cimentanti in tentativi originali ed interessanti. Raimon Panikkar, per esempio, ha sostenuto che si debbano cercare presso altre culture gli "equivalenti omeomorfi" del linguaggio dei diritti umani. La sua idea è che l'umanità è accumunata da un'idea di bene comune che si ritrova espressa in maniera differente, ma compatibile nelle diverse culture (6) (Panikkar 1982, pp. 89-90).

Anche Alison Renteln sostiene, in modo simile a Pannikar, che sia possible trovare valori invarianti rispetto alle culture attraverso un lavoro di tipo antropologico. Questo lavoro è necessario "To avoid the charge of cultural imperialism" (7) (Renteln, 1990: 15). Sostanzialmente propone di cercare empiricamente quei valori da eleggere come universali. Sebbene questo tentativo possa sembrare interessante non è poi sviluppato efficacemente. Approfondendo i contenuti della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, mostrerò in seguito come essa contenga valori che non appartengono ad ogni cultura.

1.2 L'impossibile fondamento

la dichiarazione universale enuncia dei diritti; essa non spiega perché li abbiamo (Ignatieff, 2003: 79).

Ignatieff racconta che, quando Eleanor Roosevelt organizzò nel febbraio 1947 il primo incontro per la stesura della Dichiarazione, un confuciano cinese e un tomista libanese si misero a dibattere sulle basi filosofiche e metafisiche dei diritti. Eleanor Roosevelt capì allora che "l'unico modo per fare passi avanti era che Occidente e Oriente fossero d'accordo nel non essere d'accordo". (8) I diritti umani nascono dunque su un disaccordo sulla base degli stessi. Non si sono cercate deliberatamente giustificazioni per spiegare perché i diritti umani siano universali: la Dichiarazione li dà per scontati e si limita ad elencarli.

Oggi diversi autori contestano il fondamento assoluto dei diritti dell'uomo come primo passo per smontare e smascherare la pretesa che li trasforma in religione laica, per la quale si giungono a giustificare persino i bombardamenti. Per smontare i tentativi di fondamento assoluto dei diritti umani presenterò la critica autorevole e lucida di Norberto Bobbio, che per anni ne ha solitariamente constestato non solo la legittimità, ma anche l'efficacia pratica. Egli evidenzia come i diritti nascano gradualmente in un contesto storico ben determinato, attraverso "lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri" (1990: XIII).

Per Bobbio chiamare i diritti naturali, fondamentali, inalienabili o inviolabili significa usare "formule del linguaggio persuasivo" (1990: XVI) che possono avere la funzione pratica di dare maggior forza retorica a un documento politico, ma che "non hanno nessun valore teorico." Bobbio non ha dubbi: ogni ricerca di fondamento assoluto è infondata.

Inoltre si chiede se sia possibile cercare il fondamento di diritti di cui non si ha una nozione precisa. L'espressione stessa diritti dell'uomo è di per sé molto vaga, la maggior parte delle definizioni è tautologica o si riferisce allo status dei diritti, ma non ne esplica il contenuto. (9) I diritti permetterebbero lo "sviluppo della civiltà" o il "perfezionamento della persona umana", entrambi termini vaghi, interpretabili in modo molto diverso. Sono considerati condizioni necessarie all'attuazione di alcuni valori, ma questi valori sono antinomici; di conseguenza risulta impossibile realizzarli completamente e bisogna dunque scendere a compromessi, in cui entrano in gioco scelte politiche.

I diritti sono eterogenei e in conflitto tra loro. Solo pochi non sono in concorrenza con altri, ad esempio il diritto a non essere resi schiavi e il diritto a non essere torturati, anche se quest'ultimo è stato recentemente messo in discussione da chi lo ritiene in contrasto con il diritto alla sicurezza (10). Non si può affermare un diritto in favore di qualcuno, senza togliere qualche vecchio diritto a qualcun altro. Un fondamento assoluto negherebbe la parziale limitazione di un diritto in favore di un altro. Le recenti Dichiarazioni comprendono diritti individuali, che richiedono interventi negativi, e diritti sociali, che necessitano di interventi positivi. "L'attuazione integrale degli uni impedisce l'attuazione integrale degli altri" (Bobbio, 1990: 13). A questo proposito Cassese illustra la diatriba tra i paesi comunisti e le democrazie liberali: i primi forti sostenitori del primato dei diritti sociali come condizione per fruire di quelli civili e politici, mentre i secondi della priorità dei diritti civili e politici. È dunque ingenuo pensare a una società che sia contemporaneamente libera e giusta: quanto più è libera tanto più è ingiusta e viceversa.

Dalla Dichiarazione emergono i diritti fondamentali, ma i valori ultimi sono antinomici. Ne consegue che due diritti antinomici non possano avere un fondamento assoluto. Un diritto e il suo opposto non possono essere entrambi inconfutabili e irresistibili. Bobbio ci ricorda come l'illusione del fondamento venga a volte usata per difendere posizioni conservatrici ed evitare l'introduzione di nuovi diritti. Ne è esempio lampante il rifiuto di considerare l'accesso all'acqua potabile un diritto umano, in quanto limiterebbe fortemente il diritto di proprietà. Infatti questo nuovo diritto, trasformando l'acqua in bene pubblico o addirittura in patrimonio mondiale dell'umanità, modificherebbe radicalmente l'attuale natura dell'acqua di bene economico, appropriabile a titolo privato (11) (Petrella, 2005).

Ignatieff concorda: "se i diritti confliggono e le richieste non possono essere ordinate in modo indiscutibile secondo una priorità morale, non è possibile considerare i diritti delle briscole" (2003: 25) da utilizzare, come sostiene Dworkin, per risolvere conflitti. Al massimo i diritti possono fornire "un insieme condiviso di punti di riferimento che può essere d'aiuto alle parti in conflitto per dialogare" (2003: 25).

Domandandoci cosa è per noi più fondamentale tra due diritti in conflitto, (12) Bobbio ci fa capire che il criterio di scelta quale esso sia - la propria coscienza, il sistema di valori del gruppo di appartenenza, la coscienza morale dell'umanità in un dato momento storico - è comunque "troppo vago per l'attuazione del principio di certezza necessario a un sistema giuridico che decida imparzialmente i torti e le ragioni" (1990: 40).

Inoltre i diritti umani rappresentano una classe variabile ovvero mutano nel tempo assieme alle condizioni storiche. Diritti, considerati assoluti nel passato come la proprietà nella Dichiarazione francese del 1789, sono stati limitati dalle dichiarazioni contemporanee, a dimostrazione dell'inesistenza di diritti per loro natura fondamentali. Infatti nel futuro potrebbero essere ritenuti fondamentali diritti come quello di non portare armi contro la propria volontà o il diritto alla vita per gli animali o altri che ora non intravediamo neppure.

Ciò che sembra fondamentale in un'epoca storica e in una determinata civiltà, non è fondamentale in altre epoche e in altre culture. Non si vede come si possa dare un fondamento assoluto di diritti storicamente relativi. (Bobbio, 1990: 9-10)

A Bobbio va dunque il merito di riconoscere i limiti dei diritti umani, nonostante la retorica politica e massmediatica li consideri i comandamenti della nuova religione laica.

1.3 Consenso o fondamento?

Per Bobbio l'unico fondamento possibile è quello storico del consenso che non è assoluto e può essere solo fattualmente provato. Egli ritiene la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo la più grande prova della condivisione di un determinato sistema di valori, parla di un'universalità di fatto in quanto la Dichiarazione esprime un consenso di tutta l'umanità. Naturalmente questo consenso è difficile da accertare. Cotta, per esempio, addirittura lo nega:

la difficoltà finora insuperata, di rendere operante non solo la Dichiarazione universale ma anche gli accordi di Helsinki, ben più giuridicamente strutturati, attesta che il «consenso generale» affermato da Bobbio non esiste (Cotta, 1982: 647).

Egli sostiene che il disaccordo sul fondamento indebolisca i diritti "se è controverso il fondamento dei diritti, è inevitabile che, prima o poi, essi risultino controvertibili anche sul piano pratico" (Cotta, 1982: 653).

Alcuni studiosi, negando che il problema del fondamento sia risolto da Bobbio o da chi accetta una pluralità di fondamenti, insistono sulla necessità di dare una giustificazione razionale alle teorie dei diritti che legittimi la loro applicazione pratica. L'argomento è che non si possano riconoscere diritti dei quali non si conosca il fondamento perché l'accordo pratico di cui parla Bobbio risulterebbe fragile. Secondo Viola, "l'intensificarsi di un dialogo costruttivo intorno al fondamento dei diritti umani" risulta perciò essere "un servizio reso alla causa della pace dei popoli e del rispetto dell'uomo" (Viola, 1989: 52).

Ciò che spinge questi autori a cercare un fondamento irresistibile è il desiderio di opporsi ai conflitti sui diritti umani, nati dalla pluralità di culture che compongono il nostro pianeta. Personalmente non ritengo che la Dichiarazione sia espressione di tutta l'umanità, né che rappresenti la coscienza storica dei suoi valori e che quindi si possa trovarne un fondamento assoluto. Cercherò di spiegare chi vi è rappresentato e chi no, e quanto sia esteso il preteso consenso.

2.1 I valori della dichiarazione

i diritti umani rappresentano il generoso tentativo [...] di introdurre la razionalità nelle istituzioni politiche e nella società di tutti gli Stati [...] quella razionalità sottesa dai valori cristiani e da certi grandi concetti "laici" della tradizione illuministica (Cassese, 1994: VII-VIII).

Cassese sostiene che i diritti umani "senza dubbio, costituiscono ormai un nuovo diritto naturale dell'umanità" (1994: 79) ma, già nell'introduzione del suo libro, sottolinea con forza l'origine cristiana e illuministica dei diritti umani, citando S. Paolo e alcuni filosofi europei come i precursori di "questa nuova ideologia" (1994: VIII).

Nella descrizione del processo di scrittura della Dichiarazione emerge chiaramente come essa sia un prodotto dell'individualismo liberale, mitigato da qualche richiesta sovietica. Cassese ricorda che il "Comitato di redazione [...] fu composto prevalentemente da occidentali in senso politico-culturale" (1994: 33). L'idea di Eleanor Roosevelt - colei che ebbe il ruolo più importante di tutti nella stesura della Dichiarazione - è espressa da uno dei suoi consiglieri, J. P. Hendrick, il quale asserì che la politica degli Stati Uniti consisteva nell'"avere una Dichiarazione che fosse la copia in carta carbone della Dichiarazione americana di indipendenza e della Dichiarazione americana dei diritti dell'uomo". (13)

Non è una coincidenza storica che il preambolo della Carta delle Nazioni Unite "We, the Peoples of the United Nations" (14) sia modellato sulla Costituzione americana "We, the People of the United States". (15) Cassese spiega come, con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia intendessero proclamare a livello internazionale le concezioni giusnaturalistiche che avevano ispirato i loro testi politici interni. In quest'ottica i diritti umani diventerebbero un regalo della cristianità e della razionalità illuminista al mondo, idea non molto diversa da quella americana spiegata da Ignatieff per cui i diritti umani sarebbero l'"American gift to the world" (16) e cioè l'"American freedom universalized to the world" (17) (Ignatieff, 2005).

Il sopraccitato "tentativo di esportate sul piano internazionale i valori dell'Occidente" (Cassese, 1994:33) causò una reazione dei paesi socialisti che trasformarono il dibattito sui diritti umani in una lotta politico-ideologica. Semplificando al massimo, si può affermare che quella carta, in cui qualcuno vede il riassunto "un nuovo ethos globale", (18) altro non sia che un compromesso tra Stalin e Roosevelt. Roosevelt voleva una fotocopia dei testi costituzionali americani e Stalin voleva sancire il diritto dei popoli all'autodeterminazione in chiave anticoloniale e l'importanza dei diritti sociali.

Cassese spiega che i diritti umani, ben lungi dal costituire un ethos mondiale frutto di una mediazione e di un dialogo interculturale, rappresentano "in tutto e per tutto un pezzo di guerra fredda" (1994: 33). Guerra fredda percepibile ad esempio dal dibattito sul diritto di ribellarsi, sostenuto dai paesi socialisti e negato dagli Stati Uniti che vi intravedevano una fonte di sovversione. Cassese scrive che il risultato dello scontro e delle "assai limitate convergenze tra Est e Ovest" (1994: 37) è una dichiarazione che riflette la "matrice delle democrazie liberali dell'Occidente." "La dichiarazione segnò una grande vittoria per l'Occidente" (1994: 44): gli ideali delle democrazie liberali vennero estesi a tutti gli stati della comunità mondiale e, su proposta della Francia da "internazionale" venne chiamata "universale." "Il delegato cileno affermò addirittura che la Dichiarazione costituiva il testamento morale del Presidente americano" (Cassese, 1994: 34). La ricostruzione storica di Cassese aiuta a capire come la Dichiarazione non rappresenti dunque valori comuni mondiali ma costituisca l'espressione egemonica dell'individualismo liberale: una dichiarazione monista che si autoeleva a legge universale, sebbene sia l'espressione di una limitata parte dell'umanità.

Di fronte alla pluralità di morali, autori come Ignatieff propongono di pensare ai diritti umani come ad "un linguaggio che crea le basi per la deliberazione" (2003: 96). Ma può esserlo, viste le sue origini?

La Dichiarazione esprime un chiaro etnocentrismo nella sua pretesa di universalità che trascende chi vi aderisce (19) ed è inoltre paternalistica. Cassese non nega né l'uno né l'altro, anzi evidenzia l'ispirazione cristiana della Dichiarazione e "l'effetto pedagogico" nei confronti del "Terzo Mondo" per il quale la Dichiarazione è "servita come stella polare, come indicazione delle strade da seguire" (1994: 45). Viene naturale chiedersi come possa rappresentare un ethos globale, rispettoso della pluralità di culture, qualcosa che è stato scritto come compromesso di uno scontro politico tra governi, la maggioranza dei quali non rappresentava neanche i propri popoli, per di più in un momento in cui esistevano imperi che negavano di fatto la partecipazione di molti paesi all'elaborazione della carta.

Antonio Cassese scrive che "si è gradualmente creato un nucleo ristretto di valori e criteri universalmente accettati da tutti gli Stati" (1994: 71). È curioso notare come a livello di diritti si enfatizzi sempre il ruolo dell'individuo ma poi, quando si deve sondare il consenso che essi hanno, ci si riferisca sempre agli stati. Ogni riferimento all'universalità si basa, non sul consenso delle genti, ma sempre su quello degli stati, come se essi rappresentassero degnamente i loro popoli: sulle questioni importanti gli stati, intesi come governi, non sono in grado di rappresentarli, neanche nelle democrazie liberali, figuriamoci in altri regimi. Mi riferisco, ad esempio, alla contrarietà alla guerra in Iraq, espressa dall'opinione pubblica italiana, e alla partecipazione militare decisa invece dal governo.

2.2 L'esigenza dei diritti leggeri

Il rapporto fra l'universalismo dei diritti umani e il pluralismo delle culture e delle tradizioni è un fatto che genera sfide e problemi (Veca, 2003:111).
Identificare quei pochissimi diritti genuinamente fondamentali, formulati in un linguaggio neutrale rispetto alla diversità delle culture (Ferrara, 5).

Alla mancanza di un fondamento assoluto si è recentemente affiancato un aumento delle critiche ai diritti umani, che ha mostrato l'esistenza di importanti tradizioni culturali le quali non si riconoscono nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Se nel secondo dopoguerra non vi erano grandi attori internazionali al di fuori degli USA con i suoi alleati e dell'URSS, oggi la situazione sta cambiando. Come il paragrafo precedente mostra, il dibattito sui diritti umani si è svolto prevalentemente tra questi attori. Adesso non è più così. Paesi del cosiddetto Terzo mondo, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, hanno assunto un nuovo ruolo ed alcuni paesi asiatici, forti dei loro sorprendenti risultati economici, hanno cessato la loro passiva accettazione della Dichiarazione, sottolineando la loro diversità culturale e la loro intenzione a mantenere propri valori, considerati incompatibili con essa. Questa "minaccia" ai diritti umani, dovuta al crescente pluralismo, ha creato la necessità per salvarli di trovare un consenso politico minimo intorno ad alcuni di essi, da cui le proposte di una loro versione leggera.

Michael Ignatieff, conscio del problema esistente "fra l'universalismo dei diritti umani e il pluralismo delle culture e delle tradizioni" (Veca, 2003: 111), scrive che "la dottrina dei diritti umani ora è [...] sconsideratamente imperialista nelle sue pretese di universalità" (Ignatieff, 2003: 60). Per non suonare come "il linguaggio di un imperialismo morale tanto inesorabile e ottenebrato da richiamare la tracotanza colonialista del passato", i diritti umani devono essere "alleggeriti" (Ignatieff, 2003: 24). "Possono meritare l'assenso universale solo in quanto teoria decisamente 'leggera' di cos'è giusto, in quanto mera definizione delle condizioni minime per ogni genere di vita" (Ignatieff, 2003: 58). Riguardando ciò che è giusto e non ciò che è buono, risultano compatibili con una pluralità di idee di vita buona: diritti umani universali sono dunque compatibili con il pluralismo morale. I diritti umani sono moralmente universali solo nella misura in cui si limitano a definire "libertà da" ovvero libertà negative - che proteggono la capacità d'azione dell'individuo - senza definire "libertà di." L'individualismo liberale può quindi essere esportato come universale ed è la sola risposta alle critiche mosse da altre culture: può infatti conciliare universalismo dei diritti umani e pluralismo culturale. Condivide questo approccio "minimalista" il filosofo Alessandro Ferrara che propone:

una Seconda Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la quale risponda pienamente alla nuova funzione che essa sarà chiamata a svolgere nel XXI secolo: identificare quei pochissimi diritti genuinamente fondamentali, formulati in un linguaggio neutrale rispetto alla diversità delle culture (Ferrara, 5).

Anche Antonio Cassese osserva come "si è gradualmente creato un nucleo ristretto di valori e criteri universalmente accettati da tutti gli Stati" (1994: 71).

I diritti umani potrebbero assumere un carattere meno imperiale se diventassero più politici, ovvero se non fossero percepiti come un linguaggio per emanare e proclamare verità eterne, ma come un discorso per la soluzione dei conflitti (Ignatieff, 2003:24).

Ridotti all'essenza, cioè all'individualismo liberale, a un mero meccanismo di protezione della libertà negativa, i diritti dell'uomo cesseranno di rappresentare presso altre culture "un'intrusione neoimperialista, un'imposizione dello stile di vita, dei valori, della visione del mondo occidentali" (Zolo, 2003: 149), e diventeranno la forza degli oppressi.

Questi autori non si rendono però conto che propongono proprio di eliminare quei diritti che altre culture considerano prioritari. Infatti, come ricorda Zolo, sia nella Dichiarazione islamica di Tunisi che nella Banjul Charter, approvata dall'Organizzazione dell'Unità Africana, i diritti economico-sociali sono anteposti ai diritti politici. Considerando perciò tutto quello che riguarda la libertà positiva incompatibile con un pluralismo etico e morale, si rendono ciechi a quello stesso pluralismo a cui pretendono di andare incontro. Ignatieff, per esempio, non riconosce i diritti collettivi che altre culture ritengono complementari e necessari all'attuazioni di quelli individuali.

2.3 Il pericolo di una nuova religione

Antonio Cassese mette in luce un problema chiave, derivante da una fuorviante interpretazione dei diritti umani: l'"errore [...] consiste nel considerare i diritti umani come una sorta di nuova religione dell'umanità" (1994: 78). Egli è conscio del rischio di trasformare il "codice in mito", creando "un alone utopico" e "dottrinario, che esso non ha e non deve avere" (1994: 79).

Se si crede in una "religione" e si guarda poi alla realtà (che è fatta di negazioni quotidiane dei diritti umani) si diventa missionari, per realizzarla. Si finisce così per coinvolgere i diritti umani nei conflitti e nelle polemiche Est-Ovest o Nord-Sud, negli scontri ideologici e nei dissidi strategico-militari: la "religione" viene pervertita.
[...]
L'azione - meritoria - per far rispettare i diritti umani diviene "crociata" e può alla fine legittimare intolleranze, manipolazioni, se non persecuzioni (Cassese, 1994: 79).

Come Ignatieff, anche Cassese propone di ridurre i diritti umani. Egli sostiene che i diritti umani vadano ridotti a norme giuridiche, considerando la "loro essenza di grande forza giusnaturalistica" (1994: 114). Privandoli dunque degli scontri ideologici, essi divengono pienamente universali ed è quindi "meritoria" l'azione per farli rispettare. I diritti umani non devono quindi essere considerati una religione ma "il tentativo di indicare i valori [...] e i disvalori che tutti gli Stati dovrebbero prendere come criteri nella loro azione" (1994: 79).

I diritti umani hanno alla loro base un desiderio di unificare il mondo prescrivendo certe linee direttrici che tutte le strutture governative dovrebbero osservare. [...] Senza dubbio costituiscono ormai un nuovo diritto naturale dell'umanità (Cassese, 1994: 79).

Per i paesi occidentali sono ancora strettamente legati ad una visione giusnaturalistica. "I diritti umani sono connaturati agli individui, sono un elemento intrinseco della qualità di persona umana e quindi precedono ogni struttura statale e devono essere rispettati dai governi" (Cassese, 1994: 55). Il giusnaturalismo collega dunque l'esistenza dei diritti alla razionalità: costituisce il moderno tentativo di introdurre la ragione nella storia del mondo, condannando così all'irrazionalità chi ha una visione differente. In realtà è un'altra forma di monismo che, appropriandosi del primato della ragione, la innalza a valore assoluto.

Questa posizione, per quanto dichiari di non volere essere una nuova forma di religione laica, è ancora più pericolosa. Infatti, considerando la ragione valore universale, nega che ci possa essere altro a guidare il modo di vita delle persone. Inoltre, come ci mettono in guardia Adorno e Horkheimer (20), l'elezione della ragione a valore assoluto e positivo ha guidato la "razionalità sistematica" con cui sono stati organizzati i lager nazisti.

Come dice Zolo siamo di fronte a un paradosso: il valore anti-religioso per eccellenza - la ragione - diviene una religione laica, capace di creare crociate distruttive in nome di un universalismo, che come ogni universalismo "contiene di per sé i germi dell'intolleranza, dell'aggressività e della negazione della diversità" (Zolo, 2003: 157).

3 A cosa servono i diritti: ideale e reale

3.1 Ideale: al servizio dei senza potere

Si può non essere d'accordo sul perché abbiamo diritti, ma si può esserlo sul fatto che ne abbiamo bisogno (Ignatieff, 2003: 57).

Come precedentemente detto, Ignatieff rifiuta la possibilità di dare un fondamento ai diritti umani che non sia storico-politico, non diversamente da Bobbio, e propone di costruire il consenso basandosi su "ciò che essi fanno per gli esseri umani". Inoltre sostiene che, solo se ridotti all'individualismo liberale, ovvero a un meccanismo di protezione della libertà negativa, possano considerarsi universali e compatibili con un pluralismo morale.

Nati in Occidente, i diritti umani "sono diventati globali non perché sono al servizio degli interessi dei potenti, ma in primo luogo perché hanno promosso gli interessi di chi è senza potere" (Ignatieff, 2003: 12); sono l'unico "gergo universalmente disponibile che convalida le richieste di donne e bambini contro l'oppressione che vivono nelle società tribali e patriarcali" (Ignatieff, 2003: 70).

La società tradizionale è oppressiva verso gli individui al suo interno non perché non procura loro un modo di vita occidentale, ma perché non concede loro il diritto di parlare e di essere ascoltati (Ignatieff, 2003: 75).

L'accanimento di Ignatieff contro la non ben definita "società tradizionale" illustra il suo modo di ragionare attraverso enormi semplificazioni del "mondo non occidentale". Credo che questo sia una delle evidenze più lampanti dell'etnocentrismo latente nel suo punto di vista. Per smentirlo, è sufficiente citare Nelson Mandela che, nella sua autobiografia Long walk to Freedom, descrive come da giovane abbia imparato democrazia e diritti osservando le procedure delle riunioni nella sede del governo locale in Mqhekezweni:

everyone who wanted to speak did so. It was democracy in its pure form. There may have been a hierarchy of importance among the speakers, but everyone was heard, chief and subject, warrior and medicine man, shopkeeper and farmer, landowner and labourer. (21)

Ignatieff inoltre asserisce che "in tutte le società il diritto di rifiutare ordini legittimi ma immorali ha bisogno di una fonte giuridica di legittimità. I diritti umani sono una di queste fonti" (2003: 21) Questa loro funzione renderebbe legittima la loro esportazione universale, in particolare nei regimi tradizionali. In questo approccio paternalista e moralista Danilo Zolo riconosce la radice di ciò che chiama "fondamentalismo umanitario" che "finisce per avvicinare l'universalismo pragmatico e secolarizzato di Ignatieff all'universalismo religioso e aggressivo dei neo-cons statunitensi" (Zolo, 2003: 142).

Ma è necessaria una fonte giuridica di legittimità? Sono proprio i diritti umani, come sostiene Ignatieff, a legittimare ad esempio i gruppi che difendono le donne dai delitti d'onore? I Partigiani nella resistenza al nazi-fascismo avevano la necessità di una legittimazione giuridica? Se fosse già esistita la Dichiarazione si sarebbero sentiti più legittimati? Una prova del fatto che questa legittimazione è pressoché inutile sta nel fatto che, nonostante la Dichiarazione, la resistenza palestinese all'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi, ritenuta illegale dall'ONU, viene per lo più delegittimata e chiamata terrorismo.

Pare invece che i diritti umani giustifichino il contrario al punto da legittimare ordini 'ingiusti' come quello della guerra all'Iraq. Non è un paradosso se la fonte che dovrebbe legittimare il rifiuto di ordini immorali è la stessa che legittima aggressioni, violenze, bombardamenti sui civili? È proprio vero allora che ne abbiamo bisogno?

3.2 Reale: al servizio del più forte

Ignatieff stesso, constatando come a livello pratico la protezione dei diritti umani con un intervento militare avvenga in modo discrezionale sulla base di interessi particolaristici, auspica una maggiore coerenza che porti ad intervenire militarmente e tempestivamente ogni qualvolta se ne presenti l'occasione. È arrivato così a giustificare quella che è stata, a mio avviso, una delle più terribili catastrofi degli ultimi anni: la guerra in Iraq. Recentemente ha cambiato idea, ma la guerra ormai c'è stata e il suo supporto in nome dei diritti umani è stato fondamentale. Ignatieff, direttore del Carr Center of Human Rights Policy presso l'università di Harvard, è stato addirittura invitato a tenere nel 2005 la lezione inaugurale di Amnesty International a Dublino. Con questo invito l'organizzazione, che più si batte per la protezione dei diritti umani, sembra riconoscere e legittimare l'idea di esportazione dei diritti a suon di bombe.

Ignatieff non è il solo intellettuale a giustificare azioni militari per i diritti umani. Anche Jack Donnelly, tra i più noti studiosi di diritti umani, sostiene che oggi non serve nemmeno l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per legittimare azioni militari che sono di per sé "moralmente legittime" (Donnelly, 2003: 290).

Non è un caso che i diritti umani siano stati usati in ogni occasione possibile dalla retorica di Bush a favore della guerra:

Last year, the U.N. Commission on Human Rights found that Iraq continues to commit extremely grave violations of human rights, and that the regime's repression is all pervasive (22)
America believes that all people are entitled to hope and human rights, to the non-negotiable demands of human dignity. People everywhere prefer freedom to slavery; prosperity to squalor; self-government to the rule of terror and torture. America is a friend to the people of Iraq. Our demands are directed only at the regime that enslaves them and threatens us. When these demands are met, the first and greatest benefit will come to Iraqi men, women and children. The oppression of Kurds, Assyrians, Turkomans, Shi'a, Sunnis and others will be lifted. The long captivity of Iraq will end, and an era of new hope will begin. (23)

Una retorica efficace, penetrata in profondità, tanto che una parte dell'opinione pubblica è convinta della validità della guerra in nome dei diritti considerati una nobile ragione. Voglio portare un esempio di come quest'idea della guerra in Iraq per i diritti umani sia penetrata in profondità. Pur consapevole della sua scarsa rilevanza scientifica, citerò un commento del giugno 2005, tratto da uno dei tanti forum online, apertisi sull'argomento.

[...] yes the polls are slipping on [the war in]Iraq. But I think this is because all we see is the bad on TV. I have a feeling if someone in the MSM [mass media] were to play some good old Saddam torture tapes, we'd have a little better feeling about what we're doing over there. And I have to say I'm too tired to get into WMD's [weapons of mass destruction] but I read the resolution authorizing the war and it was just one reason, and human rights violations was another. And Iraq not complying with the U.N. for some 12 odd years... (24)

In quest'ottica i diritti umani assumono una funzione propagandistica essenziale per poter giustificare un intervento attuato da un regime democratico, che deve perciò avere il supporto del proprio elettorato. Il problema non è dunque una legittimazione internazionalmente riconosciuta e nemmeno il riconoscimento da parte dei popoli invasi delle buone intenzioni di chi li bombarda, quanto piuttosto di permettere a una democrazia l'invasione di un paese.

3.3 Un uso strumentale: il caso Stati Uniti

Da quando Eleanor Roosevelt presiedette la commissione che vergò la Dichiarazione universale, l'America ha promosso le norme dei diritti umani nel mondo, rifiutando, allo stesso tempo, l'idea che quelle norme si applicassero ai cittadini e alle istituzioni americane (Ignatieff, 2003: 19).

Per il loro ruolo di unica superpotenza rimasta, ritengo fondamentale approfondire l'idea che gli Statunitensi hanno dei diritti umani. L'analisi di Ignatieff, che riporto qui di seguito, mostra come gli Stati Uniti usino i diritti umani in maniera strumentale per esportare l'American way of life nel mondo intero. I diritti umani che dovrebbero proteggere dallo stato aggressivo, quando vengono invocati rispetto alle violazioni interne statunitensi, vengono ritenuti un'intrusione esterna. La pena di morte, considerata una violazione del diritto alla vita, espresso nell'articolo 3 della Dichiarazione universale, sia ritenuta legittima perché legge, espressione della volontà del popolo statunitense.

Nella "Inaugural 2005 Amnesty Ireland Lecture" intitolata American Exceptionalism (25), Ignatieff illustra come la mancata firma di molti trattati o la mancata ratifica di altri da parte statunitense sia dovuta, non solo alla paura di vedere limitata la propria sovranità ma anche all'idea che le convenzioni internazionali sui diritti manchino di legittimazione democratica, essendo state scritte da giuristi non eletti, "unelected lawyers working in Geneva somewhere..." (Ignatieff, 2005). A nulla serve ricordare che, proprio attraverso il processo di ratifica, quelle norme ritrovano una legittimazione democratica.

È significativo che Ignatieff consideri George Bush il più grande difensore dei diritti umani tra i presidenti statunitensi.

Don't forget that the speech given by a US president that most directly committed the United States to the promotion of Human Rights and democracy in the Arab world was given by George W. Bush [...] that is to say whether you like it or not [...] that human rights and promotion of democracy are a central figure, a central feature of the [Bush] administration (26) (Ignatieff, 2005).

Ignatieff chiarisce il comportamento paradossale degli Stati Uniti che applicano due doppi standard riguardo ai diritti umani: uno per gli amici e uno per i nemici (ciò che è tollerato per il Pakistan non lo è per nessun altro paese), uno per se stessi e uno per il resto del mondo (ritenendo ad esempio irrilevante ciò che il mondo pensa riguardo alla pena capitale).

Sarebbe però un errore ragionare esclusivamente in termini di real politik: gli Stati Uniti, essendo la potenza mondiale più forte, non avrebbero interessi razionali a ratificare alcun vincolo, perciò è importante capire perchè abbiano spinto per creare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ancora una volta è Ignatieff a chiarire il problema con una lezione di storia americana.

United States are a very particular national project, a country with a very strong sense that its history, the history of its freedom, of its creation is of universal significance, it is a political project of universal significance for the whole world (27) (Ignatieff, 2005).
[...]
the American history is of universal significance and a significance for export, and this is fundamentally how human rights are understood in United States [...]Human rights are not understood as international human rights, they are understood as American freedom universalized to the world, American gift to the world (28) (Ignatieff, 2005).

Gli Stati Uniti, secondo Ignatieff, sono dunque l'unico paese che è riuscito a universalizzare il proprio percorso politico come se avesse valore universale. Per questo i diritti umani sono "for export but not for import", da esportare ma non da importare. Una lezione da insegnare, ma non da imparare perché possiedono la libertà che tutta l'umanità desidera (Ignatieff, 2005). Essendo la prima grande repubblica democratica del mondo libero, gli statunitensi si chiedono cosa abbiano da imparare da qualcun altro. Ne risulta una concezione dei diritti umani come strumento per donare al mondo la tanto desiderata American freedom, ovvero imporre al mondo il modo di vita americano.

Lontano da essere lo strumento degli oppressi, i diritti umani sono lo strumento del più forte, suonano più che mai attuali le parole del sofista Trasimaco "la giustizia è l'utile del più forte".

4.1 L'intervento umanitario

Le forze armate delle potenze occidentali sono state più impegnate a partire dall'1989 di quanto non lo siano mai state durante la Guerra fredda, e il linguaggio usato per legittimare questa attività è stato quello della difesa dei diritti umani (Ignatieff, 2003: 42).

Il primo caso di intervento militare giustificato con i diritti umani risale al 1882, anno in cui Gladstone richiese alla Camera dei Comuni fondi per la spedizione in Egitto. Egli giustificò l'azione sostenendo che Arabì, il comandante egiziano anti-inglese, e i suoi seguaci erano militaristi anticristiani, che non si curavano affatto dei diritti umani (29). La camera dei Comuni approvò entusiasticamente il corpo di spedizione che occupò l'Egitto: i diritti umani fornirono la giustificazione all'"imperialismo sciovinista". Oggi la situazione non è molto cambiata ed i diritti umani sono sempre più spesso una delle ragioni degli interventi militari.

Ignatieff sostiene che la forza sia uno strumento indispensabile per la protezione dei diritti umani, il problema per lui è che il sistema attuale favorisce i contrari all'intervento coercitivo. Purtroppo, lamenta Ignatieff, perché si intervenga militarmente "la regione in questione deve essere di vitale interesse, per ragioni geopolitiche, strategiche o culturali per una delle potenze del pianeta e non deve esserci l'opposizione di un'altra potenza all'uso della forza" (2003: 45).

"I diritti umani possono essere universali, ma il sostegno per far valere con la forza le norme non sarà mai universale. Poiché agli interventi mancherà la piena legittimità, dovranno essere limitati e parziali e di conseguenza avranno successo solo in parte" (Ignatieff, 2003: 48).

Egli auspica quindi un cambiamento affinché si faccia uso della guerra umanitaria ogni qualvolta vi sia una violazione dei diritti umani, senza che intervengano i vincoli sopraccitati, un intervento dunque immediato, completo ed efficace.

L'unico vincolo che sembra porre, per evitare le accuse di intrusione imperialista, è quello del consenso locale. Egli non chiarisce però in che modo vada accertato. Come mostra Michael Moore nel suo documentario Fahreneit 9/11, gli Stati Uniti, per dimostrare l'esistenza di un consenso locale, hanno investito milioni di dollari nell'infausto tentativo di creare un'opposizione irachena in esilio, ma essa era costituita da un esiguo gruppo autoreferenziale pagato per avvallare la guerra statunitense: come ha ampiamente provato il protrarsi degli scontri bellici.

L'universalismo di Ignatieff si allinea con gli interventi militari. Se ha come obiettivo la tutela dei diritti umani, la guerra, anche quando sia decisa in maniera unilaterale, è legittima e persino doverosa. È proprio questo approccio che ha fatto schierare Ignatieff a favore della guerra in Iraq, salvo poi successivamente ricredersi e ammettere pubblicamente di essersi sbagliato, peccato che nel frattempo ci siano state migliaia di morti.

Ignatieff trascura le possibili incompatibilità tra la guerra e l'obiettivo della protezione dei diritti umani. Come sottolinea Zolo, dimentica che "la guerra moderna è la più radicale negazione dei diritti degli individui, a cominciare dal diritto alla vita" (Zolo, 2003: 156). Inoltre Ignatieff evidenzia come l'universalità implichi coerenza ma, come nota Baldassare Pastore, non coglie la necessità di coerenza tra mezzi e fini.

La violazione dei diritti si nutre di violenza, distruzioni, crudeltà, morte, sfruttamento, sopraffazioni, abusi. La risposta a tale violazione richiede la ricerca di mezzi efficaci che devono sottostare ad un vincolo di coerenza connesso proprio al rispetto generalizzato ed eguale dei diritti. Coerenza vuole che l'intervento militare non possa essere considerato uno strumento di riparazione dei diritti violati (Pastore, 3).
Se i diritti sono configurabili come condizioni che rendono possibile l'iniziativa umana, attraverso l'eliminazione della sofferenza socialmente generata, che erode le basi della dignità e della reciprocità dei riconoscimenti, e la garanzia, per tutti gli esseri umani, dello status di soggetto agente che persegue i propri progetti di vita, allora, per ragioni di coerenza, l'uso della guerra va bandito proprio perché annulla ogni iniziativa umana (Pastore, 4).

Oltre al problema di coerenza, Ignatieff trascura, o meglio lascia implicito, quale sia l'autorità universale da investire della funzione morale di decidere il sacrificio di civili inermi in nome dei diritti universali (Zolo, 2004: 134). Secondo lui è ovvio che gli Stati Uniti, in quanto "prima grande democrazia del mondo libero" (Ignatieff, 2005), avrebbero questo ruolo che non necessita nemmeno di mostrarsi imparziale. La difesa dei diritti umani necessita infatti di "schierarsi da una parte" e l'intervento deve essere "per forza di cose, parziale e politico" (Ignatieff, 2003: 14).

L'esperienza empirica insegna che, anche quando l'intervento è stato avvallato dall'ONU, non ha fermato gli abusi, ma li ha addirittura aumentati. Il più grande genocidio avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale, Srebrenica, è stato possibile solo grazie all'ONU (30).

4.2 Asian values

Gli autori che mirano a rendere compatibili i diritti umani con un pluralismo morale hanno mostrato di avere una profonda ignoranza o una volontaria indifferenza alla critica loro rivolta dagli Asian Values. Ad esempio Ignatieff cita l'ex presidente di Singapore, Lee Kuan Yew, il quale afferma che "senza dubbio una società con valori comunitari, nella quale gli interessi della società prevalgono su quelli degli individui, si addice agli asiatici molto più dell'individualismo americano" (2003: 65) e che proprio quel sistema di valori causa tassi di divorzi e di criminalità crescenti in Occidente, dimostrazione di come l'individualismo sia "sovversivo dell'ordine necessario per il godimento di quegli stessi diritti" (2003: 65). Tuttavia poi Ignatieff sembra non rendersi conto che quello che propone come nucleo dei diritti umani universale è proprio ciò contro cui si scagliano le critiche degli Asian Values. Infatti, alla critica che il suo "universalismo minimalista" impone a tutte le culture l'individualismo liberale risponde che è proprio quest'ultimo a permettere la diversità culturale. Solo un approccio individualista è in grado di conciliare l'universalismo dei diritti umani con il pluralismo culturale, è la sola risposta alle critiche mosse dalle altre culture.

Baldassarre Pastore però osserva che, per quanto Ignatieff lo ritenga "leggero", l'individualismo liberale rappresenta comunque un'imposizione di ideali "che finiscono per produrre uniformità", si deve piuttosto ricercare un "universalismo contestuale", legato al "concreto esistenziale" (Pastore, 1). L'"universalismo minimalista" non è dunque l'approccio adatto a un dialogo interculturale, necessario nel mondo multiculturale in cui viviamo. "L'universalismo, infatti, rischia di perdere la sua caratteristica di processo differenziato, aperto a molteplici interpretazioni 'locali', tendente a costruire 'codici' relazionali di convivenza possibile" (Pastore, 2).

Anche Danilo Zolo non può fare a meno di notare come la scarsa attenzione di Ignatieff, che liquida in poche righe le critiche mosse dall'Islam e dagli Asian Values, sia un indice chiaro dell'etnocentrismo latente nell'universalismo occidentale.

La tutela dei diritti dell'uomo e il principio di eguaglianza giuridica dei cittadini hanno d'altra parte, scarso interesse per popolazioni che sono ancora in larga parte oppresse dalla miseria e che fino a poco tempo fa subivano inermi lo strapotere del colonialismo occidentale (Zolo, 2003: 151).

Egli sottolinea inoltre come un quarto della popolazione mondiale faccia riferimento alla cultura confuciana che, attraverso una visione organica della società e della famiglia, riesce a contenere "gli effetti anomici dell'economia di mercato" e a ridurre "le spinte disgregatrici dell'individualismo e del liberalismo occidentale" (2003: 151).

L'idea stessa di diritto soggettivo è "estranea all'ethos confuciano." In cinese nessuna parola corrisponde alla nozione occidentale di "diritto soggettivo" (31), infatti nella tradizione confuciano-menciana non prevale "l'idea di diritto individuale", bensì quella di "relazione sociale fondamentale" (Zolo, 2003: 152). La disputa giudiziaria non è una "esasperata competizione tra individui nel tentativo di 'ottenere ragione' e di vincere la causa prevalendo sull'avversario" ma "la conciliazione attraverso pratiche di compromesso e di mediazione." "La soluzione transattiva delle controversie si fonda sulla personalizzazione del caso singolo, non sulla sua spersonalizzazione formalistica" (2003: 152).

La società occidentale è considerata in declino in quanto "i valori comunitari decadono sotto la spinta di un individualismo sfrenato e di una concezione politica in cui lo stato concede diritti senza che vi sia corrispondenza di doveri e legami di solidarietà" (2003: 153). In maniera schematica ma immediata ed efficace, la seguente tabella può aiutare a capire meglio le principali divergenze tra i cosiddetti "valori asiatici" e quelli "occidentali."

Tab. 1 - Valori asiatici e valori occidentali
Tratta da Flavia Monceri Bibliografia minima sugli 'Asian values'
Valori asiatici Valori occidentali
Comunità (o "gruppo") Individuo
Armonia sociale Libertà individuale
Dovere soggettivo Diritto soggettivo
Religione come parte della "sfera pubblica" Religione come parte della "sfera privata"
Parsimonia Consumismo
Lavoro duro Tempo libero
Interventismo statale Libero mercato
Rispetto della leadership politica Disaffezione politica
Enfasi sui legami familiari Famiglia atomistica

In risposta all'immagine di un Occidente cristiano individualista e uniforme, c'è il tentativo di opporre un'altrettanto uniforme blocco asiatico di matrice confuciana. L'enfasi è posta sulla centralità delle funzioni svolte dall'individuo all'interno della comunità. Rapida crescita economica e stabilità politica sono risultati straordinari ottenuti non grazie all'applicazione del modello occidentale, bensì alle caratteristiche culturali asiatiche che hanno aiutato a creare un modo asiatico allo sviluppo sia economico che politico.

Questo dibattito dimostra come sia lontano il trionfo dell'uniformità, ovvero dei valori liberali della Dichiarazione, nonostante sia in atto un processo di occidentalizzazione del mondo, che, secondo Zolo, coincide in gran parte con la globalizzazione (Zolo: 2005). Infatti la critica maggiore dei teorizzatori degli Asian Values riguarda proprio la dottrina dei diritti umani e la tradizione liberaldemocratica.

Molti autori hanno argomentato che tale critica è mossa da dittatori che mirano a preservare il loro ruolo. Pur non negando un fondo di verità, è tuttavia ingenuo ed etnocentrico non considerare una diversità di valori.

4.3 La priorità del male

Un tentativo coerente e originale di conciliare l'universalismo dei diritti con il pluralismo dei valori è quello di Veca. Egli risolve il conflitto affermando che, se le ragioni che rendono una vita buona sono diverse, possiamo però concordare su ciò che è male. Non è dunque possibile fondare un universalismo, seppur minimale, su una qualche idea di ciò che è bene, la convergenza può essere trovata però sul male. Definendo i diritti come gli strumenti di protezione dal male, possiamo avere dei diritti universali senza imposizioni su ciò che riguarda cosa è bene. I diritti sono dunque compatibili con il pluralismo morale e culturale nella misura in cui divengano "le risorse per minimizzare la sofferenza sociale, [...] le briscole con cui stoppiamo le manovre di esclusione, di umiliazione, di degradazione." (32)

La riflessione di Veca si basa sulla consapevolezza che negli ultimi anni "sembra essersi innescato un progetto di ordine mondiale unilaterale la cui parola d'ordine è l'esportazione militare di modelli istituzionali che esemplificano l'idea di 'bene'" (2003: 132). I diritti universali vanno dunque ridotti a un ristretto nucleo di invarianti che "consiste nell'insieme di strumenti per ridurre e, per quanto è possibile azzerare le manovre dell'oppressione e della crudeltà" (2003: 129).

In breve sintetizza così:

Potremmo accettare l'idea che dovremmo essere intransigenti con ciò che è male, non dovremmo praticare la tolleranza verso ciò che è male, nel senso che ho detto, e dovremmo nello stesso modo essere libertari verso ciò che variamente può essere per noi bene. (33)

L'idea di Ignatieff di ridurre i diritti umani a libertà negativa si concilia con la tesi sulla priorità del male: imporre vincoli al male, "l'esclusore del bene" (34), permette di realizzare le diverse idee di bene.

Anche Veca rifiuta i tentativi di fondamento assoluto dei diritti, ma li giustifica in base all'esperienza storica del male: essi sono "il semplice promemoria della nostra crudeltà e della nostra vergogna" (2003: 134). "Una tesi universalistica sui diritti umani mira a proteggere le persone per ciò che può loro accadere nello spazio del male e non deve invadere lo spazio dei beni umani" (2003: 121-122). Ma la Dichiarazione non può essere letta come un meccanismo di protezione contro il male: l'articolo 1, ad esempio, contiene un'idea di vita buona che impone con le sue parole "tutti gli esseri umani [...] devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza" (mio corsivo).

Secondo Veca, "i diritti fondamentali devono funzionare come vincoli sull'esercizio di poteri, quali che siano proteggendo dal male vite di persone, quali che siano e ovunque siano" (2003: 109). Egli risponde così alla domanda sul perché vi sia bisogno dei diritti umani. L'idea è simile a quella di Ignatieff sui diritti come meccanismo di protezione dall'oppressione. Ho già espresso in precedenza il mio dubbio sull'efficacia di un tale meccanismo protettivo.

Un altro problema legato a questa tesi è la necessità dell'identificazione del male. Nel secolo scorso abbiamo assistito a qualcosa che potremmo identificare con il male assoluto, per il quale un sistema di protezione dal male, ammesso che funzioni, risulta appropriato. Ma in molte situazioni odierne non è possibile identificare un male assoluto, bensì ci si trova in presenza di un conflitto complesso nel quale, come Ignatieff riconosce, ci si può intromettere solo prendendo le parti di un contendente. (35) Questo modo di pensare non è efficace e tende a peggiorare le situazioni considerando uno degli attori - in genere quello che si ritiene maggiormente in torto - l'incarnazione del male da fermare. Questo proietta il mondo e i conflitti in un'ottica manichea semplificata e pericolosa, in cui chi interviene - una coalizione avvallata dall'ONU o una coalizione di volonterosi - viene identificato o si auto-identifica con il "bene" per proteggere e liberare i "buoni" contro il "male". Questa prospettiva non solo rischia di amplificare il conflitto, ma potrebbe addirittura trasformarlo nell'incubo, prospettato da Huntington, dello scontro di civiltà. (36)

I diritti umani come protezione dal male implicano il riconoscimento del male in termini assoluti. Nella mia esperienza in situazioni di violazioni di diritti umani e conflitto in Kosovo, Bosnia e Palestina, ho sperimentato l'impossibilità di questa identificazione e dunque di quest'uso dei diritti umani. A mio avviso, non esiste la "monotona centralità del male", esso è plurale e spesso si nasconde nel bene. Il bene per gli uni, a volte, è il male per altri; per questo prendendo le parti di un contendente non si risolve il problema. Ciò che è necessario è avviare un dialogo per capire le ragioni dell'altro, un dialogo di reciproco beneficio tra le parti in gioco. Non credo che i diritti umani siano d'aiuto o forniscano un linguaggio comune per sedersi intorno a un tavolo e neppure che servano da piattaforma per questo dialogo.

4.4 Il dialogo

È importante chiarire che, distrutto l'universalismo, non ci si trova di fronte alla catastrofe morale, alla perdita d'ogni valore collegata erroneamente da molti studiosi a una prospettiva di relativismo culturale. Quest'ultima costituisce invece la base per un dialogo interculturale. L'accusa di portare il mondo alla decadenza morale deriva soprattutto da un fraintendimento della posizione relativista. Ad esempio Veca la riassume dicendo "A me piace il caffè, a te lo Champagne [...] Tutto qui, non c'è altro da dire" (Veca, 2003: 116). Egli argomenta inoltre che "se i valori dell'altra tribù valgono esattamente quanto quelli della mia, perché dovrei rispettarli e non, per esempio, divertirmi a distruggerli, soprattutto se i rapporti di forza promettono un esito felice?" (2003: 116). Dimentica però che adottare una prospettiva di relativismo culturale significa riconoscere alle altre culture un uguale rispetto. Quindi, se do a un'altra cultura lo stesso valore della mia, la rispetterò proprio perchè i suoi valori hanno la stessa importanza dei miei; è invece quando si considera la propria cultura migliore di un'altra che probabilmente si cercherà di distruggerla.

È vero che questo dialogo interculturale è una possibilità: non vi è certezza né sugli esiti, né sul dialogo stesso. Ma anche i diritti umani e il consenso su di essi resta nell'ambito del possibile. Ciò che è necessario è promuovere il dialogo affinché abbia successo. Qualcuno non lo vuole e preferirebbe lo scontro di civiltà. La convivenza umana è possibile e diventa realtà nel momento in cui ci poniamo in relazione con altre persone. Creare un dialogo interculturale, privo di etnocentrismo e pregiudizi, attraverso relazioni umane dirette e reti di relazioni è l'unico modo per proteggere esseri umani e comunità dall'oppressione e dalla guerra.

Questa prospettiva ha guidato la mia pratica e su di essa sto ancora svolgendo una riflessione che è stata argomento di altri miei saggi e che richiederebbe una trattazione a parte.

Conclusione

Oggi i diritti umani permettono alla guerra di chiamarsi globale: le potenze occidentali che la conducono si richiamano costantemente a valori universali. Esse giustificano la guerra non in nome di interessi di parte ma mediante un punto di vista superiore e imparziale e valori che si ritengono condivisi o condivisibili dall'intera umanità (Zolo, 2004: 128).

Ignatieff sottolinea come i diritti umani siano strumentalizzati: "strumentalizzazioni vergognose - dando copertura universalistica a interessi particolari hanno finito per far credere che l'intero senso dei diritti umani fosse riconducibile al loro abuso." Egli stesso però è caduto nel tranello e ha dedicato tutta la sua autorevolezza di direttore del centro studi sui diritti umani di una delle università più prestigiose del mondo a supportarne l'abuso, dando "copertura universalistica a interessi particolari" con il suo sostegno alla guerra in Iraq.

La strumentalizzazione dei diritti umani è connaturata alla loro origine che ho cercato di illustrare nel paragrafo 'i valori della Dichiarazione;' questo li ha, a mio parere, resi controproducenti e talvolta aggravano addirittura le situazioni. Così, come sono proposti oggi, i diritti umani rappresentano una forma di imperialismo culturale, molto più esigente dell'imperialismo coloniale in quanto, come una religione monoteista, pretendono il consenso: una vera e propria conversione e adesione ai loro valori.

"L'intero senso dei diritti umani" è riconducibile al loro abuso o c'è dell'altro? Si possono ancora salvare? Ne abbiamo bisogno? Sono ancora universali? O come devono diventare per poter essere universali? Ad alcune di queste domande ho cercato di dare una parziale risposta, altre rimangono aperte.

Oggi i diritti umani rappresentano il cuore dell'ideologia occidentale che implica l'esportazione e l'imposizione della democrazia (si potrebbero considerare i principi costituzionali della liberaldemocrazia). Ciò che giustifica questo processo è la loro pretesa di universalità. L'espansionismo monista dei diritti umani ci sta portando all'inevitabile scontro di civiltà, auspicato dai peggiori neocons americani. Questo è inevitabile quando si attacca l'Iraq e lo si fa in nome dei diritti umani. Quando in Afghanistan, dopo una sanguinosa invasione, in nome del diritto all'istruzione si insegna su un testo unico scritto negli Stati Uniti (37) - in Italia dovremmo sapere bene cosa significa.

Smascherando l'universalità dei diritti umani il mio intento è quello di superare il monismo in cui ci troviamo e minare la giustificazione intellettuale del processo di omogeneizzazione forzata del mondo, spesso realizzata con l'ossimoro della guerra umanitaria. L'Occidente, attraverso il linguaggio imparziale e universale dei diritti umani, impone a tutte le culture del mondo la propria scala di priorità: ponendo al centro l'individualismo liberale che, come ho cercato di chiarire, non corrisponde alle aspirazioni di tutti i popoli.

Questo testo è quindi solo un primo ma fondamentale passo di un lavoro più complesso e articolato. Decostruito il mito dell'universalismo del paradigma dei diritti umani, possiamo aprire strade alternative al dialogo interculturale.

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  • Veca, S. Le stanze di Proust (29 aprile 2005).
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  • Zolo D. 2003. 'Fondamentalismo umanitario'. In Ignatieff M. Una ragionevole apologia dei diritti umani. Milano: Feltrinelli.
  • Zolo, D. 2004. Globalizzazione. Roma-Bari: Laterza.

Note

*. Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Scienze politiche, Corso di laurea in Scienze sociali per la cooperazione e lo sviluppo; anno accademico 2004/2005.

1. Kasper, W. 1988. Le fondament théologique de droits de l'homme. Citato in Bobbio 1990: 264.

2. Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani.

3. Tratto dal suo libro International Human Rights.

4. Carta araba dei diritti dell'uomo, adottata il 15 settembre 1994 con risoluzione n. 5437 dal Consiglio della Lega degli Stati Arabi.

5. Citato in Ignatieff 2003, p. 84.

6. Egli sostiene ad esempio la conciliabilità dell'appartenere a più religioni monoteiste in quanto espressione diversa della stesso bene comune a cui l'umanità aspira.

7. Trad. "Per evitare l'accusa di imperialismo culturale" (tutte le traduzioni in questo scritto sono mie).

8. Morsink, J. 1999 The Universal Declaration of Human Rights: Origins, Drafting and Intent. Philadelphia: University of Pennsylvania Press. Citato in Ignatieff 2003: 80.

9. Bobbio cita i seguenti esempi "Diritti dell'uomo sono quelli che spettano all'uomo in quanto uomo", "Diritti dell'uomo sono quelli il cui riconoscimento è condizione necessaria per il perfezionamento della persona umana oppure per lo sviluppo

10. Il diritto a non essere torturati è stato recentemente messo in discussione dalla cosiddetta guerra al terrorismo internazionale, che ha fatto riemergere in ambienti neo-cons e militari americani la richiesta di legittimare lo strumento della tortura, peraltro ampiamente usato (vedi il rapporto annuale di Amnesty International sugli Stati Uniti), come necessario alla guerra al terrore.

11. Il rifiuto si riferisce alla dichiarazione finale del Secondo Forum Mondiale dell'acqua organizzato dal Consiglio mondiale dell'acqua nel 2000.

12. "Che cosa è più fondamentale: il diritto di non uccidere o il diritto della collettività nel suo insieme ad essere difesa da un'aggressione esterna? In base a quale criterio di valore una simile questione può essere risolta?" (Bobbio, 1990: 40).

13. Citato in Cassese, 1994: 33.

14. Trad. "Noi, popoli delle Nazioni Unite"

15. Trad. "Noi, popolo degli Stati Uniti"

16. Trad. "il regalo dell'America al mondo" da Ignatieff "The inaugral 2005 Amnesty Ireland Lecture in Trinity College". January, 13th 2005. Disponibile online in formato MP3. Le citazioni che seguono sono la mia trascrizione della lezione.

17. Trad. "la libertà americana universalizzata al mondo"

18. Kasper, W. 1988. Le fondament théologique de droits de l'homme. Citato in Bobbio 1990: 264.

19. I valori della Dichiarazione non sono estesi ai soli membri dell'ONU ma a tutto il mondo (Cassese, 1994: 44).

20. Horkheimer, M.. Adorno, T.W. 1966. Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino.

21. Trad. "Chiunque volesse parlare lo faceva. Era democrazia nella sua forma pura. Poteva esserci stata una gerarchia di importanza tra gli oratori, ma ciascuno era ascoltato, il capo e il suddito, il guerriero e il medico, il negoziante e l'agricoltore, il proprietario terriero e il lavoratore." Citato in Sen, 2004: 21.

22. Trad. "L'anno scorso, la commisione dell'ONU sui diritti umani rilevò che l'Iraq continuava a commettere violazioni estremamente gravi dei diritti umani, e che la repressione del regime pervadeva tutto." For Immediate Release Office of the Press Secretary September 12, 2002 President's Remarks at the United Nations General Assembly Remarks by the President in Address to the United Nations General Assembly, New York.

23. Trad. "L'America crede che a tutte le persone spetti la speranza e i diritti umani, e la non negoziabile domanda di dignità umana. Le persone ovunque preferiscono la libertà alla schiavitù; la prosperità allo squallore; l'auto-governo alla legge del terrore e della tortura. L'America è amica del popolo iracheno. Le nostre richieste sono dirette solo al regime che li schiavizza e ci minaccia. Quando queste richieste saranno soddisfatte, il primo e più grande beneficio andrà agli uomini, alle donne e ai bambini iracheni. L'oppressione di Kurdi, Assiri, Turkomanni, Sciiti, Sunniti e altri verrà eliminata. La lunga prigionia dell'Iraq finirà, e inizierà una nuova era di speranza." For Immediate Release Office of the Press Secretary, October 7, 2002. President Bush Outlines Iraqi Threat Remarks by the President on Iraq Cincinnati Museum Center - Cincinnati Union Terminal, Cincinnati, Ohio.

24. Trad. "Sì, dai sondaggi il [consenso alla guerra in] Iraq sta diminuendo. Ma penso che sia per le cose negative alla TV. Ho la sensazione che se i massmedia trasmettessero qualche buon vecchio video delle torture di Saddam, saremmo più convinti di ciò che stiamo facendo laggiù. Sono troppo stanco per parlare delle armi di distruzione di massa, ma ho letto la risoluzione che autorizza la guerra ed era solo una ragione, le violazioni dei diritti umani sono un'altra. E l'Iraq che non ha soddisfatto [le richieste] dell'ONU per 12 anni...".

25. Queste tesi sono affrontate da Ignatieff anche nel libro American Exceptionalism and Human Rights, 2005. Princeton University Press.

26. Trad. "Non dimenticate che il discorso fatto da un presidente Americano che più direttamente ha coinvolto gli Stati Uniti nella promozione dei diritti umani e della democrazia nel mondo arabo, fu fatto da George W. Bush [...] questo è per dire, che vi piaccia o no [...] che i diritti umani e la promozione della democrazia sono una caratteristica centrale dell'amministrazione Bush."

27. Trad. "Gli Stati Uniti sono un progetto nazionale particolare, un paese con un forte credo che la propria storia, la storia della sua libertà, della sua creazione abbia un significato universale, è un progetto politico di significato universale per il mondo intero."

28. Trad. "La storia americana ha un significato universale, un significato da esportare. Questo è come i diritti umani sono fondamentalmente intesi negli Stati Uniti [...] I diritti umani non sono concepiti come diritti umani internazionali, ma come libertà americana universalizzata al mondo, come il regalo americano al mondo."

29. Mansfield, P. 1993. Storia del Medio Oriente. Torino: Società Editrice Italiana, p. 105-106.

30. Si veda il rapporto dell'ONU su Srebrenica: The Fall of Srebrenica del 15 novembre 1999. Oppure Rumiz, P. 1996. Maschere per un massacro. Roma: Editori Riuniti, pp. 24-26.

31. Chung-Schu, L. "Human Rights in the Chinese Tradition" in UNESCO Human Rights: Comments and Interpretations, Columbia University Press, New York 1999. Citato in Zolo "Fondamentalismo Umanitario", p. 151.

32. Veca, S. Le stanze di Proust (29 aprile 2005).

33. Ibidem.

34. Spinoza. Citato in Veca, 2003: 129.

35. Essere attivista dei diritti umani significa schierarsi da una parte, mobilitare gruppi di sostenitori abbastanza forti da obbligare chi commette abusi a fermarsi. Di conseguenza, un attivismo efficace è, per forza di cose, parziale e politico (Ignatieff, 2003: 14).

36. Huntington, S. 1993. 'The clash of civilization.' Foreign Affairs. Vol. 72, n. 3, p. 22-28.

37. Si legga a proposito Peyrille, A. e Balali, M "Girls' Return Spells Out School Changes - War On Terror: A Nation's Hope".. The Daily Telegraph (Sydney), March 25, 2002, p. 19. Oppure USAID, "A Thirst for Education" in Healing and Teaching.