2005

Tramonto del diritto moderno? (*)

Geminello Preterossi

Recita un récit diffuso quanto un refrain nel dibattito pubblico contemporaneo che la sovranità sarebbe tramontata, inutilizzabile, e tutti ne dovremmo gioire. Tuttavia, le sovranità persistono, talune fortemente indebolite, altre talmente rafforzate da risultare eccedenti la stessa categoria tradizionale di sovranità. Ma cosa si intende per sovranità, quando si formulano questi giudizi? Si fa riferimento anche a ciò che la sovranità era diventata nell'ottica normativistica kelseniana, cioè sovranità dell'ordinamento giuridico (pur con le aporie di tale nozione)? E soprattutto, cosa sottende, radicalmente, tale autorappresentazione ormai così diffusa, che muove da elementi perfino ovvi (una crisi non proprio nuova - quella dello Stato moderno -, e il fatto della globalizzazione)? E ancora, quali conseguenze avrebbe tale fine di un tramonto? Porsi questi interrogativi significa ragionare sulle 'prestazioni' che la sovranità moderna ha assicurato e sulla qualificazione del 'giuridico' che, seppur attraverso trasformazioni significative, ne derivava, rispondendo al 'nocciolo politico' (il nesso ordine-conflitto in un mondo secolarizzato, cioè senza Fondamento ultimo) che ha 'costituito' il Moderno. Davvero nulla della prestazione 'sovrana' deve essere traghettato nell'età globale? Davvero il 'problema' cui la sovranità moderna forniva una risposta ormai in crisi è definitivamente superato? Forse abbiamo bisogno di una rinnovata critica dell'ideologia, o meglio, hegelianamente, di una 'critica del tempo', cioè del recupero di un'attitudine 'critica' (che significa tanto assunzione quanto destrutturazione) della filosofia rispetto al 'senso comune', anche a quello dei saperi e delle tecniche.

Vorrei proporre brevemente, per quadri e tesi secche, una fenomenologia della cosiddetta 'post-sovranità' alla luce di un interrogativo che, credo, a lungo ci accompagnerà tragicamente e a cui peraltro è illusorio pensare di poter fornire una risposta compiuta oggi: che ne è del diritto nell'età globale? Uso il concetto di diritto in senso non generico e astorico, ma nell'orizzonte minimo definito dalla semantizzazione storico-concettuale moderna (entro la quale ancora operiamo), cioè dalla sua qualificazione artificialista, autoritativa e procedurale, la quale mi pare difficilmente dissociabile da una serie di altri fattori costitutivi del razionalismo europeo e dell'identità post-illuminista (quali il pluralismo, la laicità dell'ordine, la tolleranza, le garanzie della libertà e dei diritti, il principio di uguaglianza) e quindi non agevolmente liquidabile.

Da un lato assistiamo da tempo a una crescente lotta contro i diritti in nome della deregolazione. Sempre più di frequente i diritti vengono rappresentati come un vincolo e un onere insostenibile per un mondo flessibile: se si allargano troppo e si insiste sulla loro validità universale, che spinge a trascendere i confini e mette in crisi la nozione di cittadinanza, essi entrerebbero in frizione con la cosiddetta 'società aperta' che li ospita. Rispetto a tale crisi, due tipi di risposta si sono delineati. Una strategia 'riformistico-deflattiva', che mira a ridurre i diritti per salvare quelli più fondamentali o più agevolmente assicurabili (logica che evidenzia la natura intrinsecamente polemogena del discorso dei diritti, amplificandola, poiché si tratterà di deciderli, definendo una gerarchia non innocente e nuove esclusioni). L'altra via mi pare che possa essere definita weltgeschichtlich: il mondo deregolato non avrà più bisogno del discorso dei diritti, perché la prestazione che artificialmente - cioè in modo 'giacobino' - le politiche dei diritti faticosamente e solo in parte avrebbero potuto assicurare sarà superata sul lungo periodo - cioè quando saremo tutti morti e quindi tanto non potremo verificarlo - dallo spontaneismo del sistema degli scambi globali giunto a compimento, cioè dall'autoamministrazione tecnocratica delle cose. Sia detto per inciso e senza ironia, tale ideologia della globalizzazione si presenta come una nuova forma di marxismo volgare.

Oltre alla lotta contro i diritti, dobbiamo constatare però il progressivo delinearsi di strategie di lotta contro il diritto: un crescente disagio verso i poteri 'terzi' e 'autorizzati'; una spiccata tendenza a scegliersi il proprio giudice, o a sostituirvisi; la relativizzazione del nucleo universalistico minimo sotteso alla giuridicità: la laicità e la validità erga omnes delle norme, la pubblicità della procedura giuridica, l'indisponibilità delle garanzie effettive del pluralismo e del dissenso, il primato dell'interesse pubblico su quello particolaristico (pur ampiamente garantito, ma entro un quadro gerarchico certo). Tali tendenze non sono affatto in contraddizione con il pangiuridicismo che sembra caratterizzare per certi aspetti l'ideologia globalistica: da un lato infatti si pretende di affermare quale paradigma monopolistico, totalizzante e presuntamente progressivo il modello 'in-civile' (1), iper-privatistico, spesso informale del diritto commerciale globale: un modello incompatibile con quell'asse portante giusrazionalista, di matrice hobbesiana, che conduce a Kant e a Kelsen; dall'altro la crescita esponenziale delle pretese al riconoscimento di nuovi diritti e a sottoporre a giuridificazione ambiti tradizionalmente sottratti determina una crescente pressione sui poteri - diretti e indiretti -, che li induce ad aggirare i vincoli giuridici. Il dato nuovo è che tali tentativi di aggiramento (che ci sono sempre stati e che entro una certa misura sono fisiologici) non sono più solo sotterranei, ma divengono oggetto di una vera e propria ideologia presuntamente post-ideologica (la più insidiosa, perché delegittima tutte le altre posizioni, accreditandosi come 'neutrale') e di una politica del diritto. Tentativi rivelativi della disponibilità ad abbassare la soglia, quel discrimine su cui il diritto moderno faticosamente ma nettamente - soprattutto a partire dal 1948 - si è attestato (forse perché l'universalismo giuridico non costituisce più una risorsa strategica primaria da giocare nell'ambito della contrapposizione ideologica Est/Ovest, così che la spinta progressiva e la valenza di interdetto rappresentate dalla memoria della seconda guerra mondiale possono essere avventatamente date per esaurite).

Siamo convinti che le immagini onnicomprensive e semplificante dell'epoca moderna ostacolino la comprensione delle molte linee che la compongono e che ne determinano la natura aperta, irrisolta. Non a caso lo 'statuto del Moderno' costituisce più matrice di conflitto, che di pacificazione. Lo stesso termine 'modernità' serba una polisemia 'inflattiva' e stenta ad acquisire una nitidezza concettuale e definitoria, tanto da sconsigliarne l'abuso. Al di là di un'utilizzazione generica e convenzionale (il mero rinvio ad un arco temporale), la possibilità di utilizzare il termine 'moderno' in senso più marcatamente qualificativo e carico ermeneuticamente, non può che dipendere dal riferimento ad ambiti ben determinati, che non escludono la compresenza di tendenze e immagini diverse e concorrenziali (ad esempio, il diritto come 'forma' dell'ordine, l'asse imperativistico della sovranità 'polemico' rispetto alla 'lunga durata' del particolarismo socio-istituzionale dell'Antico Regime, il primato della politica statuale come monopolio della violenza legittima e della produzione normativa, che definisce il tipo di politicità dello 'Stato moderno', il quale ha rappresentato tanto un modello, quanto un dispositivo istizional-dottrinale inestricabilmente connesso a una realtà storica determinata e circoscritta). A noi pare che per comprendere le logiche costitutive che segnano l'epoca moderna - almeno dal punto di vista politico-giuridico - e che ancora ci interpellano sia utile ragionare sulla nozione di 'freno (Katéchon) interno'. Non nel senso della conservazione e della estraneità, ma del freno innovativo e riordinativo, capace di produrre integrazioni su basi nuove, più inclusive: lo Stato sociale di diritto, la democrazia costituzionale, ad esempio, hanno rappresentato nel Novecento tanto un argine alle accelerazioni distruttive prodotte dalla modernizzazione capitalistica quanto uno strumento fondamentale per riconoscere nuovi diritti governando il conflitto sociale. Il diritto moderno, con le sue trasformazioni, è stato uno dei 'freni' principali attraverso cui si è data 'forma' alle società post-tradizionali. Ora, a noi pare che la fase politica attuale sia caratterizzata da una allarmante alterazione di quell'equilibrio instabile tra freni e accelerazioni che aveva segnato in positivo il secondo dopoguerra. Siamo cioè di fronte a una tendenza, che nasce nel seno dell'Occidente, all'abbattimento di ogni nozione di 'limite' - anche artificiale, razionalistico, 'democratico-costituzionale' - e a una spinta violenta alla negazione delle regole, almeno quando esse non siano sfruttabili strumentalmente come mezzo per tutelare le asimmetrie che la globalizzazione neoliberista produce e amplifica. Poiché tale 'Antico Regime globale' deve essere tutelato a qualsiasi costo, quando sia necessario - e lo è sempre più spesso - si può e si deve fare a meno anche del diritto. L'universalismo 'realistico' del diritto moderno (l'uguaglianza formale di fronte alla legge, il divieto formale di discriminazioni e di status privilegiati, insomma l'eredità che pareva indiscussa della Rivoluzione francese) sta diventando un vincolo oneroso, un impaccio di cui liberarsi. Per quanto rappresenti una soglia minimale, rispetto ad esempio al progetto habermasiano e all'utopia ragionevole di un costituzionalismo mondiale, tale universalismo giuridico-formale non è più scontato, è divenuto anzi in qualche modo, se preso sul serio, 'rivoluzionario'. Il corrispettivo di ciò in termini di politica del diritto è l'affermarsi di tendenze che mirano a sacrificare la portata universalistica ed emancipativa del diritto e persino la sua carica politico-pubblica, cedendo a forme radicali di privatizzazione, patrimonializzazione e particolarismo contrattualistico, fino ad arrivare, come accade sovente nel nostro patologico laboratorio italiano, ad un 'diritto á la carte'. Se tale diagnosi ha un qualche fondamento, dobbiamo constatare che forse per la prima volta ci troviamo nella necessità di individuare 'freni' a tutela della giuridificazione possibile, basata su quegli standard minimi scendere sotto i quali significherebbe 'fuoriuscire dal Moderno'. Rispetto a tale rischio, spesso la scienza del diritto e la teoria politica non mostrano un'adeguata consapevolezza, denunciando anzi una certa subalternità acritica alle parole d'ordine e alle drammatizzazioni funzionali al discorso mediatico che la cronaca politica 'globale' sempre più spesso ci propone.

Occorre invece riconoscere con radicalità, al di là delle contingenze e dei singoli contesti, il significato teorico-politico di fondo di tale tendenza a scendere sotto standard che pensavamo indisponibili. Non ci sembra affatto soddisfacente affermare che il diritto continuerà a esserci anche 'dopo il Leviatano', perché c'è sempre stato, anche prima del Moderno. Il problema è: quale diritto, qualificato come, in grado di assicurare quale prestazione? Oppure rivestire la nostra tarda-modernità di un'aura 'post-secolare', che consenta di liquidare le pretese ormai fuori tempo del 'progetto moderno'. Rispetto al quale, a nostro avviso, una cosa è constatarne la strutturale incompiutezza e anche la produttiva aporeticità, un'altra è darlo per superato. A noi pare al contrario che la tarda-modernità sia ancora 'dentro la secolarizzazione': per questo l'universalismo formale del diritto è ancora così centrale normativamente, e oggetto di disputa. Purtroppo, la cosiddetta 'post-statualità' non sembra affatto andare verso il superamento dei confini rigidi degli Stati nazionali e la globalizzazione dei diritti, cioè la generalizzazione su scala globale del paradigma dello Stato costituzionale del secondo Novecento, ma semmai verso il rafforzamento di microsovranità su base etnica e di nuove, più intense linee divisorie 'globali', svincolate anche dagli standard di reciprocità formale - certo insufficienti ma non disprezzabili - assicurati dal diritto internazionale 'westfaliano'.

Il problema oggi non è quello di gettare il cuore oltre l'ostacolo, limitandosi a constatare con soddisfazione il salto di quel 'tappo' statualistico che avrebbe tenuto compresse le potenzialità modernizzatici della 'società-mondo' bloccando l'innovazione e il conflitto su scala globale, e rimettendosi a una globalità poliedrica, ma innanzitutto quello dell'effettività dell'universalismo, della sua coerenza, della sua capacità critica e soprattutto auto-critica, delle ipoteche realistiche alle quali deve essere costantemente e pazientemente rapportato. Possiamo permetterci di abbandonare il tentativo, solo perché problematico e oneroso (non solo dal punto di vista pratico, ma proprio dal punto di vista della costruzione categoriale), di provare a prendere sul serio i presupposti e i vincoli dell'universalismo, di procacciargli realtà (certo con una dose necessaria e sufficiente di prudenza politica, ma non tale da negarlo in radice)? Indubbiamente un'impostazione di questo genere non consente di occultare l'impatto violentemente asimmetrico della globalizzazione neo-liberista né di ammettere forme di universalismo ad hoc (di cui i tribunali ad hoc - strutturalmente particolaristici - sono strumento privilegiato) - autocontradditorio, polemogeno e odiosamente polemico -, l'unico che a molti sembra oggi compatibile con la potenza 'universalistica' dell'Occidente (o con una sua certa interpretazione ideologica).

Il progetto universalista moderno, che nella sua versione normativa 'pura' riteneva possibile la 'costituzionalizzazione del mondo', e che su un piano certamente più pragmatico e spurio aveva comunque condotto dopo il disastro della seconda guerra mondiale ad un abbozzo di diritto cosmopolitico e di istituzionalizzazione della comunità internazionale, è oggi sfidato e messo a repentaglio dalle conseguenze geopolitiche della fine del bipolarismo mondiale. Proprio la fine dell'equilibrio del terrore e della divisione in blocchi - che sembravano costituire l'ostacolo maggiore all'affermazione del costituzionalismo mondiale e ad un governo ragionevole, tendenzialmente pacifico dei conflitti -, hanno aperto, già a partire dalla prima Guerra del Golfo, ma soprattutto con le guerre in Kosowo e in Afghanistan, l'incancrenimento del conflitto mediorientale e l'effetto-domino dell'11 settembre, una fase di radicale sovvertimento delle regole minime non solo del nuovo diritto cosmopolitico, ma persino delle auree geometrie westfaliane proprie dello jus publicum europaeum.

Di fronte all'emergenza del terrorismo globale, vengono propalate con stile spiccio categorie quali quelle di 'guerra infinita', 'guerra preventiva', 'Stato canaglia', che fanno saltare le garanzie assicurate dal diritto interstatale (riconoscimento reciproco di sovranità formalmente paritarie, divieto di ingerenza negli affari interni), ma minano, strumentalizzandole, anche quelle del diritto cosmopolitico, attraverso un'utilizzazione del diritto di ingerenza umanitaria asimmetrico e intermittente, lo sfruttamento in chiave ideologica e profondamente incoerente dei diritti umani, tradendone l'universalismo, addirittura la delegittimazione e l'aggiramento dell'ONU, unitamente però alla pretesa di far valere in modo unilaterale e arbitrario, appellandosi ad una presunta auctoritas morale e soprattutto alla propria forza militare, le nuove regole del diritto cosmopolitico che proprio l'ONU sarebbe l'unico soggetto autorizzato ad amministrare. Si delinea così una situazione di perniciosa incertezza giuridica sul piano della politica internazionale, alimentata dalla compresenza ambigua di un doppio paradigma del diritto internazionale, uno tradizionale, e uno confusamente 'giuridico-morale'. Il primo rivendicato gelosamente da macro-sovranità iperprotette, non più reciproche e formalmente paritarie. Il secondo utilizzato per gli 'altri', i nemici da disconoscere perfino nel loro status di nemici 'legittimi', perché incarnano il Male assoluto da estirpare in nome della Giustizia assoluta, della Libertà, dell'Umanità, insomma dell'Occidente, rinverdendo un uso politico del concetto di civiltà che credevamo tramontato per sempre. Tutto ciò con l'universalismo moderno non ha più nulla a che fare, è precisamente ciò da cui e contro cui il Moderno 'hobbesiano' - razionalista, laico e disincantato - è sorto: quel 'paradigma controversistico' che - forse non guasta ricordarlo - abbiamo inventato noi occidentali, cristiani ecc.

La 'guerra giusnaturalistica' (cioè in nome della morale, delle 'cose ultime') rischia di divenire la forma prevalente del conflitto globale. Ciò significa che in tale orizzonte non si danno più guerre costituenti, ordinative, perché in gioco non è primariamente lo spazio, e perché non sono possibili paci compromissorie, concrete, che definiscano un equilibrio geopolitico nel quale ci siano vantaggi e oneri, assunzioni di responsabilità e impegni. L'unico pace possibile essendo quella - assoluta e quindi impossibile - con un nemico che deve essere annientato in quanto 'assoluto' e in quanto non ricacciabile nei propri confini, poiché è ovunque. La stessa categoria di 'Stato-canaglia' serve a delegittimare il diritto internazionale (positivistico-moderno), disconoscendone e discriminandone i soggetti, cioè a sottrarsi agli obblighi che esso implica anche verso i soggetti sgraditi, a consentire che gli atti condotti verso di essi siano immunizzati rispetto alla qualificazione erga omnes operata dalle categorie giuridiche formali (guerra di aggressione, trattamento dei civili e dei prigionieri, non ingerenza) riservandosene però la vigenza, ad occultare l'evidenza della propria polemicità (magari anche giustificata e comprensibile, ma non è questo che conta su tale piano). Parafrasando Schmitt, si potrebbe dire che oggi 'sovrano è chi decide lo scarto da un paradigma all'altro'. In effetti stiamo assistendo allo sviluppo di una forma di 'ipersovranità', che nega di fatto le sovranità tradizionali - le quali implicavano strutturalmente l'ammissione di altri soggetti almeno formalmente paritari e un effettivo pluriverso politico -, contrapponendo ad esse il monopolio unilaterale dell'etica globale e della legittimazione ad usare la forza arbitrariamente, senza alcun limite che non sia quello posto da chi quel monopolio detiene. Siamo cioè di fronte all'affermarsi di fatto di una pretesa - contraddittoria - alla 'custodia del mondo'. Contraddittoria perché la figura del 'custode' (pensiamo al classico confronto tra Kelsen e Schmitt sul tema) non implica certamente una neutralità fittizia, ma un potere terzo e imparziale: che succede se chi si arroga questo ruolo è inevitabilmente, strutturalmente, terzo e parziale? Ma contraddittoria anche perché forse il mondo non vuole farsi custodire, avendo necessità di politiche concertate, realisticamente mirate a sanare disuguaglianze e focolai di contrasti, che tengano conto della sua pluralità sulla base di un criterio almeno tendenziale di pari dignità.

A nostro avviso ogni tentativo - anche quello condotto con le migliori intenzioni - di tradurre in un paradigma giurisdizionale su base etica un conflitto politico estremo serba di per sé dei rischi. Ma la deriva che così si inaugura diviene addirittura perniciosa in assenza dell'istituzionalizzazione del Terzo e del rifiuto di edificarne e riconoscerne anche delle approssimazioni, dei simulacri. Questo del 'Terzo', come ci ha insegnato Bobbio, non è solo un problema politico-pratico, un dato contingente da apprezzare sociologicamente o storicamente, ma è una questione teorica costitutiva, una precondizione logico-concettuale necessaria del paradigma stesso.

Nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza di sicurezza dell'ONU successive all'11 settembre - al di là dell'orrore per l'accaduto e della comprensibile necessità di dare anche da un punto di vista retorico-morale un segnale forte, che rappresentasse un monito della comunità internazionale -, è possibile constatare lo scivolamento azzardato con il quale ci si richiama senza specificazioni e delimitazioni precise al "diritto naturale alla legittima difesa". La formula (soprattutto quel termine, 'naturale') - forse nella totale inconsapevolezza dei suoi autori, e quindi a dispetto delle loro intenzioni (ciò che è però teoricamente del tutto irrilevante), o forse proprio in vista di futuri usi non retorici - è di per sé assai rivelativa e sintomatica dal punto di vista della semantica storica dei concetti politici. Di fatto, si apre la strada alla reintroduzione selettiva e discriminatoria dello ius ad omnia nella politica internazionale. Siamo qui di fronte al paradosso di istituzioni della comunità internazionale - quello che dovrebbe essere un embrione di civitas maxima - che sanciscono e legittimano lo stato di natura (cioè il proprio contrario). Perché se vale il paradigma hobbesiano (e cioè il modello dell'obbligazione politica moderna), così come la sua proiezione su scala mondiale attraverso l'analogia domestica, non si può non vedere come ammettendo lo ius ad omnia non sia possibile l'ordine artificiale garantito dalla terzietà e si ripiombi inevitabilmente nella guerra di tutti contro tutti. E che cos'è un generico, incontrollato diritto 'naturale' alla legittima difesa se non lo ius ad omnia? Infatti il soggetto che ne è titolare detiene in via definitiva la facoltà di giudicare in ultima istanza e insindacabilmente sulla legittimità delle proprie azioni e di quelle altrui, e un'autorizzazione illimitata all'uso della forza, anche 'preventiva' (o presuntamente tale). Chi può giudicare della minaccia, se non chi ne è, o ritiene di esserne, o ha un vantaggio strategico ad accreditarsene, vittima? La conseguenza politica di ciò non può che essere la pretesa ad una giustificazione aprioristica di una 'guerra preventiva' dai contorni indefiniti, basata sul concetto di 'first strike' (sul quale ogni decisione non può che essere rimessa alla valutazione del soggetto che la assume, e quindi porsi in modo totalmente arbitrario). Una guerra illimitata basata su un concetto strumentale e fittizio di 'difesa', strutturalmente 'illegittimo', perché collocato per principio al di sopra e al di fuori del diritto internazionale e dei suoi vincoli tassativi di autorizzazione ed esecuzione. Una guerra 'totale' estranea alla logica giuridica. Il paradosso - teorico e ideologico - che così si determina è che mentre in Hobbes avevamo una strategia di fuoriuscita giusnaturalistica dal diritto naturale, qui abbiamo una dinamica di fuoriuscita 'giusnaturalistica' dal diritto positivo (magari metodologicamente ancora giuspositivistica - se possibile e utile -, ma giusnaturalistica dal punto di vista della legittimazione, cioè della drammatizzazione dei contenuti morali sulla cui base avviene: l'abbandono delle procedure ridotte a simulacro rappresenta uno scarto tragico ulteriore, che tuttavia non sorprende).

L'attuale tentativo di moralizzare - cioè autorizzare su basi morali - lo stato di natura internazionale 'asimmetrico' nasconde a nostro avviso la necessità di mantenere uno 'stato di eccezione permanente', finalizzato alla conservazione dello status quo globale (cioè alla riproduzione e al rafforzamento delle sue condizioni materiali). Così il diritto, ma anche l'etica pubblica, si risolvono nella legittimazione del diritto del più forte. Quando ci si arroga il diritto 'morale' di usare la forza unilateralmente e preventivamente si entra in una logica di pura, nuda potenza e si fuoriesce dal razionalismo giuridico, delegittimando il nucleo assiologico minimo di quell'Occidente in nome del quale si dice di ergersi. Tale rischio di tramonto del diritto ci sembra il segnale più allarmante dell'eclisse dell'universalismo critico. Quella del 'finto universale' non potrà che essere l'epoca della polemicità assoluta e totale, nella quale tutto è possibile perché tutto è legittimo, in quanto ciascuno si legittima da sé. Ma la contrapposizione di particolare a particolare non conduce ad altro che al dominio della nuda forza. Non una forza ordinante, non una forza anche solo minimamente regolata, non la forza che assume l'onere e la responsabilità della politica weberianamente intesa, ma la volontà di potenza che affermando se stessa pretende di assegnarsi un presunto primato morale: nichilismo in atto. Il vecchio, cattivo, sgradevole Schmitt, almeno su questo, aveva visto lontano:

"Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura in cui gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere ... L'avversario non si chiama più nemico, ma perciò egli viene posto, come violatore e disturbatore della pace, hors-la-loiehors l'humanité, e una guerra condotta per il mantenimento o l'allargamento di posizioni economiche di potere deve essere trasformata, con il ricorso alla propaganda, nella «crociata» e nell'«ultima guerra dell'umanità»" (2).


Note

*. Da R. Esposito, L. Bazzicalupo (a cura di), Sovranità, vita, politica, Roma-Bari, Laterza, in corso di pubblicazione.

1. Sulla contrapposizione tra diritto civile e diritto commerciale nell'età globale, cfr. N.Irti, Norma e luoghi, Roma-Bari, Laterza, 2001.

2. C.Schmitt, Il concetto di 'politico', trad. it. in Id., Le categorie del 'politico', a cura di G.Miglio e P.Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 164-65.